Il punto: certificazioni sanitarie per la mobilità interregionale e gestione dell’emergenza pandemica

3 Giugno 2020
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Tonino Dessì

Tutta la vicenda della “fase 2”, a voler prescindere dal gioco degli interessi economici e territoriali prevalenti che stanno finendo per caratterizzarla, è stata deformata dall’uso di una terminologia inappropriata.
“Passaporto sanitario” è stata un’espressione, forse suggerita con intenti di efficacia mediatica, che si è rivelata un boomerang.
Ma che possano ammettersi provvedimenti regionali recanti l’obbligo di munirsi di certificazioni sanitarie per l’esercizio di attività o per la fruizione di servizi in vari campi, da quello sportivo a quello della cura estetica delle persone, al campo agroalimentare, ai campi ricettivo, commerciale e del lavoro, rientra nella nostra normalità esperienziale.
La condizione è che si tratti di materie di competenza regionale esclusiva o concorrente, che non vi siano contrasti con espresse norme di principio o di coordinamento contenute in leggi generali dello Stato o in regolamenti europei e che si utilizzi lo strumento della legge regionale. Resta il tema in discussione più connesso al vigente “diritto dell’emergenza”.
Qui è tuttavia l’invocazione dell’articolo 120 Cost. a risultare, se non del tutto fuori luogo, poco corrispondente alla situazione giuridica positivamente accettata.
La copiosa giurisprudenza amministrativa cautelare e la più limitata giurisprudenza amministrativa di merito hanno validato la facoltà concessa dall’art. 3 del decreto-legge n. 19/2020 ai Presidenti delle Regioni di adottare, con ampiezza di motivazione, propri provvedimenti amministrativi più restrittivi di quelli governativi standard, ritenendo che la disposizione del decreto-legge assolverebbe alla condizione della riserva di legge ex art. 16 Cost. e considerando di supremo interesse la tutela anche articolata della sanità pubblica ex art. 32 Cost. (e 117 co. 2 Cost.).
I Presidenti e i collegi dei TAR hanno invece escluso che i Presidenti delle Regioni possano adottare provvedimenti meno restrittivi o di attenuazione delle misure governative standard.
Abbiamo opinato in molti sulla linearità e sulla coerenza costituzionale di queste interpretazioni e prassi del “diritto dell’emergenza” vigente, ma al momento questo mi pare lo scenario oggettivo.
Resta tutta irrisolta la prospettiva degli aspetti pratici e della concreta fattibilità delle soluzioni prospettate dalle Regioni (non la sola Sardegna, a dire il vero: anche Toscana, Campania e Sicilia), tuttavia non mi sembra che le loro motivazioni possano essere liquidate.
Ove abdichi il Governo a regolare articolatamente la mobilità interregionale, infatti, le Regioni in condizioni epidemiologiche più favorevoli hanno buoni motivi per esprimere esigenze di cautela, al fine di non trovarsi travolte da una mobilità incondizionata mentre ancora la pandemia non è scomparsa.
Nei fatti, c’è più d’un motivo per ritenere che il problema delle certificazioni sanitarie per gli spostamenti interregionali sia stato affrontato in maniera inadeguata.
Pensiamo alla situazione che si potrebbe creare con l’apertura della stagione turistica nei prossimi mesi in Sardegna.
A di là delle mascalzonate paludate da verità scientifica (la riduzione anche drastica delle “evidenze cliniche”, ossia dei ricoveri per trattamento delle infezioni acute, non significa affatto “scomparsa” nè, secondo la quasi unanime pubblicistica disponibile, “attenuazione” del virus), consideriamo realisticamente cosa accadrebbe se un foraneo risultasse positivo all’arrivo nell’Isola.
Certamente non potremmo rimandarlo a casa in aereo o in nave, ma dovremmo isolarlo qui in quarantena, insieme ai suoi eventuali congiunti.
E dove? In ospedale, nella casa, nell’albergo, nel campeggio che aveva prenotato?
E se se ne rilevassero tanti, di positivi, su centinaia di migliaia di arrivi (non voglio pensare ai due-tre milioni delle normali stagioni estive)?
Confermo perciò la mia opinione che il Governo stavolta non abbia agito con oculatezza e che la discussione sia stata distorta in parte dalla fretta, in parte da pregiudizi, in parte dal fatto che test e tamponi non ce ne sono a sufficienza da nessuna parte del Paese.
E non sono affatto sicuro che in Sardegna siamo pronti a prevenire e a gestire una ripresa anche limitata dei casi di contagio.
Ma le tematiche sollevate da tutta la vicenda Covid 19 sono molto più complesse, sotto il profilo sistematico, per poter essere affrontate solo con argomenti contingenti.
