Anche di fronte alla pandemia egoismi nazionali e mancanza di solidarietà europea

1 Giugno 2020
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Gianfranco Sabattini

La pandemia ha fatto emergere a livello europeo gli egoismi nazionali, che tradiscono ancora una volta le ragioni del “progetto europeo”; all’origine, le ragioni principali fra queste sono state sicuramente di natura politica (evitare le guerre tra gli Stati europei e realizzare un nuovo soggetto politico al quale fosse consentito di confrontarsi alla pari con le nuove potenze mondiali post-belliche), mentre, sul piano economico, esse erano suggerite dalla convinzione – sottolineano Pompeo Della Porta e Mario Morroni, in “La pandemia disgregherà l’Unione Europea?” (MicroMega 3/2020) - che “il processo d’integrazione europea avrebbe permesso guadagni di efficienza dovuti all’apertura delle frontiere agli scambi commerciali e allo sfruttamento delle economie di scala da parte delle imprese manifatturiere”.
La fiducia riposta nell’integrazione era sorretta dalla stipula, nel 1944, degli accordi di Bretton Woods, che nell’immediato dopoguerra hanno garantito la disponibilità di un sistema monetario internazionale, sulla base del quale è stato possibile ricostituire il mercato mondiale, la cui unità era venuta meno nei decenni precedenti. Il crollo però del sistema dei cambi fissi adottato per il nuovo sistema internazionale dei pagamenti e la crisi del mercato petrolifero, manifestatisi negli anni Settanta del secolo scorso, hanno spinto i Paesi aderenti alla Comunità Europea a stipulare nel 1972 un accordo valutario, per istituire margini di oscillazione tra le monete europee, entro una fascia predeterminata (serpente monetario), mantenendo contemporaneamente quella previta nei confronti del dollaro USA, in base all’accordo precedentemente stipulato con Washington. Questo tentativo, volto ad avviare il processo di unificazione monetaria europea, ha incontrato numerose difficoltà, dovute alla crisi del sistema monetario internazionale e, soprattutto, al divario nei tassi d’inflazione fra i Paesi comunitari.
A partire dal 1979 i rapporti tra le monete dei Paesi dellla Comunità Europea sono stati regolati dal Sistema Monetario Europeo (SME), la cui adozione ha ripristinato il regime dei cambi fissi, al fine di evitare il rischio di “guerre valutarie” tra gli Stati aderenti alla Comunità. L’aggravarsi della crisi valutaria a livello internazionale ha però evidenziato l’inadeguatezza dello SME ad assicurare la stabilità monetaria tra i Paesi comunitari, al punto che l’Italia, nel 1992, per sottrarre la propria valuta alla pressione della speculazione internazionale, è stata costretta a svalutare la lira e ad uscire dallo SME. Il processo di unificazione valutaria europea è stato ripreso nel 1999 con l’introduzione dell’euro e la costituzione dell’Unione Monetaria Europea (UME), alla quale ha aderito solo una parte dei Paesi comunitari, tra i quali l’Italia.
Anche l’adozione della moneta unica, come la stipula del trattati originari della Comunità, è stata giustificata sulla base di motivazioni, sia politiche che economiche. La principale tra le motivazioni politiche è stata quella suggerita dalla Francia di allora, nella prospettiva che l’introduzione delle moneta unica potesse consentire di compensare l’aumento del “peso” politico ed economico della Germania (dopo la riunificazione, nel 1990, dei due Stati tedeschi sorti nel dopoguerra), imbrigliandola nel processo di integrazione europea; in realtà - affermano Della Porta e Morroni – “l’adozione dell’euro ha avvantaggiato la Germania perché ha evitato che gli avanzi della sua bilancia commerciale comportassero un apprezzamento del marco e quindi una riduzione del suo vantaggio competitivo”, oltre che nei confronti dei Paesi esterni all’Unione, anche e soprattutto nei confronti di quelli ad essa interni. Tra le motivazioni economiche dell’adozione del SME, la principale è stata quella di associare una moneta unica al mercato unico interno creato col trattato di Maastricht, al fine di contenere l’inflazione, attraverso la Banca Centrale Europea (BCE) appositamente costituita.
L’introduzione dell’euro – ricordano Della Porta e Morroni - non è stata senza costi; essa ha implicato per i Paesi membri la perdita della sovranità monetaria, in quanto l’offerta di moneta all’interno dell’area dell’unione monetaria è stata regolata dalla BCE, che ha sostituito nell’esercizio di tale funzione le singole banche centrali nazionali. Ciò ha implicato la perdita della possibilità, da parte dei singoli Paesi membri dell’eurozona, di poter finanziare la spesa pubblica mediante emissioni di nuova moneta; specialmente in periodi eccezionali come quello attuale, caratterizzato dall’imperversare di una pandemia cui si deve l’interruzione delle attività produttive.
