Caterina Gammaldi
Mi è capitato spesso di parlare di valutazione a insegnanti della scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado invitata come insegnante “esperta”. Non ho titoli accademici di cui essere fiera, solo studio appassionato, letture, incontri e collaborazioni importanti condivise nel mondo associativo a me più vicino (anzitutto il Cidi e Proteo). Nella situazione data mi sembra di essere tornata indietro; il tema della valutazione torna ad essere più importante dell’insegnare e dell’apprendere, delle scelte condivise in un gruppo di insegnanti che si prendono cura di un gruppo di alunni. Ci saranno presto (spero) norme straordinarie, transitorie, coerenti con l’attuale situazione di emergenza. Spero che possano mettere ordine nel “fai da te”, che possano aiutare la comunità professionale a superare gli approcci decisamente superficiali che non tengono conto della realtà. Ne dubito perché il tema della valutazione torna ad essere, come purtroppo è sempre stato, prepotentemente divisivo, un tema in cui prevalgono e si contrappongono idee di scuola e di società selettiva e minoritariamente democratica (di tutti e di ciascuno, come si usa dire oggi inclusiva e solidale).
Procedo con ordine. Ho esperienza da studentessa di voti e da insegnante di “giudizi”, lettere e ritorno al voto. Ho sempre pensato ai numeri come a una misurazione, a uno strumento significativo, ma per aver visto troppo spesso praticare i voti, anche se provvisti di indicatori e descrittori, come strumenti carichi di soggettività ho molti dubbi. In un esempio fornito da Benedetto Vertecchi alcuni anni fa lo stesso tema è stato valutato da 3 insegnanti con voti diversi. Nella mia esperienza i voti sono stati rappresentati da una parte con minoritaria di insegnanti e genitori a garanzia della serietà degli studi. Nascondevano e nascondono ancora oggi il vecchio adagio “non tutti sono nati per studiare”, un’affermazione che veicola un’idea di scuola e di società che esclude dal sapere.
In questa prospettiva procedo, come so, in ordine.
1977
La 517/77 rimane per me una pietra miliare. Ho cominciato a insegnare negli anni 70 quando c’erano materie obbligatorie e facoltative e i voti e confesso che la sostituzione della valutazione decimale con altri strumenti mi disorientò. Non fu facile allora, né dopo, attrezzarsi, capire, ma va riconosciuto a quegli anni l’attenzione alla relazione educativa, all’inserimento e all’integrazione degli studenti in situazione di handicap, all’individualizzazione, poi confusa e praticata come personalizzazione. I nostri maestri Gattullo, Visalberghi, Vertecchi ci aiutarono a praticare la cosiddetta intenzionalità formativa. Un percorso culturale e professionale lungo che ho condiviso anche in seminari nazionali dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione con centinaia di colleghi e in un progetto editoriale che intendeva veicolare la pratica dei test oggettivi disciplinari come strumenti formativi finalizzati alla comprensione di testi di italiano, di storia, di scienze, geografia,di grammatica.
1990
Un decennio dopo vennero le competenze e successivamente la loro certificazione, in un dibattito viziato dal pasticcio conoscenze VS competenze, reso praticabile a scuola, senza alcuna riflessione sul profilo della popolazione adulta per cui era stato pensato. Ho potuto in quegli anni, grazie a Emma Nardi e a Benedetto Vertecchi, fare esperienza di control monitor nell’ambito della ricerca OCSE-Pisa e di coordinatore della ricerca pilota sugli adulti, di fare al CIDI esperienza internazionale di confronto su questi temi (Genova, Napoli, Lisbona). È stato difficile far comprendere nella scuola, fra i dirigenti scolastici e gli insegnanti, che quell’esperienza non era da esportare tout court nella scuola come, invece, raccomandavano esperti ministeriali, circolari e le stesse norme sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, un obbligo svuotato di significato per la scelta di praticarlo nella formazione professionale. Scelte esportate successivamente nel primo ciclo e nella stessa scuola dell’infanzia, che ritroviamo bussola di riferimento per la progettazione didattica e educativa delle scuole e degli insegnamenti. Continuava il pasticcio conoscenze VS competenze e non solo (compiti di realtà e simili) e il fraintendimento sulla dimensione europea dell’insegnamento.
2008
Considero l’approvazione della legge 169/08 uno spartiacque importante per capire la natura del problema valutativo. Il ritorno alla valutazione decimale nel primo ciclo e i pasticci successivi (legge 107 e decreti attuativi) vanno nella stessa direzione e trovano conferma nelle lettere al corriere degli allora ministri Gelmini e Tremonti (era il 23 agosto 2008). Si svelava il disegno di una società che tornava a dividere chi sa da chi non sa, a partire dalla scuola. Il resto è noto. Le modifiche degli esami di stato conclusivi del primo e del secondo ciclo, i modelli di certificazione delle competenze hanno alimentato scelte quantitative, grazie anche alle eccessive preoccupazioni imposte dai test proposti dall’Invalsi e alle pratiche addestrative.
2020
Come possiamo vedere, oggi che la preoccupazione maggiore dei decisori politici sono gli esami di stato conclusivi del primo e secondo ciclo, la DAD e la relativa valutazione. Tornano d’imperio i voti, le interrogazioni, in realtà mai abbandonati con la scusa che sono più trasparenti, la serietà degli esami, il no al 6 politico… e altre amenità che mi confermano che in questa società è più forte che mai il principio dell’esclusione e che la scuola non deve, né può (né forse sa) ignorarlo.
P.S. Per quanto mi riguarda, fossi a scuola, in questa situazione di incertezza praticherei “l’obbedienza non è più una virtù”.
1 commento
1 aladinpensiero
8 Aprile 2020 - 08:25
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=106418
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