Il conflitto Cina e USA combattuto con le armi del “geodiritto”

20 Giugno 2020
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Gianfranco Sabattini

 Il “geodiritto” riguarda l’impiego del diritto e del potere statuale al fine di regolare la condotta degli attori economici internazionali, in funzione delle specifiche situazioni generate dalla competizione a livello del mercato globale; in particolare, esso qualifica il modo di condurre la politica economica in termini di “capitalismo politico”, sulla base delle cui caratteristiche Stati Uniti e Cina si stanno confrontando, per legittimare l’egemonia mondiale del loro modello organizzativo, sia del sistema sociale che di quello economico.
Il capitalismo politico, secondo Alessandro Aresu, autore di un ponderoso saggio, dal titolo “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, può essere definito sulla base di alcune caratteristiche essenziali, quali: una “compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico”, che nei sistemi autoritari coincide con la preminenza di un partito-Stato, mentre nei sistemi democratici si caratterizza per l’intervento nella prefigurazione della politica economica dello Stato profondo, ovvero delle burocrazie della sicurezza e dei poteri d’emergenza; l’uso politico del commercio, della finanza e del progresso tecnologico, al fine di proteggere le industrie strategiche nazionali dalla concorrenza di quelle straniere; l’uso del geodiritto a difesa dell’economia nazionale, in funzione della sua espansione in condizioni di sicurezza. Sulla base di queste caratteristiche, la politica economica è intesa come “branca della scienza dei legislatori e degli statisti”, per cui il capitalismo politico esprime una realtà in cui le forze di mercato e la pervasività dello Stato concorrono a realizzare l’equilibrio tra la “mano invisibile” di smithiana memoria e la “mano visibile” dell’intervento statuale. Quali sono le forze che hanno sorretto la formazione del capitalismo politico?
Per Aresu, la nostra epoca è caratterizzata dalla crescente forza economica dei Paesi astaci, in particolare della Cina che, pur dichiarandosi Paese socialista, pratica un capitalismo configurabile come “economia socialista di mercato”. Su questa caratterizzazione dell’economia della superpotenza asiatica si è sviluppata un’ampia e variegata letteratura, che però non ha approfondito il motivo per cui, nonostante l’adozione del mercato per la regolazione del funzionamento del suo capitalismo, la Cina sia rimasta un Paese autoritario; ciò in quanto l’evoluzione della sua economia non è avvenuta sulla base delle leggi storiche dello sviluppo economico, ma con un allargamento del mercato che ha favorito la formazione di una classe di “capitalisti politici”, disposti ad operare all’interno di un ambiente istituzionale espresso da una sistema di relazioni intercorrenti tra forze di mercato, Stato e Partito; un ambiente che ha assicurato all’economia cinese un’eccezionale capacità di crescita durevole nel tempo.
L’idea di “un’eccezionalismo economico-giuridico cinese” è stata sviluppata e studiata, considerando la struttura economica della Cina, non come “capitalismo di Stato”, ma come un sistema in cui al contributo dello stato alla crescita delle imprese private si affianca il supporto del Partito comunista cinese nelle imprese di proprietà dello Stato. Vari fattori caratterizzano il funzionamento del capitalismo cinese: innanzitutto la posizione preminente dell’Agenzia governativa “State-owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council”, che controlla tutte le attività produttive di proprietà dello Stato”; in secondo luogo, il controllo finanziario attraverso il quale lo Stato incoraggia la competizione e l’innovazione; in terzo luogo, la “traduzione del controllo in azione”, attraverso la “National Development and Reform Commission”, il cui ruolo “non si limita alla predisposizione e all’indicazione del piano quinquennale, ma [concorre anche] ad adattare i prezzi necessari a raggiungere i risultati”; quindi, l’integrazione verticale dei conglomerati produttivi sotto la diretta influenza del Partito comunista cinese; inoltre, il fatto che il Partito eserciti il proprio controllo attraverso le nomine dei responsabili della conduzione delle attività economiche; infine, la libertà riconosciuta alle imprese private, nonostante i controlli, di affidarsi al mercato nel competere con le imprese statali.
L’insieme di queste caratteristiche hanno fatto dell’economia cinese una struttura tutt’altro che statica, su cui basare la rinascita del Paese e il radicamento del convincimento che il “rapporto organico tra sviluppo economico, innovazione autonoma e consolidamento del potere del partito comunista cinese” costituisca il presupposto per il ritorno della Cina sulla scena del mondo all’altezza della sua storia. A tal fine, la crescita economica serve alla Cina per accumulare i capitali necessari a finanziare la realizzazione all’estero di infrastrutture con finalità strategiche: in primo luogo, per estendere all’estero la capacità di assorbimento dei prodotti della propria esuberante capacità produttiva; poi, per meglio rispondere ad esigenze politiche interne ed esterne al Paese; infine, per indirizzare gli investimenti verso l’”alta tecnologia”, a supporto sia del potenziamento del mercato interno, che dell’espansione dei mercati esteri.
Dopo la crisi della Grande Recessione del 2007/2008, la strategia espansionistica cinese ha provocato,la reazione degli Stati Uniti che, preoccupati per la sicurezza del proprio impero economico, hanno fatto anch’essi ricorso alla “scienza del legislatore” come strumento di politica economica internazionale. In tal modo, l’America ha adottato un atteggiamento verso l’esterno fondato sull’assunto che, di fronte alla “minaccia” cinese, la mano invisibile di Smith avesse perso la sua originaria efficacia. L’elemento importante per la difesa dei propri interessi nel mondo è stato individuato dagli Stati Uniti nel ruolo che l’innovazione svolge come motore della crescita economica.
