Severino e la crisi del nostro tempo

30 Gennaio 2020
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Gianfranco Sabattini

Nei giorni sorsi è morto Emanuele  Severino, filosofo di grande autorevolezza, un fine interprete dei nostri tempi; lo ricordiamo con questo scritto di Gianfranco Sabattini.

Uno dei più rilevanti fenomeni del nostro è quello delle disuguaglianze distributive, non solo tra le diverse aree del mondo, ma anche tra i diversi gruppi sociali all’interno di singoli Paesi; il fenomeno è fortemente aumentato rispetto al passato, per il diverso grado di sviluppo delle singole aree mondiali e per il diverso ritmo col quale è cresciuta, ma anche per le regole attraverso cui la ricchezza prodotta viene distribuita.
Afferma Emanuele Severino (filosofo e accademico dei Lincei) in “Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo”, che la maldistribuzione della ricchezza esiste all’interno di una cultura dalla quale essa (la maldistribuzione) è interpretata; ma le varie interpretazioni (cristiana, islamica, capitalistica, marxista, ecc.) si combattono, per via del fatto che esse “hanno avuto una storia diversa”. Nel medioevo, la cultura cristiana e quella islamica si sono affermate entrambe nell’alveo della filosofia greca; poi il cristianesimo, a differenza dell’Islam – continua Severino – si è imbattuto nella critica della cultura moderna, che ne ha contestato in modo radicale le fondamenta, sino a lasciarsi “alle spalle”, oltre che lo stesso cristianesimo, persino l’”intera tradizione dell’Occidente”, creando in tal modo le condizioni di una sua crisi profonda.
Attualmente ci si accorge della crisi, pensando che essa riguardi l’economia e la politica, ma mancando di percepire e capire la sua profondità. Il livello di tale profondità, sostiene Severino, consiste nel fatto che essa è “un aspetto della crisi dell’intera tradizione dell’Occidente”; ciò perché le categorie fondamentali sulle quali si reggono tutte le società del mondo sono importate dall’Occidente. Il fenomeno della globalizzazione, interpretata come diffusione in tutto il mondo dell’economia di mercato, ha le sue radici nel capitalismo occidentale. D’altra parte, quest’ultimo, assieme alla democrazia e al socialismo appartengono alla tradizione dell’Occidente, per cui può correttamente affermarsi che “la crisi della tradizione occidentale investe l’intero pianeta”, presentandosi “come la forma autentica della ‘globalizzazione’”.
La crisi, secondo Severino, non proviene dall’esterno dell’Occidente, ma dal suo interno; la causa principale è espressa dallo “smantellamento del dominio del mondo” da parte dell’Occidente stesso, ovvero di quel dominio con cui esso riusciva a contenere la “pressione dei popoli poveri”. I problemi attuali della parte essenziale dell’Occidente, l’Europa, sono dovuti al venire meno di quel contenimento, per cui l’immigrazione, che il Vecchio Continente sta subendo, non è un fattore di crisi interno alla sola Europa; in realtà, esso è una conseguenza della crisi profonda dell’intero Occidente.
Quest’ultima, a parere di Severino, è dovuta al fatto che in Occidente le masse si sono allontanate “dai valori religiosi del passato”; inoltre, è poco noto il fatto che “tale allontanamento è analogo al distacco, più o meno elitario”, che si è verificato in tanti altri ambiti: filosofico, scientifico, giuridico, economico, artistico e politico. Ormai, - afferma Severino – “non si crede quasi più nell’esistenza di una realtà eterna, immutabile, al di là del mondo: quella che è stata sempre chiamata ‘Dio’ e che si rispecchia nel mondo mediante gli ordinamenti che nella tradizione sono a loro volta considerati immutabili, come le Chiese, la morale, il bello e il vero naturali; e ancora come il ‘diritto naturale’, o l’economia di mercato (anch’essa intesa come legge naturale eterna), o lo Stato ‘etico’ e totalitario e la democrazia in quanto configurazioni sociali che si adeguano al vero e immutabile ordinamento della realtà”. Tutto questo, la tradizione dell’Occidente, è andato – secondo Severino – al tramonto.
