Carbonia. In contrasto col resto del territorio nei centri minerari vince la sinistra

20 Dicembre 2020
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Gianna Lai

Di domenica, in questo blog, si parla del Movimento dei minatori di Carbonia, dal 1° settembre 2019.

Le sinistre a Carbonia  assumono il rilievo di protagoniste, incidendo fortemente d’ora in poi nella vita del territorio,
Altrettanto significativa l’affermazione ad Iglesias della Lista del popolo, che conquista il 56,4% dei voti, il 66,1% a Guspini. E governano complessivamente, PCI e PSI, su “52 comuni, con maggioranze schiaccianti in quelli minerari”,  leggiamo in Girolamo Sotgiu, il quale sottolinea come “nel Sulcis-Iglesiente e in provincia di Cagliari” si siano raggiunti i migliori risultati della primavera 1946. E se la Democrazia cristiana ha  la meglio in Sardegna,  quello dei minatori è da ritenersi, pur “minoritario, un largo e combattivo movimento di sinistra”, in grado di radicarsi e di espandersi ben oltre i confini della miniera stessa. Riprendendo lo studioso il discorso dei dirigenti comunisti di quel tempo, “il rilancio dell’industria mineraria e la crescita di un forte movimento operaio”, soggetti centrali dello sviluppo dell’intera isola, così come soleva spesso ripetere lo stesso Velio Spano nei suoi interventi presso la Camera del lavoro cittadina.
Sì, a sostegno dell’inquietante esito referendario, che vede il 60,9% dei sardi votare nell’isola per la monarchia, alle amministrative  “la Dc raccolse ben il 41,1% dei voti. E con gli altri raggruppamenti di destra (Uomo qualunque 12,4%, UDN 6,38%, Lega sarda 2%), ebbe largamente la maggioranza assoluta dei suffragi, anche se il 39,7% raccolto dalle sinistre, (PSd’A 14,9%, PCI 12,5%, PSIUP 8,9%) stava a dimostrare la loro notevole forza”, come sottolinea  anche la professoressa M.L. Di Felice nella sua recente pubblicazione su Renzo Laconi
Questi, ancora,  i dati della Prefettura di Cagliari sulla Costituente, nella Nota di giugno, “6 deputati  per la DC, 2 per il Psd’az, 1 per il partito comunista, 1 per il partito socialista,  1 per L’Uomo Qualunque”.
Così a livello nazionale, dove la DC si afferma come partito di maggioranza relativa,  35,18%, e la destra conservatrice conquista il 15% dei voti. Una “destra,  liberale ma, sopratutto, qualunquista, monarchica, neofascista”, che avrebbe esercitato,  per tutto il dopoguerra, “una pressione fortissima  sulla DC, e sui governi centristi, condizionando tutta la vita  politica e sociale nazionale”, come dice Paolo  Spriano, commentando quegli esiti elettorali ne ‘Le passioni di un decennio’. Né era affatto trascurabile il pericolo presente di un orientamento verso destra, secondo Giovanni De Luna: “la stessa opinione pubblica monarchica che emerse al Sud in occasione del referendum del 2 giugno ‘46 e l’affermarsi contemporaneo di culture politiche radicalmente opposte alle scelte dell’antifascismo, proprio per la loro comune avversione alla necessità di costruire uno Stato democratico, possono essere interpretate come una prova della frammentazione politica del paese, consegnando alle istanze monarchiche una valenza paradossalmente ricca di significati antiunitari’.   Perché già si intravvedeva, nell’esito del Referendum, la grave spaccatura tra Nord e Sud, il Meridione attribuendo alla Monarchia il 64% dei suoi voti, “conseguenza, come dice ancora Paolo Spriano, del modo in cui le due zone avevano vissuto la guerra”. Mentre si fa più preciso l’appoggio della chiesa al partito democristiano, che impone una politica di ‘continuità dello Stato’, decisamente sostenuta dagli americani, nella direzione, cioé, di  una scelta di campo filoccidentale.
Partito moderato di massa, quello dei cattolici, verso la costruzione di un blocco di potere interclassista, attraverso l’organizzazione di “un grande e articolato sistema di consensi”. Ma resta tuttavia “spettacolare la crescita del PCI, 1 milione e 770 mila iscritti alla fine del ‘45″, terzo partito in Italia e autentico partito di massa: “accanto agli interessi dei proletari di fabbrica, la gestione delle lotte dei contadini nel Mezzogiorno e i contatti con i piccoli commercianti, e i piccoli proprietari agricoli oberati dalle tasse, e con gli artigiani schiacciati dalla concorrenza delle grandi industrie”, come dice in un suo saggio Giuliano Procacci 6). Ed è in nome di questa ampia adesione ottenuta a livello sociale che il PCI avrebbe ancora dedicato particolare impegno al dialogo coi cattolici, pur se “il progetto di unità con la DC e con i socialisti sarebbe stato infranto di lì a poco dalla guerra fredda, a partire dal 1947″.   Così anche in Sardegna, “pur nell’unità formale che ancora esisteva a livello di governo e nella stessa Consulta regionale” come spiega bene  Girolamo Sotgiu, le elezioni amministrative e la campagna per la Costituente e per il Referendum avevano  messo in evidenza più i contrasti che le intese,  in particolare tra il PCI e la Democrazia cristiana 7). Mentre nel  PSIUP dei socialisti, espressione dei ceti medi e degli operai qualificati del Nord, ancora più impegnativo si sarebbe fatto, d’ora in poi, il dialogo interno sui rapporti da tenere con il partito comunista.

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