Guido Viale
Per la rilevanza del tema e l’autorevolezza dell’autore, ecco un nuovo articolo in comune con Aladinpensiero e Il Manifestosardo
La “fase 2” messa all’ordine del giorno nel corso delle ultime settimane non riguarda tanto “l’uscita”, ancora lontana, dalla pandemia, quanto il “rilancio” dell’economia, che altro non è se non il ritorno a una normalità “potenziata”. Potenziata per recuperare il tempo perduto: non quello di Proust, ma quello dal PIL. Più produzione, più sfruttamento, più precarietà – cioè mancanza di prospettive e di futuro – per tutti, più debito, più diseguaglianze tra ricchi e poveri, più emarginazione di chi è rimasto indietro, più respingimenti di chi non dobbiamo vedere tra noi (per poterli sfruttare meglio), più indifferenza verso le “vite di scarto”.
Tutto ciò mette al centro la concezione che i “padroni” della politica e dell’economia hanno del lavoro, che è la vera posta in gioco di questo rilancio, ma anche la necessità di una sua riconsiderazione radicale, per molti di noi alla luce dei principi che ci sono stati trasmessi dell’enciclica Laudato sì’.
Per secoli, o millenni, il lavoro è stato considerato una condanna, associata a una condizione servile – o di vera e propria schiavitù – solo metaforicamente sublimata in alcune sue versioni bucoliche o agresti. La vita “vera” era da sempre quella che dal lavoro era esentata, o perché dedicata al culto o alla guerra, o perché incentrata sul proprio perfezionamento: una condizione che il latino esprimeva con il termine otium, il cui opposto – negotium – non conteneva alcun riferimento alla fatica o alla sofferenza di ciò che noi chiamiamo lavoro, ma solo a traffici e affari di ordine sia politico che commerciale. D’altronde nella radice del termine travail, presente in varie versioni in molti idiomi neolatini, c’è un riferimento a uno strumento di tortura caro all’Inquisizione (tri-palium: tre pali).
Ma con l’avvento del capitalismo e l’eradicazione degli addetti al lavoro dal loro contesto di vita, per trasferirli nell’ambiente artificiale della fabbrica, il lavoro è stato progressivamente associato all’aumento della produttività generato da questo nuovo ambiente: in una parola, allo “sviluppo delle forze produttive”. E a questo processo, sia Marx e le diverse versioni politiche e culturali che da lui hanno preso le mosse, sia, in un secondo tempo, la tradizione del cattolicesimo democratico, a partire dall’enciclica Rerum Novarum, e persino la cultura liberal-liberista, hanno sostanzialmente, seppure in forme diverse, affidato l’emancipazione dallo sfruttamento, o la conquista della propria dignità, o la realizzazione di una piena cittadinanza.
La Costituzione italiana, d’altronde, che pone il lavoro a fondamento della Repubblica, è uno dei tanti eredi di questa visione. Si era con ciò equiparato, o confuso, il lavoro con le lotte per il miglioramento delle retribuzioni o delle condizioni lavorative o dei diritti dei lavoratori, attribuendo tout-court al primo il senso e la “dignità” che spettava alle seconde. Ma non per caso, né per sbaglio: la potenza del lavoro industrializzato, cioè lo sviluppo delle forze produttive, sono stati a lungo e vengono tuttora considerati condizione ineludibile della emancipazione dei lavoratori.
Che cosa quel lavoro produce o contribuisce a produrre passa in secondo piano rispetto al suo potenziale emancipatorio. Ma oggi, non solo alla luce della pandemia, ma a quella della crisi climatica e ambientale che la precede, che in gran parte l’ha provocata, e che è destinata a protrarsi ben al di là dell’eradicazione della malattia, un atteggiamento “agnostico” nei confronti del lavoro non è più possibile. Il “ritorno al lavoro” per chi – non tutti – l’ha dovuto interrompere, alla sua “normalità”, è il ritorno a un assetto dei processi produttivi che porta l’umanità, e non solo essa, all’estinzione. La “dignità” dell’homo faber non può più essere affidata alla sua capacità di dominare e di trasformare la natura e alla potenza con cui lo fa; diventa indispensabile collegarla alle conseguenze di quello che fa, alla misura in cui contribuisce alla cura della Terra o alla sua rovina. Non ci può più essere una “dignità del lavoro” – spesso invocata, peraltro, da chi ne è a vario titolo esentato, o spaccia per lavoro i suoi traffici – se non in quelle attività che contribuiscono alla tutela o alla rigenerazione dell’ambiente o alla lotta per la conversione ecologica delle produzioni e delle attività in cui siamo tutti, chi più e chi meno, costretti a impegnarci per campare. La dignità del lavoro può risiedere solo nella cura della Terra.
Mano a mano che il lavoro astratto e retribuito andava separandosi dal suo contesto di vita – sia nella modalità del lavoro salariato che in quella di lavoro “autonomo”, tra cui oggi va rapidamente dileguandosi ogni soluzione di continuità – si andava concretizzando anche una riorganizzazione delle attività legate alla riproduzione. Oggi queste sono genericamente ricondotte alla categoria dei lavori di cura, in larga parte non retribuite e per lo più relegate alla componente femminile dei nuclei familiari; essenziali però a che il lavoro retribuito potesse svolgersi secondo i dettami delle attività produttive di merci, cioè di valore di scambio.
Per molto tempo, per i lavori della riproduzione o di cura – il cui ruolo essenziale al funzionamento della società, ma a lungo occultato, è stato portato alla luce dai movimenti femministi – è stata rivendicata una “pari dignità” e una retribuzione adeguata a quelle che venivano riconosciute al lavoro detto produttivo. Si trattava, in altre parole, di sospingere con la lotta il lavoro di cura entro la sfera del lavoro produttivo. Oggi però appare chiaro che il movimento da promuovere è esattamente l’opposto: occorre battersi per trasformare tutto il lavoro produttivo in lavoro di cura della Terra, del vivente, della convivenza umana, della riproduzione della vita. E’ la cura che deve attrarre, accogliere e trasferire entro la propria sfera di senso e di rivalutazione della sua importanza il lavoro detto “produttivo”, realizzando, entro questa trasformazione, quel riequilibrio tra generi e ruoli che lo “sviluppo delle forze produttive” non ha mai saputo e potuto realizzare: un’inversione di campo non da poco.
E’ in questa prospettiva che la rivendicazione di un reddito incondizionato può perdere il suo carattere retributivo – “mi paghi in cambio di qualcosa”, ossia anche solo quelle preziosissime informazioni carpite alla vita di ognuno attraverso la rete – che lo vincola indissolubilmente al paradigma del lavoro salariato, per assumere i connotati di una rivendicazione che coincide con l’appartenenza a un unico genere umano.
1 commento
1 Franco Meloni
20 Maggio 2020 - 12:46
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=108200
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