Crisi del’economia italiana e come uscirne

12 Febbraio 2020
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Gianfranco Sabattini

Cesaratto, “rimproverato” di esprimere una critica eterodossa alle politiche economiche adottate dall’Europa negli anni successivi alla Grande Depressione del 2007-2008, al termine delle “sei lezioni” non manca, tuttavia, di indicare la possibilità di uscire dalla crisi (che coinvolge ormai tutti i Paesi della UM) con politiche correttive degli squilibri che da sempre hanno caratterizzato le relazioni economiche e finanziarie tra i partner europei.
Lo scopo del libro di Cesaratto è quello di dotare il lettore degli strumenti necessari per capire le cause della crisi e considerare criticamente le misure di politica economica volte a rimuoverle. E’ interessante seguire da dove parte la critica eterodossa dell’autore ai limiti del pensiero economico dominante, nella cura degli esiti negativi connessi agli eventi successivi alla crisi del 2007-2008; eventi, questi, che – a parere di Cesaratto – hanno stimolato le persone a “capire le ragioni economiche della crisi e delle politiche adottate”, in un momento un cui si assisteva alla riscoperta dell’importanza del pensiero di John Maynard Keynes. L’impegno a migliorare, dal punto di vista economico, la comprensione di quanto è accaduto ha spinto Cesaratto ad “accompagnare” la lezione keynesiana con “una conoscenza più profonda della critica dell’economia politica dominante, che gli economisti eterodossi conducono da svariati decenni, anche indipendentemente dalla lezione keynesiana”.
Cesaratto premette che la scuola eterodossa più rigorosa è quella che si “rifà alla lezione di Piero Sraffa”, consistita, nella sua pars destruens, in “una critica analitica esauriente dell’analisi neoclassica […] dominante; mentre, nella sua pars construens, ha proposto “sia una teoria dei prezzi e della distribuzione del reddito alternativa a quella dominante (ripresa dagli economisti classici e da Marx), che un’analisi del livello e crescita del reddito e dell’occupazione che perfeziona quella keynesiana”.
Sulla base di questa premessa, Cesaratto si chiede come abbia fatto l’Italia, un Paese che “nel secondo dopoguerra era giunto a recuperare gran parte dello svantaggio con l’Europa del Nord a trovarsi oggi in una drammatica impasse”. La sua risposta è che la causa di tale impasse sia da individuarsi nell’incapacità dei gruppi dirigenti italiani “di rendere armoniche le relazioni sociali interne e d’aver cercato di supplire a tale incapacità con il tentativo di importare la disciplina dall’estero attraverso regimi di cambi fissi”.
Ciò è accaduto perché, nel governare l’economia del loro Paese, i gruppi dirigenti italiani si sono attenuti a una teoria, quella neoclassica, nata alla fine del XIX secolo, che ha offerto un nucleo di principi conoscitivi ed operativi trasmessosi immutato sino ai nostri giorni. Il limite di tale nucleo di principi è consistito nell’avere espunto dal discorso economico, a differenza della teoria classica, ogni ragionamento di natura politica.
Ciò ha comportato che i gruppi dominanti italiani abbiano governato l’economia sulla base di “ricette vecchie di un secolo e mezzo, presentandole come la frontiera della scienza”, senza alcuna considerazione del fatto che le relazioni formali tra le diverse funzioni economiche non esprimono solo mere relazioni quantitative, in quanto esprimono anche e soprattutto delle relazioni “fra individui, gruppi sociali, istituzioni”, nonché l’evoluzione storica di tali rapporti.
Se oltre alle relazioni quantitative, dal punto di vista dell’analisi economica, assumono rilevanza anche quelle fra individui, gruppi sociali e istituzioni, si impone un recupero dell’economia classica, non potendosi fare a meno di considerare la definizione di tali relazioni sulla base delle modalità di distribuzione del prodotto sociale. Una volta introdotto il problema della distribuzione del reddito – afferma Cesaratto – “l’economia si fa politica”, rendendo necessario che si discuta di due cose: del come distribuire il reddito fra tutti coloro che hanno partecipato alla sua produzione e dei diritti civili dei quali i singoli individui sono titolari.
