Carbonia, 1940-42. Durante la guerra in miniera e in città si vive così

2 Febbraio 2020
1 Commento


Gianna Lai

 

Siamo al 23 post domenicale sulla storia di Cabonia. Tutto è iniziato domenica 1° settembre.

E mentre al novembre del 1940 gli abitati di Carbonia e di Arsia hanno raggiunto il valore di 300 milioni di lire, oltre 391.300.000 nel ‘42 per i lavori eseguiti nel Sulcis, a Carbonia, in quello stesso anno, sono 28.944 i residenti, 34.224 nel ‘41, 36.792 nel ‘42, 34.717 nel ‘43, secondo la Relazione del Sindaco, in ‘Città di Carbonia, Sulle condizioni economiche finanziarie sociali’, cit. Dati  abbastanza simili alla Tabella 6 in ‘Carbonia’, di Ignazio Delogu, e ai dati dell’Archivio Comunale di Carbonia, mentre il dato per il 1940 è di  25.583 abitanti, nella Relazione del presidente ACaI  del  9.11.1940 al duce. Più complicata invece la questione sul dato del 1943, fortemente determinato dalla ripresa delle miniere, negli ultimi mesi dell’anno, sotto il controllo degli alleati, che definisce  il ripopolamento della città stessa.  Perché, dopo gli spezzonamenti, il centro abitato in buona parte si svuota, mantenendosi  inalterato invece lo stato delle frazioni, dove anzi sfollano molte famiglie di minatori, essendo meno esposto il territorio agli attacchi aerei e così prossimo  alla campagna e a ciò che la sua  pur povera agricoltura, e pastorizia, è ancora in grado di dare. Prima di tutti gli altri, Carbonia perde gli abitanti provenienti dai paesi vicini, che avevano in quegli anni trasferito la loro residenza in città, così dicono anche le testimonianze dell’epoca,  minatori e abitanti della città come Vincenzo Cutaia, Vittorio Lai, Vincenzo Pirastru, Giorgio Figus. E come dicono  i documenti  dell’epoca: ‘Si assiste con dolore alla partenza delle migliaia di operai smobilitati, che in altri tempi si è avuto fatica ad ingaggiare ed ad affezionare a Carbonia’, scriveva il prefetto nel marzo del 1943, come riporta  Sandro Ruju ne  I mondi minerari della Sardegna. Ed è la stessa Azienda, nella figura del presidente Gottardi, a preoccuparsi di ‘controllare l’esodo dalla città, che provoca un tale marasma’, da indurlo a sollecitare continuamente le autorità per ‘il rafforzamento degli esigui  presidi locali di P.S.’
In particolare dopo il blocco dei lavori nelle Bonifiche, quando la gente si allontana  impaurita, temendo il riesplodere della malaria, sempre incombente su Carbonia. Già limitati  i consumi fin dall’inizio della guerra, per la riduzione dei beni di prima necessità, che provengono quasi esclusivamente dalla Penisola,  i minatori sottoalimentati e duramente colpiti  dagli attacchi ciclici della malaria,  chiedono  più alte razioni di cibo, affiancati spesso dalle  donne, ormai vittime, come in tutto il Paese, del mercato nero, ‘ un notevole bagarinaggio che viene esercitato ad onta  delle severissime misure poste in esecuzione da tutte le autorità locali’, come si legge nella Relazione del responsabile del sindacato fascista Morosini. A fargli eco, il prefetto di Cagliari Leone, nelle sue relazioni  al ministro dell’interno, del novembre 1940, ‘la razione prescritta, 200 grammi di pane, assolutamente deficiente per gli operai della zona mineraria’. Perché, come dice Giorgio  Candeloro, tardivamente introdotto il tesseramento nel 1941, da quell’anno in poi ’si sviluppò sempre più largamente in Italia il mercato nero dei prodotti alimentari’, che  avrebbe dovuto, in teoria, essere impedito, o almeno molto limitato ‘dal sistema degli ammassi obbligatori’. Norme sempre più frequentemente violate dai produttori ‘per la cattiva organizzazione dei controlli amministrativi e la riduzione complessiva della produzione agricola causata dalla guerra, dalla scarsezza di fertilizzanti, dalla mancanza di carburante per le macchine agricole, ecc’.
