La “riconquista” del “disegno europeo”

3 Dicembre 2020
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Gianfranco Sabattini

Mentre nel marzo 2020 i Paesi membri dell’Unione Europa erano costretti a subire il lockdown, l’Europa “ha dato prova di una reattività francamente inaspettata”; in poche settimane, afferma Francesco Saraceno in “La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela”, mentre si espandeva a livello mondiale l’epidemia da Covid-19 e l’economia mondiale “entrava in coma”. è apparso evidente ai responsabili delle istituzioni finanziarie dei singoli Paesi e alla Commissione europea che “per evitare il tracollo delle economie occorreva ogni sforzo per mantenere in vita le imprese e sostenere il reddito delle famiglie, affinché queste si facessero trovare pronte al momento della partenza”.
Tuttavia, avverte Saraceno, non è da questo momento emergenziale che si dovrà partire per “discutere del futuro dell’economia europea e delle sue regole”, tanto più che, nonostante l’eccezionalità della situazione creata dall’epidemia, le polemiche tra “Paesi frugali” e “Paesi cicala” non si sono placate; ne è prova il fatto che i dissensi sul Recovery Fund, sulla mutualizzazione del debito e sulle condizioni per fruire dei fondi del MES e di altre opportunità offerte dalle istituzioni europee hanno riproposto, in termini più radicali che nel passato, la contrapposizione tra l’”Europa delle regole” e l’”Europa delle regole comuni”.
Dopo la crisi finanziaria della Grande Recessione del 2007-2008, si pensava fosse necessaria l’attuazione di un piano di interventi per il contenimento degli esiti indesiderati della crisi (interventi sul tipo di quelli adottati dopo la Grande Depressione, seguita al crollo nel 1929 della borsa di Wall Street); però, non si è considerato che – osserva Saraceno -, a differenza delle due crisi mondiali appena ricordate, quella scoppiata nel 2020 è stata causata da un evento del tutto eccezionale che, investendo rapidamente tutti i Paesi, ha determinato una diminuzione del PIL e un aumento generalizzato della disoccupazione.
Le ragioni della diversità dell’attuale crisi vanno inoltre ricondotte alla dimensione senza presedenti degli effetti negativi generati e al fatto che questi ultimi sfuggano – come evidenzia Saraceno – “a tutte le categorie utilizzate abitualmente dai macroeconomisti”; ciò perché l’improvvisa caduta simultanea di produzione e reddito “impedisce di utilizzare gli strumenti analitici abituali”: è crollata la domanda complessiva per il tracollo del reddito, ma è crollata “brutalmente” anche l’offerta aggregata, a causa della chiusura di gran parte delle attività produttive, della rarefazione degli ordini e della disarticolazione delle “catene di approvvigionamento di beni intermedi”. Per questo motivo, le politiche di bilancio e monetarie attuate dai singoli Paesi colpiti dal Covid-19 hanno avuto come priorità il sostegno alle imprese, “contrariamente – nota Saraceno – a quanto avviene durante una crisi ‘classica’ di domanda di tipo keynesiano”. Mantenere in vita l’apparato produttivo significava tenere alto il livello dell’occupazione e, indirettamente, quello del reddito.
L’attuazione delle politiche di sostegno all’occupazione e al reddito avrà un impatto senza precedenti sulla finanze pubbliche; al riguardo, per il nostro Paese, la Banca d’Italia prevede che, per il 2020, il disavanzo pubblico di parte corrente e il debito pubblico consolidato saranno pari, rispettivamente, al 10,4% e al 156% del PIL. Di fronte al fabbisogno di risorse finanziarie dei singoli Stati, le istituzioni europee non sono rimaste assenti. La Banca Centrale Europea (BCE), ad esempio, ha protetto i Paesi dell’Eurozona da possibili azioni speculative dei mercati, con l’acquisto di titoli pubblici e con l’attuazione di altre misure di sostegno, contribuendo a fornire liquidità alle imprese.