I gruppi dirigenti italiani dominanti devono i limiti della propria azione nel governo dell’economia all’essersi affidati alla teoria economica tradizionale (quella neoclassica), espungendo il tema politico dal discorso economico e sostenendo “che vi sono delle leggi economiche che indicano con precisione quale fetta della torta debba andare ai lavoratori e quale ai capitalisti”. Secondo tale teoria, quindi, occorreva rispettare la suddivisione del prodotto sociale sulla base delle leggi naturali da essa esplicitate; in caso contrario, ogni distribuzione che, a causa dell’”ingresso della politica nell’economia”, non avesse rispettato queste leggi naturali avrebbe significato comportarsi in modo ascientifico nel governo del sistema economico.
Al contrario di quella neoclassica, la teoria classica dell’economia (quella di David Ricardo e di Karl Marx, affermatasi nella prima parte del XIX secolo) considerava oggetto di studio della teoria economica proprio le leggi che governano la distribuzione del reddito, individuando la soluzione del problema distributivo nei rapporti di forza esistenti all’interno del sistema sociale tra i due grandi gruppi in cui si suddividono i produttori: i lavoratori, da una parte, e i capitalisti, dall’altra.
La teoria classica, però, dominante per gran parte del XIX secolo, è stata sostituita verso la fine dello stesso secolo, in quanto gli economisti hanno formalizzato la teoria neoclassica, considerandola più coerente della teoria precedente, solo perché la soluzione del problema distributivo, anziché essere imputata ai rapporti di forza esistenti tra i gruppi sociali che partecipavano alla formazione del prodotto sociale, veniva ricondotta a presunte leggi naturali non soggette al confronto tra portatori di interessi di parte.
Ma nel corso del XX secolo, la teoria neoclassica ha dovuto fare i conti – continua Cesaratto – con “due grandi sfide”, condotte, rispettivamente, da John Maynard Keynes e da Piero Sraffa: il primo, con la sua critica della legge degli sbocchi di Jean-Baptiste Say, incorporata nella struttura della teoria neoclassica, ha messo in evidenza il ruolo del consumo e della domanda finale nel determinare lo stabile funzionamento del sistema economico; il secondo con la sua critica della tenuta sul piano logico dell’intero impianto analitico della teoria neoclassica, ha privato di ogni credibilità le implicazioni deterministiche delle presunte leggi naturali assunte a fondamento della soluzione del problema distributivo.
Tenendo conto del pensiero critico di questi due grandi economisti del Novecento, secondo Cesaratto, si possono meglio capire le vicende che hanno caratterizzato la crisi dell’economia italiana e la natura delle misure di politica economica che sarebbe stato necessario attuare per risolverla, o quantomeno per lenirne gli effetti negativi; una crisi, quella dell’economia italiana, che non è iniziata nel 2007-2009, bensì nella seconda parte degli anni Sessanta del secolo scorso.
Per Cesaratto, l’inizio della lunga congiuntura della quale soffre l’economia del nostro Paese è iniziata con la “risposta che la borghesia italiana [ha dato] al primo ciclo di lotte operaie che si [è scatenato] nel 1962-63 nel Nord-Ovest d’Italia, dove il miracolo economico aveva condotto alla piena occupazione”, mentre l’aumento dei salari e l’elevata crescita avevano determinato un disavanzo della bilancia internazionale dei pagamenti, che non poteva essere eliminato con una svalutazione della lira, a causa del sistema dei tassi fissi stabilito dagli accordi di Bretton Woods. Il problema è stato risolto dall’intervento della Banca Centrale che, inaugurando la politica dello “stop and go”, ha adottato misure volte a stroncare gli investimenti e a creare disoccupazione ogni volta che il Paese si fosse indebitato verso l’estero. L’economia italiana ha potuto così riprendere a crescere, senza però le performance rese possibili dal miracolo economico.