Del progressivo distacco delle masse dai valori religiosi è prova la diffusione ostentata dei valori laici; l’Occidente si è liberato delle varie forme di assolutismo con la critica della razionalità moderna e con le rivolte o con le guerre; non così della democrazia: pur non liberandosene, l’Occidente l’ha trasformata “da adeguazione dello Stato al vero ordinamento della realtà” a “democrazia ‘procedurale’, dove la legge non è ciò che è vero, ma la volontà della maggioranza”. Anche il capitalismo, per “merito” di alcuni suoi esaltatori (come ad esempio Joseph Alois Schumpeter), ha cessato di essere concepito come “economia ‘naturale’, per essere considerato come ‘esperimento’ che può fallire o che è destinato a fallire”; Inoltre, anche la scienza è stata ritenuta “tanto più potente ed esplicativa”, quanto più avesse rinunciato ad “essere sapere assoluto, incontrovertibile, ossia quel tipo di sapere che la tradizione filosofica ha inteso evocare per prima”.
Al tramonto della tradizione dell’Occidente, a giudizio di Severino, ha contribuito persino la filosofia, con l’abbandono della propria tradizione, staccandosi dall’idea dell’inamovibilità e dell’incontrovertibilità del sapere, attraverso cui “si mostra la verità”; la gravità di questo distacco è espressa dal fatto che esso rimane nascosto nel “sottosuolo filosofico”, nel quale ha modo di tradursi, con l’abbandono delle verità immutabili, nella invincibile potenza distruttiva nei confronti della tradizione dell’Occidente. Severino ritiene che l’abbandono del sapere immutabile da parte della filosofia abbia modificato radicalmente il rapporto tra “’mezzi e fine’, e quindi il rapporto tra le tecniche e le grandi forze che oggi intendono servirsi di essa per realizzare i loro scopi […] come un compito ineludibile, ossia come qualcosa che deve essere incondizionatamente e universalmente realizzato, e pertanto come un immutabile che si impone su ogni tempo e in ogni circostanza perché, realizzandolo, ci si adegua alla verità e al senso immutabile della realtà”.
Le forze prevalenti impegnate in un’incontenibile confronto per adeguare il mondo al senso immutabile della realtà sono il capitalismo e il socialismo, la cui competizione va intesa, secondo Severino, come una delle più importanti forme di concorrenza che si svolge “all’interno del mondo capitalistico”, per il controllo e la destinazione finale del risultato dell’attività produttiva. La potenza originata dalla tecnica, profusa dalle grandi forze nella loro contrapposizione, ha cessato di essere “al servizio della politica”.
Fino al Medioevo, la politica indirizzava l’economia al “bene del signore”, inteso come “bene comune” o “vita buona”; ma lavorando per il “signore”, il “servo” (cioè la tecnica) è diventato potente, più potente del “signore”. Inoltre, il “servo”, lavorando per il bene del “signore”, non produceva solo beni di consumo, ma anche i beni strumentali finalizzati a “produrli, difenderli e conquistarli”; in questo processo, il “signore” è rimasto passivo, statico, mentre il “servo” ha acquisito “conoscenze e poteri sempre più nuovi ed efficaci”, che gli hanno permesso di rovesciare il tradizionale rapporto tra “mezzi e fine”: la produzione, che prima era mezzo per garantire il benessere del “signore”, è divenuta scopo, trasformandosi in “fine di se stessa”.
Il sovvertimento del rapporto tra “mezzi e fine” ha così comportato il rovesciamento della “subordinazione del mondo economico al mondo politico”, analogamente - sostiene Severino - al rovesciamento della subordinazione “delle tecnica al capitalismo”. Il doppio rovesciamento ha comportato un’alterazione dello scopo tradizionale del capitalismo: prima, tale scopo coincideva con l’aumento della produzione per soddisfare il bene comune; ora, con la subordinazione del capitalismo alla tecnica, esso coincide con l’aumento della produzione fine a se stessa. Se tale scopo viene contrastato, è inevitabile una crisi del capitalismo; a parere di Severino, è quanto sta accadendo da alcuni decenni, per via dell’azione delle forze di rilevanza sociale (democrazia, socialismo, cristianesimo, Islam, ecc.) che hanno inteso, in concorrenza tra loro, di “imporre al capitalismo scopi diversi da quello che gli è proprio”.
