La scuola alla prova del Covid

21 Maggio 2020
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Rosamaria Maggio

(”foto” della classe fatta da Francesco, bambino di Alghero a casa)

Questa immane tragedia mondiale che ha sconvolto la nostra vita, che ha portato con sé morte e disoccupazione ed aumento della povertà in ogni angolo del pianeta ed ancor più in quelle zone già povere, ha comunque colpito interi settori della vita sociale ed economica.
In particolare penso ai bambini ed ai giovani, già privi di autonomia per ragioni anagrafiche e che, a seguito dell’isolamento dei loro familiari, hanno subìto la privazione della loro vita di relazione.
Come prima cosa sono stati fortemente colpiti dalla chiusura delle scuole. Ciò ha comportato la perdita per ciascun ragazzo di quello spazio culturale, di crescita, preposto alla loro istruzione, che è appunto la scuola, per almeno un quarto o un terzo della giornata.
Essi sono stati anche privati di quello spazio minimo destinato alle relazioni sociali che si costruiscono a scuola e di quel vitale e necessario distanziamento dalla famiglia, che ne accompagna la crescita e le prime forme di autonomia.
Nella maggior parte dei paesi del mondo, man mano che ci si rendeva conto della dimensione della pandemia, i vari governi decidevano, in momenti diversi, la chiusura delle scuole. Ciò è legato al fatto che la scuola sposta normalmente milioni di persone ogni giorno tra bambini, ragazzi, personale adulto insegnante ed impiegatizio, nonche’ genitori che si occupano di accompagnare i figli a scuola. Questo fatto comporta il rischio di un aumento dei contagi molto alto. La comunità scientifica ha quantificato questo rischio. In Italia il mondo della scuola coinvolge oltre 9 milioni di persone su una popolazione di circa 58 milioni di abitanti. In Francia 13 milioni circa sono studenti e oltre 1 milione è rappresentato dal personale scolastico, per un totale di 14 milioni di persone su circa su 67 milioni di abitanti.
Questi dati quindi rendono la scuola un mondo ad alto rischio di contagio e quindi la riapertura di essa è stata ritenuta, dagli scienziati e di conseguenza dai decisori politici, una probabile causa di una nuova incontrollabile diffusione della malattia .
Gli studenti quindi, tenuti a casa in famiglia, hanno sofferto e soffrono questa condizione di reclusi, che pero’ subiscono in forza di decisioni degli altri.
La condizione familiare non è la stessa per tutti. Chi aveva problemi non si è certo trovato ad averne di meno, anzi. A quelli consueti, per alcuni, si sono aggiunti i problemi economici, magari legati alla disoccupazione dei genitori.
I modelli di alternativa alla scuola che i vari ministri dell’istruzione sono riusciti a mettere in moto nella maggior parte dei paesi, sono fondati prevalentemente sulla cosiddetta Didattica a Distanza (DAD).
Tale modello si basa sulla necessita’ che le famiglie siano dotate di mezzi tecnologici idonei ed in particolare di connessione internet e di supporti quali Tablet o computers. E questo naturalmente è il primo problema. Infatti non tutti i ragazzi sono dotati di questi supporti tecnologici.
In Italia non è in possesso di connessione circa il 25% della popolazione. In Francia meno del 20%. Al quale si aggiungono gli altri problemi a seconda delle fasce d’eta’.
In primo luogo, quanto era compito dell’insegnante e cioe’ di seguire i ragazzi a scuola, diventa in parte una incombenza familiare. Bisogna seguire che i bambini si connettano con gli insegnanti, seguano le indicazioni scolastiche e si preoccupino di eseguire quanto loro assegnato. Tutto, a questo punto, sotto la supervisione familiare. I piu’ grandi, piu’ autonomi devono essere seguiti perche’ nella loro autonomia non dimentichino di seguire le lezioni online.
Ma la cosa piu’ preoccupante e sulla quale occorre focalizzare l’attenzione come cittadini, come genitori, come insegnanti, è la riflessione sulla natura e sulla efficacia della DAD.
L’insegnamento non è trasmissione di conoscenze, di sapere. Esso si fonda su conoscenze ma ha come obiettivo l’apprendimento che ha bisogno, perche’ si costruisca, di una reale relazione educativa. Relazione che non puo’ essere virtuale, online, a distanza, ma si deve svolgere in presenza.
