Caterina Gammaldi
Continuo a pensare che cambiare sia la cosa più difficile in assoluto. Esige nuove consapevolezze, pacatezza, riflessione e responsabilità. Ha necessità di prospettiva e di futuro per attraversare senza inganni il tempo presente.
Ho spesso sentito invocare il cambiamento come necessario per convivere con la complessità, ma mi è accaduto abbastanza spesso di dovermi confrontare con azioni per nulla coerenti con i principi che dovrebbero essere alla base di una società equa e solidale. Penso e non da ora che cambiare si può/si deve se le scelte di vita si costruiscono nel dialogo nella dimensione dell’altro diverso da me.
Pacatamente osservo, con sofferenza, che in tre mesi di chiusura sono aumentate la diseguaglianza, la povertà educativa, le forme di sudditanza al mercato. Scopro con disappunto che non c’è un sentire comune sui diritti, anzitutto sulla salute e sull’istruzione.
Avremmo dovuto imparare che in tema di sviluppo di un paese contano l’eguaglianza sostanziale, le ragioni di un mondo che non lasci indietro nessuno. Invece così non è e non ce ne meravigliamo, incapaci ancora una volta di esercitare il dubbio e l’argomentazione.
Se penso ai mesi appena trascorsi e a quanto ha pagato la parte più fragile del paese (i bambini e gli anziani) non posso non dirmi impaziente che si torni a una quotidianità, sia pure vigilata. Eppure ne ho timore.
Siamo stati tutti rispettosi delle regole per tutelare la nostra e l’altrui salute, bombardati da informazioni spesso contraddittorie e incomprensibili, che hanno lasciato tracce non tutte ancora evidenti nei nostri vissuti e che faremo fatica a interpretare.
Se mai a qualcuno venisse in mente di monitorare la capacità di comprensione di fenomeni a dir poco complessi come quelli che abbiamo vissuto, saremmo meno attenti alle narrazioni della pandemia e dell’emergenza sanitaria soprattutto se a interpretarle sono i negazionisti, con approcci superficiali e riduzionisti.
C’è ancora chi pensa che sia stata tutta una bufala, un complotto e non alza lo sguardo sulla paura, sulle morti, sulle nostre e altrui fragilità. Il senso di responsabilità già sbiadisce e tutto sembra dimenticato, come mai avvenuto. Tutto torna apparentemente come prima, forse peggio.
In realtà non si tratta di dire se siamo migliori o peggiori, di certo siamo diversi anche se nei comportamenti personali sembriamo affetti da un bisogno insopprimibile: la normalità della quotidianità.
Eppure c’è ancora chi si ostina a pensare alla scienza come una magia, c’è ancora chi pensa che la politica sia l’interesse personale, chi pensa che con la cultura non si mangia, che i diritti siano negoziabili.
Forse varrebbe la pena dire che tutto questo c’era anche prima e che, oggi come ieri, al mondo ci sono indifferenti. Io continuo a pensare, come prima, che si debba ricercare il bene comune, partendo dai bambini e dagli anziani che custodiscono lo sguardo sul futuro.
Qualcuno ha detto che capire i bambini significa incrociare i loro sguardi, ovvero significa chinarsi al loro livello. Posso dirlo anche per chi è anziano ed è sopravvissuto a questa terribile esperienza, sebbene la scienza lo definisse a rischio.
Rimango convinta che per comprendere il presente e costruire insieme il futuro abbiamo bisogno di una idea di società che sappia nuovamente porre a tema fondamentale la costruzione della democrazia.
Smettiamo di concentrarci sulla movida, sull’apericena, sulla mobilità, sul digitale… É tempo di chiederci su cosa e come costruire il tempo di vita.
1 commento
1 Aladinpensiero Online
6 Giugno 2020 - 07:06
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=108737
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