Le ragioni sostanziali per opporsi alla disuguaglianza distributiva

25 Agosto 2020
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Gianfranco Sabattini

La disuguaglianza economica che caratterizza oggi il mondo è esposta a una serie di obiezioni di tipo morale e sostanziale; secondo Thomas Scanlon (già docente presso il Dipartimento di filosofia dell’Università di Harvard e autore di “Perché opporsi alla disuguaglianza” (Il Mulino, n. 5/2019), non è stato sinora possibile ridurre o rimuovere la disuguaglianza distributiva per via del fatto che ancora non sono state individuate in modo univoco le ragioni della sua formazione e del suo continuo approfondimento.
Scanlon ritiene che tra queste ragioni, quella che spinge le istituzioni pubbliche di una comunità a ridistribuire risorse da coloro che “stanno meglio” a “coloro che stanno peggio”, per migliorare le condizioni esistenziali di questi ultimi a un costo per i primi relativamente contenuto, sia di natura morale; essa, però, per quanto possa essere una “ragione forte”, non è sufficiente a giustificare incontrovertibilmente l’opportunità di un’opposizione alla persistenza della disuguaglianza.
Il problema da affrontare è perciò quello di individuare quale possa essere la ragione obiettiva con cui giustificare la lotta contro l’ineguale distribuzione delle opportunità di vita tra i componenti una comunità, tenendo conto che un’eccessiva importanza attribuita a questa lotta può esporre l’azione delle istituzioni pubbliche alla critica d’essere controindicativa rispetto ad una desiderabile stabilità economica e politica del sistema sociale. Il giusto equilibrio tra azione ridistributiva e stabilità della crescita materiale del sistema sociale diventa così un obiettivo tutt’altro che facile, come stanno a dimostrare i tentativi sperimentati per trovarlo.
La crescita materiale è stata tradizionalmente intesa dalla teoria economica come un fatto quantitativo, misurato normalmente dalla percentuale di aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL), mentre i benefici della crescita, consistenti in un generale innalzamento qualitativo delle condizioni di vita dei membri di una comunità, sono stati indicati con il termine sviluppo. I due concetti sono tra loro collegati dal fatto che laddove c’è crescita c’è anche sviluppo.
Tenendo conto della natura strutturale di uesta relazione, è facile comprendere perché il PIL, l’indice che misura le dimensione del paniere di beni e servizi prodotti, sia stato assunto come punto di riferimento verso il quale gli economisti e i politici di ogni Paese hanno sempre indirizzato la loro attenzione. Nel tempo, l’inadeguatezza del PIL, come misura sintetica dello sviluppo, è diventata sempre più evidente, soprattutto allorché è cresciuta la certezza che il livello di attività del sistema economico che accresce il PIL, può causare una diminuzione dello sviluppo.
La crescita economica, il “grande motore” che per un lungo periodo di tempo ha sorretto lo sviluppo dei Paesi economicamente avanzati, ha infatti esaurito la sua “spinta”, nel senso che gli indicatori dello sviluppo hanno cessato di crescere di pari passo con il PIL; al contrario, nelle economie avanzate, con l’aumento della massa dei beni e servizi prodotti, sono aumentati i disagi comunitari. Le informazioni risultanti da molte ricerche sul campo hanno dimostrato che, con la crescita, il miglioramento della qualità della vita comunitaria si è attenuato, a causa soprattutto delle disuguaglianze distributive del prodotto sociale che hanno accompagnato la crescita stessa.
Com’è possibile ridurre le disparità distributive consolidatesi nei sistemi economici avanzati, o impedire che le stesse disparità si formino nei sistemi economici impegnati sulla via della loro crescita, al fine di evitare i disagi connessi al continuo miglioramento del PIL? Per lungo tempo, si è pensato che, per eliminare gli effetti negativi delle crescenti disuguaglianze economiche, bastasse procedere ad una ridistribuzione del paniere dei beni e servizi espressi dal PIL, effettuata sulla base di indici atti a misurare il livello di disuguaglianza da rimuovere o da contenere. Nell’elaborazione di tali indici, l’idea di fondo è stata che una più equa ripartizione dei beni e servizi prodotti facesse ricadere effetti positivi sull’intera comunità, sotto forma di nuovi posti di lavoro, di standard qualitativi di vita più elevati e di riduzione della povertà.
L’evidenza delle ricerche sul campo è valsa a dimostrare che non sempre la ridistribuzione consente di rimuovere o contenere il livello di disuguaglianza della qualità della vita; di conseguenza, la percentuale di crescita del PIL, pur mantenendo ancora un ruolo centrale come indicatore del livello di sviluppo, ha cessato di essere il solo parametro in grado di esprimerlo, aprendo così il problema di precisare cosa dovesse veramente intendersi per sviluppo e di individuare le ragioni che giustificassero la lotta alle disuguaglianze distributive.