Così è la vita degli operai a Carbonia, quando l’Italia entra in guerra: il potestà Pitzurra  chiede, innanzitutto, beni di prima necessità più sicuri, di fronte alla già evidente scarsità degli approvvigionamenti esterni. E chiede che venga sollecitamente garantita una difesa antiaerea e ricoveri per la popolazione sull’intero territorio, fino a quel momento quasi completamente esposto agli attacchi. Annunciando  che molti minatori vogliono raggiungere le loro famiglie nella penisola, mentre altri potrebbero essere richiamati alle armi, non godendo del tutto la miniera, pur stabilimento ausiliario, di esoneri totali per i dipendenti. Già trasferiti alle opere militari di protezione civile una parte degli edili, altri direttamente ai fronti di guerra, rallentano i lavori di costruzione della città, che continua a vivere in un clima di attesa, in una condizione di assoluta precarietà e, insieme, povertà. Né possono bastare, ad integrazione di quei così magri salari, i premi delle festività di Santa Barbara o degli anniversari della città, ai fedeli della miniera. E neppure le 125 lire elargite dal ‘duce’ durante la sua visita del maggio 1942, che pur corrispondevano a complessive 32 mila lire, destinate sia ai dipendenti SMCS, sia ai lavoratori della Ferrobeton, sia a quelli della Compagnia Bianchi. E neanche gli speciali sussidi alle famiglie dei richiamati, insieme alla polizza stipulata con gli istituti nazionali assicurativi che garantiva, oltre alla normale indennità di licenziamento, un capitale, in caso di premorienza, e  una non meglio definita ‘assistenza sociale’.
Un nuovo massicio sfruttamento del lavoro si prepara in quei mesi, non essendo riuscita l’Azienda a ingaggiare nuove maestranze, pur sollecitato il ministro della guerra e l’intero governo ad intervenire per il congedo dei minatori già al fronte. Come, del resto, era già successo  nel ‘39, col richiamo alle armi di 718 operai edili e di duemila minatori dell’Arsa e del Sulcis, molti congedati allora dal ministro della guerra, su sollecitazione dell’ACaI. E come nel ‘41, quando altri 340 operai tornano  in miniera, grazie all’intervento del  ministro delle corporazioni. Ora invece nessuna concessione viene fatta all’Azienda, fino al punto di vedere, dopo il decentramento dell’ACaI, entrare addirittura in concorrenza tra loro ARSA e SMCS, alla ricerca del maggior numero possibile di nuove maestranze da accaparrare, sottraendosele l’un l’altra, nei vari centri minerari.
E pensare che, facendosi sempre più minaccioso il fronte di guerra,  ancora più insistenti divengono le richieste  di lasciare la miniera da parte degli operai, del tutto inutili, naturalmente,  di fronte alla crescita incessante dei ritmi di lavoro, tra la fine del 1941 e il 1942, tali da portare il rendimento unitario dalle 14 mila tonn/operaio-mese del 1940, alle 20mila del ‘41.Tali da ‘ridurre della metà il necessario aumento delle maestranze’,  come afferma testualmente il presidente ACaI nella nota al duce del 17 novembre 1941: nonostante lo scarso livello tecnologico della miniera,  la scarsa qualificazione dei minatori e la continua mobilità della manodopera, continua a crescere, cioè, la produzione e non l’occupazione. Vi contribuisce  il prolungamento della giornata lavorativa, da 40 a 48 ore settimanali, il doppio turno imposto a 14 ore e l’abolizione del riposo festivo, restando  per ciascun minatore solamente quello settimanale. Ma avrebbero fatto la loro parte anche  le centinaia di prigionieri croati, iugoslavi e greci, pur maestranze inesperte, da destinare ai servizi esterni e alle opere di bonifica, essendo vietata l’imposizione del lavoro in miniera dalla Convenzione internazionale sui prigionieri di guerra: 1.500 i prigionieri a Carbonia, alla fine del ‘41, solo un terzo nel sottosuolo, la mancanza di attrezzature personali  impedendo a molti di loro di scendere nei pozzi, come attestano ancora le relazioni del presidente