A fronte della perdita delle sovranità monetaria, tuttavia, l’UEM ha comportato per i Paesi aderenti numerosi vantaggi, quali bassi tassi d’interesse, il contenimento della dinamica dei prezzi, l’eliminazione del pagamento delle commissioni dovute al cambio delle valute e, soprattutto, l’eliminazione del rischio connesso con le oscillazione dei tassi di cambio tra i Paesi esportatori dell’eurozona (consentendo a quelli la cui struttura produttiva era orientata prevalentemente verso l’export, di poter competere alla pari con le potenze dominanti a livello globale).
I bassi tassi d’interesse, dei quali i Paese aderenti all’eurozona hanno fruito sino all’inizio della Grande Recessione del 2007/2008, non sono stati però utilizzati da parte di quelli tra essi maggiormente indebitati (tra essi l’Italia) per eliminare le cause dei loro andamenti divergenti dell’efficienza produttiva e della concorrenzialità, ereditati dal passato; anziché “abbattere il debito pubblico”, questi ultimi Paesi hanno optato per un aumento della spesa statale, per cui, al sopraggiungere della crisi del 2007/2009, l’ulteriore aumento della spesa pubblica, diretta a contrastare gli effetti della crisi con politiche fiscali espansive, ha determinato una levata di scudi da parte dei partner comunitari (Germania e Francia soprattutto, non eccessivamente indebitati), che hanno subito dichiarato di non essere disponibili a contribuire alla copertura della spesa pubblica dei Paesi maggiormente indebitati, dando così origine alla cosiddetta crisi europea del debito.
Nel 2010, la conseguenza di questa presa di posizione da parte dei Paesi con i conti pubblici in regola (Germania) o meno indebitati (Francia), è stata la decisone delle autorità europee, di “imporre” politiche di austerità ai Paesi indebitati che “hanno determinato – sottolineano Della Porta e Morroni –, non solo una contrazione del PIL, ma paradossalmente anche un aumento del rapporto debito pubblico/PIL, a causa della maggior riduzione del PIL rispetto alla riduzione del debito determinata dalle politiche di austerità”. Inoltre, poiché il PIL è diminuito, la produttività per addetto nei i Paesi indebitati è stata bassa, per cui la loro competitività internazionale ne ha risentito negativamente; si è così instaurato un circolo vizioso negativo che ha penalizzato la crescita economica e ampliato il rapporto debito pubblico/PIL.
La conseguenza di tale stato di cose ha comportato, per l’Italia e per tutti i Paesi indebitati dell’Europa meridionale indebitati, la formazione di “alti livelli di premio per il rischio sui titoli del loro debito pubblico e quindi la crescita dello “spread” (differenza del rendimento dei titoli del debito pubblico tedesco – preso come titolo di riferimento - rispetto ai titoli dei Paesi indebitati dello stesso tipo e durata), in parte affievolita dalla politica monetaria della BCE, nonostante una sentenza contraria della Corte Costituzionale federale tedesca di Karlsruhe che, con un’invasione di campo, aveva dichiarato la politica della BCE “non necessaria e pericolosa”.
In occasione della crisi del debito pubblico europeo, le autorità comunitarie hanno voluto “ignorare il fatto – osservano Della Porta e Morroni – che la crisi dell’eurozona fosse di origine strutturale”; in altri termini, esse non hanno voluto riconoscere che il buon funzionamento dell’unione monetaria richiedeva una serie di meccanismi diversi da quelli adottati con il trattato di Maastricht e poi ribaditi, nel 2011, con la decisione di istituire il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES, detto anche Fondo Salva Stati). Tale “Meccanismo” è stato infatti inteso come fonte permanente di assistenza per i singoli Stati membri in difficoltà finanziaria; la cui utilizzazione, entro un limite massimo, era però subordinata ad una stretta condizionalità, dovendo gli Stati che vi facevano ricorso, rispettare misure severe per salvaguardare la propria stabilità monetaria, a garanzia del rimborso a delle somme ottenute a titolo di prestito. Il MES, perciò, era strumento utile per i Paesi poco indebitati e presidio di stabilità per quelli con forti avanzi nei loro conti esteri, come lo era, ad esempio, la Germania.
Non casualmente, infatti, i vincoli di Maastricht e quelli del MES hanno svolto un ruolo importante nella crescita della potenza politica ed economica della Germania, senza che, a livello europeo, ci si rendesse conto che l’enorme crescita dell’avanzo commerciale tedesco – rilevano Della Porta e Morroni – avrebbe contribuito a conservare e ad approfondire le cause della crisi del debito pubblico europeo, in quanto si mancava di di riconoscere che l’origine di tale crisi non era in realtà di natura finanziaria, ma di natura reale, essendo imputabile all’andamento divergente della competitività tra i vari Paesi e alla mancanza di meccanismi automatici di compensazione della posizioni dei loro conti esteri; una compensazione che l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, a causa degli egoismi nazionali, è sempre stata riluttante ad affrontare, dotandosi di regole appropriate.