Da questo punto di vista – sostiene Aresu – anziché Smith, il più significativo economista è stato individuato in Joseph Scumpeter, per il quale il capitalismo diventa incomprensibile se si manca di tener conto della sua natura dinamica, che sovrasta ogni altra considerazione: senza evoluzione, innovazione e trasformazione non può esistere capitalismo, mentre un “capitalismo stabilizzato è una contraddizione in termini”. La posizione di Schumpeter sulla centralità dell’innovazione – continua Aresu – ha influenzato, dopo il 2007/2008, le politiche pubbliche degli Stati Uniti, nel senso che, in risposta alla minaccia cinese, essi hanno mobilitato le loro risorse economiche e politiche per produrre innovazione. In questa mobilitazione va identificato il capitalismo politico degli Stati Uniti, sorretto dal loro apparato scientifico-militare. Si tratta di un’identificazione che ha comportato che tutti gli organismi civili in stretti legami con quelli militari non potessero che “essere subordinati, in termini decisionali e di finanziamenti, agli apparati deputati alla sicurezza nazionale”.
In questa prospettiva, ogni attività produttiva è stata dichiarata strategica secondo criteri stabiliti direttamente dal Pentagono, per cui ogni attività è stata coordinata con le decisioni di politica economica per ragioni di sicurezza nazionale. Il capitalismo politico statunitense si è così radicato in un reticolo di relazioni che ha trovato la sua giustificazione – osserva Aresu – “nella sicurezza nazionale e nella mobilitazione delle capacità tecnico-scientifiche” a salvaguardia delle capacità di avanzamento dell’America nel mondo. Il capitalismo politico statunitense, quindi, ha dato origine a un modo di funzionare dell’economia “tutt’altro che piatto”, mediante il quale, “sotto la patina dell’estensione dei mercati” è stata ingaggiata con la Cina una guerra tecnologica, combattuta con le armi del geodiritto.
Questa interpretazione delle attuali relazioni tra Washington e Pechino smentisce l’”immagine ingenua della globalizzazione”, fondata sulla presunzione che, con il dinamismo della propria economia, la Cina dovesse diventare il motore della crescita dell’economia americana, mentre agli Stati Uniti, con la propria attività d’investimento, non rimaneva che il ruolo di motore delle riforme del sistema politico-economico cinese, autoritario per sua natura. In realtà, le relazioni tra le due superpotenze, anziché tradursi in un’interdipendenza pacifica delle loro economie, sono evolute nel senso di un’interdipendenza armata, fondata su una presunta “pace capitalista”. In questo contesto, poiché l’interdipendenza è stata resa incerta dal coinvolgimento della sicurezza nazionale, è stato inevitabile che essa diventasse una contrapposizione armata, esercitata “solo da chi possiede armi, e non solo mera capacità di mercato”.
Graham Allison, in “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”, ha reso celebre l’interpretazione dei rapporti tra i capitalismi politici di Cina e Stati Uniti attraverso l’evocazione della “trappola di Tucidide”, operando il parallelismo tra l’ascesa di Atene (che ha motivato Sparta ad avere tanta paura da rendere inevitabile la guerra) e quella di uno dei due capitalismi politici che spingerebbe l’altro a nutrire paura, come Sparta, e dunque, a ricorrere al confronto armato.
Quella tra gli attori del capitalismo politico sarebbe però, conclude Aresu, una guerra particolare: nel “gioco” della contrapposizione armata, Cina e Stati Uniti sarebbero entrambi imprigionati in “una trappola di geodiritto”. Per via della natura di questa trappola, la guerra tra i capitalismi delle due superpotenze, per la conquista del primato mondiale, sarebbe anzi già in atto; si tratterebbe, però, a parere di Aresu, di un conflitto combattuto con gli strumenti del diritto, che connoterebbe in modo nuovo la competizione, attraverso il coinvolgimento totale degli apparati politici statuali. Non è detto, pero, sempre secondo Aresu, che il confronto tra Cina e Stati Uniti, in atto all’interno del “campo di battaglia” definito dal geodiritto, “porti necessariamente il pianeta sull’orlo della deflagrazione nucleare”.
Sarà pure come dice Aresu; resta tuttavia il fatto che il confronto tra i due capitalismi politici per la conquista del primato economico nel mondo, in quanto fondato sul potenziamento della forza militare, concorra a rendere attuale e sempre più probabile che la “trappola di Tucidide” possa scattare a danno dell’intera umanità. Ciò perché, nella conduzione della politica per l’egemonia economica globale, i calcoli delle burocrazie politico-militari, sia della Cina che dell’America, possono risultare imperfetti, quando (come lo steso Aresu riconosce) impattano con la realtà.
Se ciò dovesse accadere, a nulla servirebbero le pressioni del resto del mondo, in quanto privo della necessaria forza economico-militare per dissuadere i due capitalismi politici contrapposti ad evitare un possibile olocausto globale. Mancano infatti altri reali antagonisti in grado di esercitare una possibile dissuasione, perché quelli solo potenzialmente esistenti non esprimono capitalismi politici compiuti: la Russia è dotata della forza militare, ma non di quella economica, mentre l’Unione Europea è dotata della forza economica, ma non di quella militare; condizioni queste che rendono assai probabile il pericolo che la “trappola di geodiritto” si trasformi in tutto e per tutto nella “trappola di Tucidide”.

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