Accanto alla BCE, anche la Commissione europea, per la prima volta nella sua storia, ha “attivato – ricorda Saraceno – la clausola di sospensione delle regole di bilancio europee”, ovvero del Trattato di Stabilità (il Patto sul sulla stabilità, coordinamento e governance dell’Eurozona). A queste misure ha fatto seguito, dietro iniziativa della stessa Commissione e del Consiglio Europeo, l’approvazione di un programma di medio termine, che prevede l’istituzione di un Fondo per la ripresa da 750 miliardi (Recovery Fund), finanziato attraverso l’emissione di titoli garantiti dal bilancio europeo; circa la metà dei 750 miliardi (poi ridotti a 500, per la contrarietà dei “Paesi frugali”) saranno trasferiti ai Paesi membri nell’arco di quattro anni, tra il 2021 e il 2024. Ciò che caratterizza significativamente l’istituzione del Fondo per la ripresa è che la risorse saranno trasferite ai Paesi membri dell’Eurozona secondo un criterio che terrà conto “degli effetti asimmetrici della crisi, allocando quindi i fondi secondo i bisogni di ogni Paese membro”. Ciò favorirà l’Italia, ma avrà vantaggi per tutti.
L’istituzione del Fondo, sottolinea Saraceno, rappresenta un “salto di qualità” eccezionale, in quanto esso è il risultato di “una capacità di intervento centralizzata, finanziata in base alla ricchezza dei singoli Paesi e distribuita in base ai bisogni”; si tratta quindi di un processo distributivo che ricalca in “modo embrionale” le modalità di stabilizzazione di un’area economica di tipo federale, che da molti auspicato fin dai primi anni di esistenza dell’euro, ma oggetto di un dibattito che continua tuttora, nel quale “la posizione del riformista ha troppo spesso recitato il ruolo dl vaso di coccio tra i vasi di ferro, stritolata dall’innaturale alleanza tra posizioni euroscettiche e difensori dello status quo”.
Le posizioni dei riformisti, infatti, sono sempre state condizionate dal ruolo egemone di Berlino, che ha consentito alla Germania di “dominare non solo l’approccio alle politiche di contrasto alle crisi, ma anche il processo a volte un po’ caotico di riforma delle istituzioni europee tra il 2011 e il 2015”; un approccio, quello della Germania, che assieme ai “Paesi frugali”, ha sempre contrastato qualunque ipotesi di riforma, puntando il dito sulla mancata osservanza della disciplina di bilancio da parte dei “Paesi cicala”.
Secondo la “dottrina di Berlino”, per evitare le crisi sarebbe stato sufficiente  introdurre solo regole più stringenti nei confronti dei Paesi più indisciplinati nella gestione della loro spesa pubblica; l’Eurozona, perciò, avrebbe potuto assorbire gli shock finanziari, solo se i rischi macroeconomici fossero stati ridotti in ogni Paese membro, “attraverso riforme e disciplina fiscale, che [avessero consentito] alle forze di mercato di operare liberamente per portare alla convergenza con i Paesi partner”. La conseguenza della dottrina ordinovista di Berlino sarebbe stata che, “prima di accedere alla solidarietà europea”, qualunque trasferimento tra Paesi membri dell’Eurozona subordinato al prevntivo rispetto delle regole da parte dei Paesi più indisciplinati.