Inoltre, continua Severino, il capitalismo non ha dovuto confliggere solo con queste forze; esso ha dovuto fare i conti con la concorrenza esistente al suo interno, divenuta un suo connotato essenziale. Senza di essa, il capitalismo non potrebbe liberarsi dei suoi concorrenti più deboli; ma questa eliminazione conduce fatalmente al “monopolio planetario, ossia a un’economia che non è più capitalistica; quindi, il capitalismo, per Severino, non è che “una gigantesca contraddizione. Non solo ha dei nemici, ma è nemico di se stesso”.
Infine, ironia della sorte, questa contraddizione sarebbe ancora più profonda: il modo di produzione capitalistico, devastando l’ambiente nel quale opera, finisce col devastare se stesso e, nei limiti in cui ne acquista consapevolezza, “si rivolge alla tecnica per ottenere una forma di produzione di ricchezza dove la devastazione della terra sia il più possibile contenuta”; in tal modo, il capitalismo arriva a servirsi “della tecnica, non solo per prevalere sulle altre forze che intendono porsi alla guida del mondo, ma anche per non essere distrutto da se stesso”.
In conclusione, secondo Severino, tutte le grandi forze che si contendono il primato nel mondo, per prevalere si servono della tecnica; di qui l’incremento del suo impiego che tende “a diventare, esso [l’incremento], lo scopo di tutte le forze che si illudono di poter illimitatamente servirsi dello strumento apparentemente ‘neutrale’della tecnica”. Ma questa tecnica della quale si servono le grandi forze – avverte Severino - “non è la tecnica quale è concepita all’interno del modo in cui la tecno-scienza concepisce se stessa”; la tecnica in grado di far “diventare lo scopo delle forze dominanti l’incremento della potenza è infatti quella che è capace di ascoltare e capire ciò che proviene dal sottosuolo filosofico del nostro tempo: che lo scopo di tali forze non è una verità assoluta e che la sua realizzazione non è l’adeguarsi a una verità assoluta”, per cui essa (la tecnica) ha “la forza di oltrepassare ogni limite che quelle forze vogliono imporle”.
Tuttavia, Severino precisa che l’intero suo discorso non è un’apologia della tecnica, ma una riflessione sulla tragicità dell’uomo, inteso come “essere tecnico”, dotato della capacità di organizzare le risorse delle quali dispone, per l’incremento senza fine della capacità di realizzare scopi: ragione, questa, che fa della tecnica “l’inveramento supremo dell’uomo”. Ma pensare l’uomo subordinato alla tecnica – puntualizza Severino – non è che “l’alienazione estrema del senso autentico dell’essere uomo”; lo è di fronte allo smarrimento della tradizione dell’Occidente e, quindi, dell’intero pianeta in quanto erede dell’Occidente.
Il tramonto della tradizione dell’Occidente si è tradotto così nel sacrificio del benessere e della felicità dell’uomo; l’incombenza di tale stato di cose fa maturare il tempo in cui “si fa avanti nei popoli il bisogno di ripensare, al di là di tutte le sapienze dell’Occidente – quindi anche di quella, terribile, del sottosuolo filosofico del nostro tempo – il senso autentico della verità”.
Insomma, la conclusione di Severino sembra essere un invito a riflettere sullo stato delle cose presenti, al fine di interiorizzare una critica radicale nei confronti di un sistema economico, quello capitalistico, che sinora si è servito della tecnica conducendo l’uomo all’alienazione. In sostanza, il discorso di Severino può intendersi come analisi critica dell’ideologia neoliberista del nostro tempo, nella speranza che la filosofia, ricuperando la sua funzione antica e supportandone la riflessione critica, possa contribuire a prefigurare per l’uomo un mondo migliore.

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