Per alcuni, questa lotta non poteva più essere collegata ad una strategia fondata sulla semplice ridistribuzione del prodotto, finalizzata a garantire il soddisfacimento dei bisogni essenziali dei cittadini; per altri, la ridistribuzione andava ricondotta alla dimensione esistenziale dell’uomo, identificando il benessere, più che nella disponibilità di risorse, nella capacità di utilizzarle per la realizzazione dei singoli progetti di vita e nella libertà di scelta delle procedure con cui perseguirli. Ciò perché, se il PIL pro-capiate misura mediamente la disponibilità individuale di risorse, non è però, di per sé, un indice di sicuro sviluppo dell’uomo. Per questo motivo, non è più sufficiente guardare solo a ciò che i singoli soggetti sono nella condizione di fare e di essere con le risorse messe a loro a disposizione, ma occorre anche considerare ciò che essi sono erano in grado di fare e di essere grazie alle capacità e alla libertà di scelta con cui quelle risorse possono essere trasformate. Questa capacità e questa libertà vanno tenute presenti per giudicare dell’uguaglianza e della qualità della vita dei soggetti opranti all’interno delle singole comunità.
La teoria dello sviluppo dell’uomo è stata oggetto di molte critiche, in quanto ritenuta poco concreta, e perciò non dotata dell’auspicato giusto equilibrio che deve sempre esistere tra azione ridistributiva e stabilità del sistema sociale, del quale dovrebbe essere portatrice qualsiasi politica di contrasto alla disuguaglianza distributiva.
Solo di recente, Anthony Atkinson, in “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, trattando il problema della rimozione (o del contenimento) della disuguaglianza distributiva, ha formulato i contenuti di una possibile politica pubblica finalizzata a realizzare una giustizia distributiva dotata di maggiore concretezza rispetto a quella auspicata per lo sviluppo dell’uomo, e in grado di garantire un funzionale equilibrio tra azione ridistributiva e stabilità di funzionamento del sistema sociale. Tali contenuti sono fondati della possibile politica pubblica proposti da Atkinson sono formulati sulle lezioni della storia, nella consapevolezza che, nonostante la gravità del problema della disuguaglianza distributiva nel mondo moderno, il futuro dell’umanità sia ancora nelle mani degli uomini, che non sono del tutto sprovveduti davanti a forze a volte da essi stessi ritenute fuori dal loro controllo.
Secondo Atkinson, l’evocazione della parola disuguaglianza deve condurre a pensare che, per contrastarla, sarebbe meglio per le istituzioni pubbliche inaugurare una politica volta a realizzare per tutti una ”uguaglianza di opportunità” ex ante, tenendo però conto che, fra le determinanti degli esiti economici, vanno distinte quelle dovute a “circostanze” al di fuori del controllo personale da quelle riconducibili all’impegno responsabile di ogni singolo individuo. Limitarsi alla sola uguaglianza ex ante delle opportunità può essere efficace solo nel caso in cui le circostanze al di fuori del controllo personale non hanno alcun ruolo nelle determinazione del risultato finale conseguito dai singoli individui; neglo altri casi – sostiene Atkinson – il contenimento della disuguaglianza richiede anche un’attività ridistributiva ex post degli esiti finali. E’ dunque sbagliato pensare, come spesso accade, che la disuguaglianza degli esiti finali sia irrilevante, se si assume che, una volta istituzionalizzata l’uguaglianza ex ante delle opportunità debba essere trascurata l’ampiezza della disuguaglianza dei risultati finali.
In passato, il problema distributivo risentiva della prevalenza dell’utilitarismo; ma, per via del suo assunto che si potesse sommare le utilità individuali, esso è stato sostituito dalla teoria delle giustizia sociale di John Rawls, la cui visione ha portato ad inquadrare il problema della giustizia sociale in termini di accesso ai cosiddetti “beni primari”, quali le capacità, i diritti di libertà, le opportunità, il PIL e la ricchezza.
Atkinson, come Rawls, connota la giustizia sociale, non solo in termini dell’importanza che i beni possono avere per i singoli soggetti rispetto alle loro condizioni esistenziali, ma anche in termini delle capacità fisiche e della libertà di scelta degli stessi soggetti di poter fruire delle opportunità offerte dai beni in loro possesso. Entro un simile quadro di riferimento, il PIL diventa conseguentemente solo una delle dimensioni che stanno alla base di un’effettiva equità comunitaria, per cui – afferma Atkinson – “le differenze di reddito devono essere interpretate alla luce delle diverse circostanze e delle opportunità sottostanti”.
E’ difficile non concordare con l’analisi di Atkinson sugli effetti negativi della persistente e crescente disuguaglianza distributiva, propria delle economie avanzate; il pregio della sua analisi e delle sue proposte è rappresentato dal fatto che, a differenza dei sostenitori della teoria dello sviluppo dell’uomo e di tutti i “decrescisti” (ovvero, di coloro che, affrontando il problema dei guasti del modo di funzionare dei sistemi capitalistici moderni, non sanno proporre altro che introdurre un limite alla crescita, senza indicare come risolvere il problema del lavoro e dell’occupazione), egli non predica l’assoluta necessità che gli individui siano dotati solo del minimo indispensabile alla loro esistenza, nonché della capacità e della libertà di saperlo utilizzare, ma sottolinea con forza la necessità che gli uomini, facendo uso della loro razionalità e dei mezzi politici e materiali dei quali dispongono, pongano rimedio ad uno dei più importanti mali sociali che affliggono le collettività del nostro tempo.

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