La situazione, già prospettatasi ai Paesi europei all’indomani della Grande Recessione, si è ripresentata ora, in termini più gravi, con lo scoppio della pandemia originata da Covid-19. Per affrontare questa nuova crisi economica e sociale non esiste altra strada – a parere di Della Porta e Morroni – se non quella di ampliare la spesa pubblica; ciò perché, senza adeguati interventi per rilanciare la domanda delle famiglie e la ripresa della produzione, la prospettiva non può che essere “una prolungata recessione con un ampliamento delle divergenze tra i Paesi dell’Unione Europea”.
Ma i Paesi europei non sembrano propensi gestire questa nuova crisi tenendo conto dell’esperienza del passato; è vero che alcune misure importanti sono state adottate dall’Unione, come, ad esempio, una maggior flessibilità di bilancio, la sospensione delle norme del patto di stabilità, la concessione di prestiti alle imprese da parte della Banca Europea per gli Investimenti, la possibilità di ottenere da parte dei singoli Stati prestiti a valere sul MES per il finanziamento delle spese sanitarie e la dichiarazione d’intenti della BCE di voler operare come prestatore di ultima istanza (sebbene, ancora una volta, l’intento della BCE sia stato oggetto di una nuova indebita sentenza della Corte Costituzionale federale tedesca di Karlsruhe, che lo ha ritenuto compromettente per l’unità dell’ordinamento europeo). Anche in questo caso, tuttavia, come è accaduto in occasione della Grande Recessione del 2007/2008, è risultato evidente come, nonostante le reiterate dichiarazioni di “buone intenzioni”, i Paesi europei si differenzino dagli Stati Uniti; mentre i primi sono orientati a conservre la linea dell’austerità, i secondi stano lanciando un un piano do trasferimenti monetari direttamente nei conti dei cittadini, attraverso la cosiddetta “helicopter money”.
A livello europeo dunque, “non solo non si è manifestata la volontà politica di adottare un provvedimento simile […], ma resta ancora aperta, di fatto, la questione di come possa essere esercitata la solidarietà”. Ha suscitato molte critiche la decisione di aprire il MES al finanziamento della spesa pubblica per ragioni sanitarie; nonostante l’eliminazione di ogni forma di condizionalità, resta il fatto che gli Stati che decidessero di farvi ricorso andrebbero incontro ad un aumento del debito pubblico nazionale, con l’obbligo in ogni caso di doverlo singolarmente ripianare in futuro.
Inoltre, ancora non sono state definitivamente assunte decisioni finali circa la costituzione, il finanziamento e la gestione del “Recovery Fund”, con cui finanziare in modo congiunto l’economia europea, attraverso investimenti in infrastrutture, ambiente e beni culturali. Intorno ad esso sono state riproposte le antiche ragioni degli egoismi nazionali: da un lato vi è la paura di alcuni Stati (Germania, in particolare) che l’espansione monetaria, anche se volta a finanziare la rinascita europea, possa portare all’instabilità monetaria; dall’altro lato, vi è la contrarietà di quei Paesi (Olanda, in particolare) che temono di dover essere coinvolti nel pagamento del debito pubblico accumulato nel tempo da altri Stati, non tenendo nel debito conto che il finanziamento del Recovey Fund debba avvenga mediante l’emissione di titoli da parte di un organismo soprannazionale, che risponderebbe dell’estinzione del debito sino alla concorrenza della somma destinata al rilancio dell’economia dell’intera Unione.
I Paesi che nutrono tali paure e contrarietà dovrebbero valutare i costi che essi stessi sarebbero chiamati ad accollarsi, se il loro egoismo dovesse portare alla fine del progetto europeo e all’abbandono dell’euro; tenendo conto del fatto che essi hanno potuto aumentare il loro peso politico ed economico grazie ai vantaggi competitivi garantiti dalla stabilità monetaria (spesso realizzata a spese dei Paesi più indebitati), un eventuale ritorno alle monete nazionali comporterebbe l’apprezzamento automatico delle proprie valute, quindi la perdita dei vantaggi sinora goduti. E’ sperabile che, di fronte a questo rischio, tali Paesi si convincano – come auspicano Della Porta e Morroni – che “la cooperazione e la solidarietà avvantaggerebbero tutti i Paesi europei” e non soltanto alcuni di essi come sinora è avvenuto.

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