La lunga congiuntura nasce proprio dall’inaugurazione del modo particolare con cui si è inteso regolare la posizione dei conti con l’estero, quando questi avessero presentato un disavanzo. Ogni volta che si sé fatto ricorso al blocco degli investimenti e all’aumento della disoccupazione, per correggere la posizione debitoria dell’economia nazionale rispetto all’estero, la ripresa non è stata guidata dall’accoglimento delle crescenti istanze sociali che avrebbero potuto sostenere i consumi e gli investimenti interni, ma dallo stimolo delle esportazioni. In tal modo, l’establishment politico-imprenditoriale, più che modernizzare l’economia nazionale attraverso il sostegno dei consumi e degli investimenti interni, ha preferito sorreggere le esportazioni attraverso il contenimento del costo del lavoro. Tutto ciò accadeva perché il Paese, sostiene Cesaratto, non riusciva “a fare emergere una classe politica adeguata allo scopo”, ovvero a dare risposte positive alle crescenti istanze provenienti dal mondo del lavoro.
Di conseguenza, l’incapacità del mondo politico e di quello economico a risolvere il crescente conflitto distributivo ha provocato il succedersi di crisi continue. La situazione non è cambiata negli anni Settanta, con la crisi del dollaro, perché l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, prima, e all’eurozona, successivamente, è valsa a riproporre il problema dei cambi fissi e quello dell’impossibilità a risolvere il conflitto distributivo, quindi ad imputare alle richieste del mondo del lavoro la responsabilità della lunga crisi, attestata dal succedersi di una diminuzione continua del tasso di crescita medio annuo del PIL: tale tasso, infatti, dopo essere stato pari al 5,5% nel periodo 1952-56 e al 6,6% negli anni del “boom” (1957-63), è passato al 6% nel periodo 1964-70, al 3,9% in quello 1971-79, al 2,3% in quello 1980-92 e all’1,4% in quello 1993-98; dopo una crescita pari all’1,5% registrata nel periodo 1990-2007, il tasso di crescita medio annuo ha ripreso a calare, sino a registrare -1,4% nel periodo 2008-15.
Di fronte al tragico succedersi della progressiva caduta dei tassi di crescita medi annui dell’economia italiana, il sistema dei cambi fissi dell’eurozona, “disvela”, nota Cesaratto, la sua vera natura: esso non è stato uno strumento idoneo a realizzare un’unione monetaria volta a realizzare una “solidarietà politica” tra i Paesi ad essa aderenti, ma “strumento disciplinante” delle pretese del mondo del lavoro a migliorare il livello dei salari; ciò per consentire ai Paesi “forti” di continuare a fondare il loro livello di benessere sulle esportazioni e di impedire ai Paesi “deboli” di poter realizzare al proprio interno la soluzione del problema distributivo mediate una politica di tipo keynesiano.
Di fronte al permanere di questa empasse, quale prospettiva di azione è offerta ai Paesi membri dell’eurozona che, come l’Italia, si trovano nell’impossibilità di invertire la decrescita continua del loro PIL? A tali Paesi, ritiene Cesaratto, non resta che sperare, o nel verificarsi di una “drammatica crisi finanziaria” che faccia, a danno di tutti, tabula rasa dell’eurozona; oppure, il lento proseguimento dell’agonia che li affligge, “attraverso la continuazione della sequela di politiche e accordi germano-diretti” che, in luogo di risolvere i loro problemi, ne impediscono una loro “morte liberatoria”.
Poiché l’esperienza storica – come osserva Cesaratto - dimostra che la resistenza dei corpi sociali, per quanto grande possa essere, ha anch’essa un inevitabile punto di rottura, sarà bene che l’establishment politico ed economico del Paese cessi la pratica di continuare a chiedere con insistenza lamentosa “sconti” alle istituzioni europee, per ottenere l’approvazione delle “manovre economiche” ricorrenti, utili solo a consentire al Paese una pura e semplice sopravvivenza. In altri termini, sarà opportuno che l’Italia, a livello delle istituzioni europee, inauguri un atteggiamento critico verso la non più giustificabile opposizione ad una politica di solidarietà di tipo keynesiano tra i Paesi membri dell’Unione.

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