Gianna Lai
Altro post domenicale sulla storia della città del carbone, dopo quello iniziale del 1° settembre scorso.
Nel Sulcis le autorità locali sono rappresentate, in miniera, dal Comando Alleato, sito a Carbonia tra la via Roma e la via Trieste, in città anche dal prefetto Sacchetti e dai Commissari di sua nomina, in particolare per quanto riguarda la gestione del razionamento e l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, presso gli spacci aziendali.
E considera suoi interlocutori, il Comando alleato, soltanto il commissario di Pubblica sicurezza, i Carabinieri e, talvolta, l’Alto Commissario per la Sardegna, Generale Pinna, essendo lo stesso governo Badoglio, ‘particolarmente sensibile’ alle pressioni dell’esercito occupante più che alle richieste di quest’ultimo o del prefetto. (vedi pag. 28)
Carbonia si ripopola adesso con una rapidità, dai caratteri molto simili alla prima immigrazione di massa della fine degli anni trenta, così forte il richiamo della Commissione alleata rivolto ai disoccupati sardi, tale da rendere ancora più difficili le applicazioni delle norme sul controllo del reclutamento in miniera e impossibile l’accoglimento o l’assegnazione di nuovi alloggi, nelle case operaie e negli alberghi destinati ai senza famiglia. Una città costruita per 12 mila residenti, avendo la guerra interrotto drasticamente l’attività edilizia e la costruzione di interi nuovi quartieri, ne conterà presto 30 mila, come ai tempi del fascismo, e mentre si sostituiscono quasi completamente i nuovi agli abitanti precedenti, non è destinato a stabilizzarsi ancora il flusso migratorio in città, ma neppure a guerra conclusa, e neppure negli anni della Repubblica: i treni in continuo movimento, continuano a trasportare quotidianamente centinaia di uomini in entrata e in uscita da Carbonia.
Sopratutto sardi i nuovi arrivati dato che, nel Nord la guerra contro il nazifascismo, nel Mezzogiorno liberato i primi inizi di una ricostruzione, avrebbero mantenuto occupate le maestranze nei luoghi di origine fino, ma anche oltre la Liberazione del 25 Aprile. Perciò proveniva, la massa imponente di disoccupati, prima di tutto dal Sulcis, i contadini-minatori che avevano trovato rifugio nei loro paesi, una volta costretti ad abbandonare la città durante il conflitto, ora di nuovo in controesodo nel caos del dopoguerra. In fuga dalle campagne, dove l’esistenza è resa impossibile per la mancanza degli strumenti minimi adatti alle coltivazioni, le semenze, i concimi, il carburante necessario alle macchine agricole. Talché l’impoverimento del territorio, conseguente alla guerra, ma già messo in ginocchio alla fine degli anni trenta con l’apertura delle miniere, sembra farsi ormai del tutto irreversibile, nonostante i tentativi degli abitanti, nei paesi limitrofi, di conciliare lavoro industriale e agricolo. Ora di nuovo disoccupati i contadini del Sulcis, insieme agli altri sardi provenienti dalle varie zone dell’isola, una massa ridotta alla fame spesso del tutto incontenibile, rispetto alla disponibilità effettiva di lavoro in miniera, pur così ampia con la riapertura dei pozzi, col ripristino delle gallerie e dei cantieri abbandonati e con la ripresa massiccia della produzione. Quelli senza contratto preventivo di ingaggio, venivano costretti a tornare indietro ma, spesso, per non sapere dove andare, clandestini in città, in balia di caporali, avventurieri e speculatori senza scrupoli, che gestivano anche il mercato nero e che operavano nei paesi della Sardegna, promettendo posti di lavoro inesistenti in miniera ed alti salari. Nonostante le disposizioni del prefetto e delle autorità locali contro i disoccupati non residenti, nonostante i veri e propri rastrellamenti quotidiani della polizia contro ‘quell’inutile zavorra’, così amabilmente denominati dalle autorità gli immigrati privi di occupazione, in particolare nella periferia della città e presso i cameroni e le baracche fatiscenti, lì a fianco addossate. Corea, e tutto intorno, ancora bidonville che, da Cannas, circondando la collinetta prospiciente, arrivavano fino al Lotto B. A decine e decine gli sbandati che vi cercano alloggio, insieme agli operai con regolare contratto di ingaggio, che avevano trovato, già in così poco tempo, al completo cameroni e alberghi operai. E’ questo il quadro, fino alla partenza degli Alleati, ma anche negli anni seguenti, che Carbonia offre ai nuovi arrivati, ai contadini del Sulcis in particolare, una grave penuria di alloggi se, ancora nel 1947, quando gli abitanti si avvicinano a toccare i 40mila, in un centro ora costruito per 20 mila si contano 800 famiglie senza tetto, costrette in pericolosa promiscuità nei piccoli appartamenti delle ‘case operaie’, o in alloggi di fortuna, ed esposte ad ogni malattia, quasi sempre vittime della malaria e di infezioni causate da malnutrizione e scarsa igiene.
E la protesta popolare contro la fame non avrebbe tardato a montare, incontrollata e senza guida all’inizio, pur sapendo minaccioso e intimidatorio il Comandante americano di fronte alle manifestazioni di piazza e, altrettanto poco tenere, le forze dell’ordine locale, nei confronti degli operai e delle loro famiglie. Inesistenti le forme dell’accoglienza e dell’assistenza sociale, respingimento e repressione all’ordine del giorno, per una moltitudine scomposta e abbandonata a se stessa, al punto da non essere neppure in grado le autorità di percepirne movimenti e spostamenti, tale la confusione regnante, in particolare, nelle zone più marginali ed estreme del territorio cittadino.
Si può dire che, unico vero sostegno per questa massa così fluttuante di diseredati, sarebbe stato allora il gruppo di lavoratori impegnati nella costruzione di un movimento organizzato, in miniera e nella città, man mano che si ricomponevano i partiti politici, analizzando il quale possiamo anche capire meglio come andavano le cose a Carbonia e come ci si stava inacamminando, nel Sulcis, verso il cambiamento.
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