Autonomia fiscale differenziata. E’ la fine dell’unità nazionale?

21 Dicembre 2019
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Gianfranco Sabattini

Diverse regioni italiane hanno avanzato la richiesta di una maggiore autonomia in materia fiscale; in due di esse, Veneto e Lombardia, a sostegno della richiesta, si è svolta una consultazione referendaria diretta a conoscere il parere degli elettori riguardo all’istituzione del cosiddetto “regionalismo fiscale differenziato”. La richiesta è stata recepita dal Governo centrale, sulla base di un accordo che prevede la somministrazione di un “piatto di lenticchie” a favore delle regioni più svantaggiate.
L’iniziativa delle due regioni del Nord dell’Italia trova il suo fondamento nella riforma costituzionale del 2001, ovvero nel terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che ha rappresentato per i governanti delle regioni Veneto e Lombardia la legittimazione ad agire per ottenere una ridefinizione del “residuo fiscale” (inteso come differenza tra le tasse pagate e la spesa pubblica complessiva ricevuta sotto forma di trasferimenti o in generale di servizi pubblici), al fine di trattenere nei bilanci delle due regioni un maggior volume delle risorse derivanti dal gettito fiscale dei rispettivi territori.
Molti critici considerano, a ragione, la celebrazione della consultazione referendaria come l’inizio della fine dell’unità istituzionale (oltre che territoriale) del Paese; secondo altri, la consultazione rappresenta sul piano immediato l’inizio della “secessione delle regioni ricche”, per via del fatto che, con la ridefinizione del residuo fiscale, verrebbe indebolita, se non annullata, la sua funzione, in quanto strumento fondamentale a disposizione del governo centrale per ridurre le disuguaglianze regionali esistenti e persistenti in Italia tra “regioni ricche” e “regioni povere”.
La pretesa delle regioni del Nord (supportata da varie stime che evidenziano un’eccedenza delle entrate pubbliche rispetto alle spese in molte di tali regioni e un risultato opposto per la totalità delle regioni del Sud) è infatti fondata sulla tesi che il Nord “pagherebbe”, oltre ogni limite ragionevole, le inefficienze del Sud; questa tesi, è avanzata per giustificare, da parte delle “regioni ricche”, la richiesta di un maggior decentramento fiscale, e soprattutto di una diversa ridistribuzione delle entrate pubbliche tra le regioni, in modo da ridurre, se non annullare, il residuo fiscale in tutte le regioni.
Il concetto di “residuo fiscale”, usato oggi per ridurre o eliminare i residui fiscali delle regioni italiane, nasce per ragioni che non sono riconducibili a quelle che hanno motivato la sua formulazione all’interno di un contesto istituzionale diverso da quello dell’Italia. Il concetto e stato formulato dall’economista americano (premio Nobel) James M. Buchanan, in “Federalism and fiscal equity” (pubblicato sull’”American Economic Review” del 1950) per giustificare sul piano politico i trasferimenti di risorse all’interno dello Stato federale degli Stati Uniti d’America, dagli Stati federati più ricchi a quelli meno ricchi.
Buchanan ha formulato il concetto di residuo fiscale nel quadro della sua teoria dell’”equità orizzontale”, in base alla quale, all’interno di un’organizzazione statuale federale, ogni Stato federato, dopo la distribuzione della spesa pubblica sotto forma di trasferimenti (o in generale di servizi pubblici) deve avere lo stesso residuo fiscale perché sia assicurata un’equità distributiva del carico fiscale, ma anche convergenza economica di tutti gli Stati federati: quindi, perché sia realizzate condizioni di equità fiscale e la convergenza di tutti gli Stati federati è necessario che lo Stato federale (cioè lo Stato sovraordinato) possa disporre del potere istituzionale per effettuare una intervento pubblico a favore degli Stati federati che hanno un residuo fiscale minore finanziato dagli Stati che dispongono, invece, di un maggior residuo fiscale. Tutto ciò, non solo per realizzare un’equità distributiva del carico fiscale, ma anche per assicurare agli stati federati un funzionale equilibrio sul piano della loro crescita, in funzione di quella dell’intero Stato federale.
Nella Costituzione italiana non è fatta menzione, né del concetto di equità orizzontale, né del concetto di residuo fiscale, né della funzione economica che Buchanan ha assegnato all’equità e al residuo; tuttavia, tali concetti, limitatamente all’equità distributiva, sono espressi nella Carta costituzionale in termini diversi. L’art. 53 infatti prevede che tutti i cittadini contribuiscano alle entrate dello Stato in ragione della loro capacità contributiva e secondo criteri di progressività, mentre gli articoli 117 e 120 statuiscono che i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali siano garantiti su tutto il territorio nazionale, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. L’insieme dei tre articoli detta un principio di ridistribuzione delle prestazioni pubbliche a carico delle regioni con redditi più elevati e a favore di quelle con redditi più bassi.
Accettare che siano modificati i residui fiscali regionali a vantaggio delle regioni ricche, perciò, significa mettere in discussione il dettato costituzionale; in altri termini, significa mettere in discussione il patto sociale che lega tra loro sul piano della solidarietà i cittadini italiani, quale che sia la loro regione di residenza.

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