ACaI al duce. Mentre il mancato completamento degli impianti e la penuria di legname avrebbero reso ancora più pericolosa la miniera, una trappola, se nei primi mesi del ‘41 solo 14.000 metri cubi di materiale sono disponibili per armare gallerie. La media per metro cubo di legname, calcolata per il 1940 intorno alle 42 tonnellata, ‘viene spinta fino a 61 tonnellate, oltrepassando anche i limiti di sicurezza imposti dal Regolamento minerario’, sottolinea il presidente  ACaI, nel già citato Promemoria al duce, ‘con grave rischio per i dirigenti e i tecnici (sic!), che si assumono la responsabilità di far proseguire la produzione in tali condizioni’. Se niente è dato sapere delle preoccupazioni del presidente e del ‘duce’ per i rischi corsi dagli operai, ci restituisce la drammaticità di quel tempo un grafico sul ‘Numero degli infortuni avvenuti nel bacino carbonifero del Sulcis nel periodo 1934-1948′,  in ‘Carbonia’ di Ignazio Delogu, grafico ‘che indica proprio nel 1941 l’anno in cui si verificano il maggior numero di incidenti mortali e di feriti gravi’. Unico impegno da parte del governo, in quella terribile e permanente penuria di medici in città, l’apertura di un ospedaletto della Croce rossa, durante la inutile attesa del nuovo ospedale, che si aprirà solo nel dopoguerra.  Giunte ormai ‘ai limiti estremi le condizioni di sicurezza del lavoro’, la città sfinita dalla fame, le assenze degli operai, così debilitati dalla mancanza di un’alimentazione appena decente, dalla malaria  e dal feroce sfruttamento, continuano  semplicemente a  suscitare le indignate  reazioni dei dirigenti,  come documenta il Promemoria del presidente ACaI al duce del settembre 1942, non essendo riuscito il premio di assiduità del governo  ad arginare  seriamente ‘il grave fenomeno in miniera’. Si segnala una riduzione delle numero delle assenze, ma  di appena la metà, rispetto ai periodi precedenti, per una media di soli 19 giorni lavorati in un mese, talché il presidente ACaI, in persona, sollecita nuovi provvedimenti per far fronte alle defezioni dei lavoratori, ancora nel suo Promemoria al duce del settembre 1942. Così l’Azienda determinava la media delle 7 assenze mensili: 3 arbitrarie, 2,6 per malattia, 1 per infortuni, 0,4 per licenze  e permessi. E Mussolini avrebbe allora concesso un altro dei tanti premi di ‘operosità e assiduità’, da assegnare, tuttavia, solo a chi non si fosse assentato mai, neppure per un’ora, durante l’intero mese. Ma, in realtà,  di premi e di  incentivi spesso distribuiti dall’Azienda secondo criteri abitrari e incontrollabili si trattava, come denuncia, in una di quelle occasioni, il ricorso di A. Sulas al duce,  escluso, insieme ai  200 operai del porto di Sant’Antioco, da uno dei tanti  benefici elargiti in quegli anni ai lavoratori: dipendenti SMCS,  già  duramente provati dagli affitti troppo alti e dalla mancanza di vestiario adeguato per il lavoro nel porto di Ponti, così prosegue la lettera di denuncia, che poi si chiude col solito atto di religiosa fiducia e osservanza al duce, ’sia fatta allora giustizia da te o duce, e noi come sempre marceremo con ordinamento nella tua fede, pronti a seguirti contro chiunque e dovunque’.
Premi e incentivi non certo tali da compensare l’esiguità delle retribuzioni, a quel tempo le seguenti: sorveglianti 39,47 lire al giorno; minatori 35,17; aiutominatori 32,32; armatori 35,25; spingitori 29,47. All’esterno, capo operaio 35,60; operaio specializzato 37,10; operaio qualificato 29,46; manovale specializzato29,95; manovale comune 21,51. L’Italia è in guerra da due anni e  nel Paese, per riportare le parole dello storico, ‘le retribuzioni sono scese ad un livello medio di poco superiore al minimo necessario alla sussistenza, […] vasti strati popolari, sopratutto nelle città, ormai ridotti in condizioni di più o meno grave denutrizione’.

1 commento

Lascia un commento