L’insegnante non si rapporta ad una massa informe alla quale racconta storie, regole, formule, bensi’ ha la consapevolezza di ogni studente, lo osserva, incontra i suoi occhi mentre contemporaneamente ha il polso della situazione degli altri 24 studenti, sposta la sua attenzione dall’uno all’altro mentre magari si aggira tra i banchi, guarda i quaderni, stimola il singolo ad intervenire sul tema oggetto della lezione, pone problemi, avanza per errori, non fornisce soluzioni, ma favorisce la costruzione del sapere  di ciascuno.  L’insegnante non deve essere un affabulatore, un affascinatore di folle. Il suo lavoro si basa su una solida competenza disciplinare che gli consente di concentrare l’attenzione sulla classe, sui singoli ragazzi, sul percorso piu’ che sui risultati.
Ecco, tutto questo lavoro non si puo’ fare con uno schermo davanti con 25 faccine viventi, che stanno a casa loro, che fanno chissa’ che mentre l’insegnante cerca di stimolare l’attenzione sul tema del giorno. Qualche volta questa operazione, soprattutto con i piu’ piccoli, vede la partecipazione genitoriale non prevista.
Sentir parlare quindi sedicenti esperti, spesso scelti fra persone che non hanno mai insegnato a scuola, magari accademici, grandi cultori disciplinari ma esperti in lezioni frontali, della possibilita’ di far tornare i ragazzi a scuola magari a settembre, dividendo le classi, per il necessario bisogno di distanziamento, in gruppi di 12 studenti, lasciando gli altri 12 a casa collegati on line, che seguirebbero quindi in DAD, lascia senza parole.
Come si fa a pensare ad una didattica laboratoriale, ad una lezione partecipata, dovendo seguire una classe di 12 e l’altra meta’ collegata in videoconferenza?
Mi sembra una operazione impossibile anche dal punto di vista neuroscientifico.
Oggi il nostro cervello è considerato capace di fare più cose insieme, ma in verita’ le neuroscienze ci spiegano che si, la corteccia prefrontale ci consente di svolgere piu’ funzioni contemporaneamente, ma il problema è, con quale accuratezza?
Ad esempio, se impariamo a guidare, lo facciamo automaticamente e contemporaneamente possiamo parlare, ascoltare musica.
Quando il cervello deve fare due lavori adopera i due emisferi, quello destro e quello sinistro.
Ma se i compiti aumentano, si comincia ad avere qualche difficolta’ a svolgere piu’ compiti a livelli di alta precisione. E questo porta i neuroscienziati a sostenere che non si possono fare contemporaneamente piu’ di due cose a livelli di alta accuratezza.
Ma poi in conclusione, quale è il problema?
Perche’ appare cosi’ complicato prevedere delle classi di 12 studenti?
Il problema è sempre il solito. La spesa pubblica!
E la scuola è sempre la Cenerentola anche nei paesi industrializzati. L’investimento scolastico è pari a al 7,9% (dati Eurostat 2017)   in Italia ed in Francia al 9,6%.
E’ evidente che, dimezzare le classi per attuare i protocolli di distanziamento, significa quasi raddoppiare l’organico e reperire locali.
Ma mentre il problema degli spazi potrebbe risolversi laddove non vi siano, (ma in Italia negli anni anche a causa del calo demografico, esistono molti istituti scolastici non utilizzati), anche con una adeguata turnazione, occorre assumere nuovo personale.
Questo comporta necessariamente grossi investimenti ma in un momento di crisi generalizzata, in cui i paesi stanno facendo grandi sforzi anche europei per sostenere l’economia, non si vede perche’ altrettanti sforzi non debbano essere fatti per le scuole.
Sempre che si sia tutti convinti che la scuola non è un costo ma un investimento che è destinato a produrre i suoi effetti, anche economici, su tutti gli altri settori.
La scuola non è quindi un costo, né è un sistema organizzato per consentire ai genitori di andare a lavorare.
Se non si esce da queste logiche, la crescita culturale di un paese sara’ sempre limitata e riservata a pochi, alle cosiddette eccellenze.
Ma le eccellenze non fanno il progresso di un paese. Un paese cresce anche economicamente se il livello culturale dei suoi cittadini è medio alto.
Una popolazione colta non solo fa crescere la ricchezza di un paese ma è anche piu’ in grado di curarsi, di tutelare l’ambiente, di fare prevenzione in termini di salute pubblica e quindi di ridurre anche la morbilita’, la devianza, l’inquinamento.
L’istruzione è il diritto umano che consente l’accesso agli altri diritti.

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