Personalmente, pur avendo toccato con mano i difetti del quadro costituzionale quale definito dalla riforma del Titolo V della Costituzione, ribadisco l’invito alla prudenza su certi anatemi.
La potestà legislativa regionale concorrente in materia di “igiene e sanità” era già nel testo previgente della Costituzione e a quella ripartizione si era conformata la legge 833 del 1978, semmai con una connotazione locale della gestione tramite le allora USL che via via è stata assorbita dall’affermarsi di istanze centralistiche regionali, pienamente avallate dal legislatore statale, il quale di suo ci ha poi aggiunto l’aziendalizzazione sul modello privatistico.
Non si può dire che lo Stato non sia intervenuto in materia sanitaria, con proprie leggi anche molto incisive.
Solo che lo ha fatto prevalentemente per riportare al centro il controllo complessivo della spesa sanitaria, formalmente e quantitativamente rimasta a carico della finanza regionale, ma condizionata dalla politica finanziaria centrale.
Il risultato è stato che le Regioni con entrate più ricche hanno fatto più o meno quello che hanno voluto e tutte, dalle più ricche a quelle meno ricche, hanno poi trasferito in misura e con modalità diverse quote della sanità pubblica alla gestione privata.
Come ho già scritto più volte, sulla tesi che questo dipenda dal nuovo Titolo V c’è fortemente da dubitare.
Semmai sarebbe da indagare come e per quali finalità lo Stato abbia esercitato le funzioni che gli competevano e che gli competono in regime di legislazione concorrente.
La questione è analoga in tema di emergenza.
Non è affatto vero che allo Stato e al Governo mancassero e manchino in Costituzione poteri prevalenti.
Infatti li hanno esercitati e li esercitano, in positivo e in negativo.
Li esercita il Governo, sulla base di una delega consapevole del Parlamento.
Il problema è che questa delega non è nemmeno esercitata con lo strumento appropriato della legislazione delegata, ma con la mera acquiescenza allo strumento del decreto-legge, convertito senza batter ciglio dalle Camere.
E qui entriamo nel terzo ordine di problemi.
Il diritto vigente dell’emergenza non disciplina in modo coerente con la Costituzione i problemi dell’emergenza, ma li aggira.
Se è vero (come è vero) che in Costituzione vi è più di un indizio -a partire dall’articolo 16- che la tutela della salute pubblica abbia un valore superiore a molti altri valori pur tutelati, ammettendo più di una limitazione a molte libertà individuali e collettive, è pur vero che le riserve di legge in materia imporrebbero al Parlamento di non limitarsi a dare un nulla-osta formalmente legislativo, ma in bianco, al Governo nè ad alcun altro potere esecutivo o amministrativo, avendo il legislatore la funzione non sostituibile di fissare finalità, mezzi e limiti ad ogni compressione delle libertà.
Cosa che invece non è stata.
Col che si è persino introdotta una singolare e innominata innovazione della forma di governo.
Perché la collaborazione (con obbligo di lealtà, secondo le indicazioni consolidate della Corte Costituzionale) fra Governo centrale e Presidenti delle Regioni non può significare la costituzione di un direttorio d’emergenza -con pieni poteri!- formato fra questi organi esecutivi e le cui dinamiche dipendono dai rispettivi rapporti politici, in un sistema ambiguo di relazioni nel quale le diverse appartenenze finiscono per surrogare alla distinzione dei ruoli, per un verso di quelli parlamentari, per altro di quelli fra livelli istituzionali.
Insomma, la sensazione di caos che stiamo vivendo nasce da questi intrecci e non c’è neppure da stupirsi se la magistratura amministrativa finisca per farsi prendere da un riflesso d’ordine che la induce a dar ragione ai poteri senza troppo soffermarsi sulle garanzie.
Ma anche questo è indubbiamente un esito disfunzionale.
Resta infine il fatto che questa inedita modalità di gestione della crisi, se ha avuto una qualche giustificazione e qualche efficacia nella “fase 1”, sta mostrando la corda nella “fase 2”, quella delle riaperture generalizzate.
Anche a voler superare ogni considerazione sull’anomalia di questo centro politico-istituzionale di coordinamento (quello che ho chiamato il “direttorio d’emergenza”, costituito da Governo e Presidenti delle Regioni), quella avrebbe dovuto esser la sede per vagliare anche le soluzioni tecniche, non solo per adottare mediazioni politiche al ribasso.
Così invece non si può dire a tutt’oggi che sia stato.

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