Scuola: dal giudizio si torna al voto

24 Aprile 2009
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Gianna Lai

La cultura della valutazione attraversa l’esperienza della scuola fin dall’obbligo del ‘62, quando l’istruzione diventa di massa. Da allora la valutazione si lega strettamente all’idea di scuola e società che si vuole costruire, democratica: nei momenti di più alta partecipazione ed impegno sociale, come nel 68, produrrà sperimentazioni e leggi di riforma, negli anni settanta (la legge 517 del ‘77) quando al voto fu sostituito il giudizio, fino ai nuovi programmi del ‘79, e all’organizzazione modulare e al tempo pieno nella scuola elementare (con la legge 148, 1990) degli anni novanta. La scuola cambia e i docenti crescono professionalmente quando si inizia a lavorare sul rapporto stretto fra progettazione educativa e criteri di valutazione, per andare oltre la selezione fondata sullo spirito competitivo, sulla sanzione,che fino a quel momento l’aveva caratterizzata. La valutazione contestuale alla centralità del processo di insegnamento-apprendimento, si sviluppa nella sperimentazione didattica e costruisce prove coerenti ai percorsi educativi, mentre i docenti ne esplicitano criteri, incentrando l’attenzione su cosa e come studiare, come valutare.
Superando le tradizionali modalità trasmissive, il sapere nella scuola assume un senso per gli studenti perché si fonda sulla motivazione, tiene conto dei loro saperi e delle esperienze, promuovendone la partecipazione attiva, senza la quale non si costruisce conoscenza e pensiero critico. E’ così che la valutazione avviene mentre si impara, attenta al processo e non solo agli esiti ed, insieme, al modo di stare in classe, nel gruppo, di bambini e ragazzi, alla cosiddetta condotta. Si riflette sul modo di lavorare, ha ripercussioni sulla valutazione degli insegnanti e delle scuole, può valorizzare l‘autovalutazione delle stesse.
Innovazione e valutazione hanno rafforzato la funzione scuola pubblica che rimuove ostacoli e si prende cura dei più deboli, proprio superando la valutazione tradizionale; quest’ultima si fonda sulla trasmissione del sapere, pretendendo di intervenire a posteriori con forme di recupero che ricalcano esattamente gli schemi della lezione tradizionale, responsabile del mancato apprendimento.
L’intervento del governo, e della stampa che lo sostiene, non è per nulla interessato a descrivere il quotidiano della scuola, la sua capacità di inclusione, come unica istituzione in grado di accogliere i bambini e ragazzi stranieri e farli crescere e formarli insieme a tutti gli altri. E il ritorno al voto nasce in tale contesto di opinione pubblica contro la scuola intesa come sede del permissivismo e degli insegnanti che non sanno insegnare. La scuola diviene, dunque, un’istituzione da normalizzare innanzitutto attraverso la riduzione del tempo scuola, del numero degli insegnanti, delle ore di lezione. Tutto questo lascia indietro i più deboli perché non c’è tempo per le buone pratiche. Ci vuole il voto, e con provvedimento del governo si reintroduce anche il voto di condotta, il 5 per bocciare, partendo da episodi isolati di malascuola, specchio soprattutto di una società che non trova in sé gli strumenti per uscire dalla crisi, in cui un italiano su tre guadagna meno di mille euro al mese. E si decontestualizza il fenomeno; ma il comportamento dello studente a scuola non può essere separato dall’educazione e dall’istruzione, è segnato semmai da una drammatica difficoltà ad apprendere, dalla difficoltà della scuola a sviluppare processi di insegnamento apprendimento significativi, fondati sulla motivazione e sull’interesse ad apprendere. Come fosse questione di ordine pubblico, s’incentra l’attenzione sulla sanzione, più che aiutare la scuola a mettere in atto tutte le sue risorse per recupero dei più deboli. E anzi, si conta sullo spirito di rivalsa contro gli studenti dei docenti demotivati: da costoro tali provvedimenti sono stati salutati spesso positivamente, come se fosse il governo a garantirci il rispetto dei ragazzi.
Per concludere, apparentemente c’è l’autonomia delle scuole e c’è la progettazione curricolare, ma, dopo il venir meno della legislazione di questi anni, già si progetta l’abolizione graduatorie per il reclutamento, l’abolizione delle RSU e della contrattazione nazionale, mentre la funzione docente è ormai piegata dalle circolari ministeriali. Ci chiediamo, dunque, se si realizza questo progetto cosa resta del nostro sistema di istruzione? Se si riavviano forme di selezione nella scuola primaria, privata del modulo, la scuola che va meglio, e se i più deboli saranno segnati dal voto e destinati già dalla scuola media alla formazione professionale, se viene messo in soffitta obbligo a 16 anni, che cosa resta della scuola che abbiamo difeso in questi anni?

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