E’ per questo motivo che le riforme istituzionali introdotte a seguito della crisi del debito pubblico occorso dopo il 2010, se prese nel loro insieme, “[hanno risposto] – a parere di Saraceno – quasi esclusivamente all’esigenza di rafforzare la disciplina di bilancio, e di evitare il contagio in caso di comportamenti irresponsabili di alcuni governi”; per lo stesso motivo, nonostante l’emergenza seguita alla crisi da Covid-19, i “Paesi frugali” hanno contrastato l’adozione del “Recovery Fund”, temendo che “lo sforzo congiunto di contrasto alla crisi” avrebbe consentito ai “Paesi dissoluti” di deviare dalla disciplina di bilancio. I “Paesi frugali”, però (e con loro, la Germania) hanno sempre ignorato ciò che l’esperienza valeva ad evidenziare, cioè che “i mercati non possono fare tutto da soli”; perché essi possano funzionare correttamente, “occorrono meccanismi di condivisione del rischio tra i diversi Paesi, che replichino almeno in parte quelli che sono naturalmente presenti in uno Stato federale”. Poiché ciò non è possibile, in quanto sarebbe necessaria un’unione politica oggi assente in Europa, si dovrebbe piuttosto ragionare, secondo Saraceno, di “meccanismi surrogati, come un sussidio di disoccupazione europeo, meccanismi di mutualizzazione del debito come quello, sia pure parziale, introdotto con il Fondo per la ripresa, o ancora progetti di investimento comuni”. Tutti strumenti, questi ultimi, la cui importanza è stata evidenziata dallo scoppio della pandemia.
L’adozione di tali strumenti si fonda sul fatto che, in linea di principio, la riduzione del rischio e la sua condivisione non sono incompatibili; tuttavia, il principio dell’ottimalità dei meccanismi di mercato nega tale compatibilità, a meno che essa non sia inquadrata nella prospettiva si uno Stato Federale, la cui istituzione in Europa si è sempre scontrata con l’opposizione dei “Paesi del cosiddetto centro dell’Eurozona”. Tuttavia, in assenza di una struttura statuale europea di natura federale, i “meccanismi surrogati” varrebbero a garantire convergenza e coesione in caso di crisi tra i Paesi membri che costituiscono l’area della moneta unica; a tal fine occorre però abbandonare il principio di efficienza dei mercati, “per sostituirlo – sostiene Saraceno – con la visione (che era di Keynes) per cui la crescita e la stabilità economica risultano da un complesso insieme d’interazioni tra due istituzioni intrinsecamente imperfette: da un lato i mercati, […]; dall’altro lo Stato”.
All’incrocio di queste due istituzioni imperfette dovrebbe operare l’autorità di politica economica europea, “interagendo con i mercati attraverso una combinazione d’incentivi, regolamentazione e interventi diretti, al fine di garantire la stabilità del sistema”. L’azione di questa autorità politica si affiancherebbe così all’unica istituzione di stampo federale, la BCE, sollevando una parte del peso che finora ha dovuto sopportare da sola. Tale azione risulterebbe però assai limitata, se non fosse dotata di una autonoma capacità di bilancio, per “reperire e allocare risorse ai fini della stabilizzazione del ciclo, soprattutto quando i Paesi membri tendono a muoversi in direzioni diverse”.
Per Saraceno, lo spazio politico riservato ad una critica riformista dello status quo è sempre stato limitato, anche nei momenti in cui erano più evidenti “la fragilità teorica e i costi (sociali ed economici) delle politiche imposte dalla dottrina di Berlino”. Questa dottrina, dopo la recessione subita dall’Eurozona nel 2012, è valsa a diffondere l’euroscetticismo e l’ideologia sovranista, ma non ha dato forza a chi, da sempre, “preconizzava un’Europa diversa”. Sino alla crisi causata dal Covid-19, il pilastro che ha sorretto l’immobilismo europeo è stato la Germania; ma ora – conclude Saraceno - vi sono valide ragioni per credere che anche per essa “i benefici dello status quo si stiano erodendo” e che molte delle contraddizioni del “modello frugale” di governo dell’area monetaria comune siano divenute sempre più evidenti. Oggi, perciò, non è più fantasia pensare che l’Europa, in sostituzione della Germania, possa essere “riconquistata” a una posizione centrale nel governo dell’area monetaria comune, aperta alla solidarietà tra i Paesi europei.
Insomma, viene da pensare che gli effetti devastanti causati dall’attuale pandemia abbiano “accelerato la crisi del “modello frugale” di governo dell’Eurozona; pertanto, il Coronavirus avrebbe agito da detonatore per favorire la “riconquista” dell’Europa, mettendola sulla via di una reale unificazione politica, nel quadro di uno Stato federale Europeo. Come è sempre stato nelle aspirazioni degli europeisti,

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