La crisi della scuola italiana è lo specchio della falsa idea di democratizzazione delle sue strutture

4 Dicembre 2019
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Gianfranco Sabattini

La crisi della scuola italiana è da tempo al centro del dibattito sulle probabili cause che hanno concorso a determinarla; c’è chi le rinviene nell’abbandono della cura della scuola da parte della politica e chi, invece, nel “tradimento” del dettato costituzionale, in quanto non sarebbe stato realizzato un sistema scolastico la cui funzione preminente consistesse nell’erogazione di sevizi volti prevalentemente alla promozione sociale di chi la frequenta.
Un esempio della contrapposizione tra queste due tesi è offerto dal testo del dialogo, raccolto da Giacomo Russo Spena, svoltosi tra Ernesto Galli della Loggia e Tomaso Montanari, pubblicato sul n 5/2019 di “MicroMega”. Si tratta di un confronto tra due intellettuali che, sebbene concordino nel criticare le riforme che hanno caratterizzato il mondo della scuola negli ultimi decenni, sono però portatori di una visione diversa, non solo circa le cause della crisi attuale della scuola italiana, ma anche riguardo al suo futuro.
Secondo Galli della Loggia, in Italia si è assistito a un “vero e proprio abbandono della scuola da parte della politica”, come forse non è accaduto in nessun altro dei moderni Paesi industrializzati. Negli ultimi vent’anni – egli afferma – “la scuola è stata sostanzialmente lasciata a se stessa, in nome, o con il pretesto, del riconoscimento dell’autonomia dei singoli istituti e della sostanziale delega dei contenuti dell’istruzione alla pedagogia”. Così, si è disarticolato il sistema dell’istruzione pubblica, che ha perduto il suo carattere unitario. Ciò è accaduto perché i partiti politici con le loro culture “non hanno saputo inserire l’istruzione in una prospettiva generale di sviluppo del Paese”, nel senso che “non hanno saputo immaginare alcun ruolo per la scuola e l’istruzione”. I partiti, infatti, si sono quasi unicamente preoccupati di rispondere all’esigenza di provvedere alla sistemazione delle migliaia di insegnanti precari e soprattutto di tacitare la montante protesta studentesca, “assicurando di fatto la promozione a tutti” e trascurando la circostanza che “il 20-25 per cento degli studenti abbandona la scuola nel corso del ciclo scolastico, principalmente a causa delle condizioni socio-culturali-economiche delle famiglie di provenienza”.
La scuola italiana – ricorda Galli della Loggia – è nata in conseguenza di “una decisione politica” da parte di coloro che hanno concorso alla formazione dello Stato nazionale; essi, nell’organizzare il sistema dell’istruzione, sono stati fin dall’inizio sorretti dall’idea che quest’ultima fosse “un elemento fondamentale dell’emancipazione di un popolo disperso, della ricostruzione di un’identità civica, civile, quindi culturale”. Ciò è avvenuto secondo modalità che si sono poi sviluppate nelle forme democratiche del XX secolo, che “in Italia hanno avuto il loro vertice nella Costituzione”.
Le riforme che si sono succedute a partire dal 1945, anziché attuare il dettato costituzionale, hanno invece concorso all’”aziendalizzazione dell’istruzione”, assegnando ai dirigenti scolastici una “vera e propria funzione di manager”, con cui il sistema dell’istruzione ha subito una “cesura definitiva”; da quel momento, infatti, quando la politica si è trovata nella necessità “di dare direttive alla macchina scolastica, ha acquistato sempre più l’abitudine di delegare le scelte generali, ma non solo, a settori della cultura pedagogica che riteneva ideologicamente vicini”. E’ per questo motivo che – a parere di Galli della Loggia – “v’è stata un’abdicazione della politica” a svolgere il ruolo di indirizzo della “macchina scolastica, limitandosi ad indicare alcune formule di natura pragmatica imperniate “sull’idea dell’alternanza scuola-lavoro”, sostenuta dalla politica dell’istruzione dell’Unione Europea e dell’Ocse.
Non è casuale, quindi, che oggi gran parte dei contenuti dei programmi scolastici traggano origine dalle direttive europee, a cominciare dalla sostituzione del ”nucleo di educazione umanistica” con le competenze professionali; in tal modo la preminenza riservata all’istruzione tecnica ha fatto sì che l’istruzione umanistica, quella attraverso la quale ogni comunità nazionale “trasferisce il proprio passato alle nuove generazioni”, fosse ridotta e marginalizzata, indebolendo la trasmissione di quel tipo di conoscenza e della capacità di critica propria della cultura umanistica.
Ciò sarebbe accaduto – a parere di Galli della Loggia – perché la sinistra, di fronte alle riforme che devastavano il sistema dell’istruzione italiano, “sarebbe stata assorbita e ipnotizzata dal concetto di modernità” veicolato in Italia dal Sessantotto; le istanze del movimento che lo hanno alimentato erano certamente giustificate dal fatto che l’Italia fosse allora un Paese fortemente in ritardo, soprattutto nel campo dei diritti civili e dei lavoratori, ma anche in quello dell’istruzione. La scuola, infatti, molto inadatta “a una società democratica qual era quella che la Costituzione aveva indicato”, è diventata “il terreno principale su cui si è esercitata” la spinta alla modernità e all’innovazione. Le ragioni delle istanze di modernità erano giustificate; ma il modo in cui esse sono state introdotte nella scuola, con i decreti delegati del 1974, si è risolto nel “massiccio” tentativo di democratizzarla, “attraverso l’immissione di organi elettivi con la partecipazione degli studenti e dei genitori”.
Si è trattato di provvedimenti pieni di propositi positivi, con risultati però del tutto negativi, in quanto alla prova dei fatti essi hanno solo legittimato, nella gestione dei problemi della scuola, il ruolo dei poteri locali. L’esito è stato un insieme di effetti culminati nell’idea che la scuola, “più che formare persone istruite”, dovesse “formare il cittadino democratico, per altri versi pronto ad inserirsi nella società, cioè a entrare nel mondo del lavoro”. Ciò significava che la scuola precedente, non essendo stata democratica perché separata dalla società, andava adeguata sostituendo all’istruzione umanistica l’insegnamento di competenze professionali, quindi scegliendo “come criterio di valutazione della carriera dello studente non più la quantità di conoscenze che è riuscito ad acquisire insieme alla capacità di adoperarle criticamente, ma il saper fare, il saper adoperare concretamente, a fini pratici (cioè lavorativi) ciò che ha imparato”.
In tal modo, il compito dell’insegnante, alla fine della carriera scolastica dello studente, è divenuto quello di valutare queste capacità, idonee a consentire un ingresso nella società con un ruolo che non poteva che essere quello di entrare nel mercato del lavoro. Si è trattato di una valutazione che ha implicato la subordinazione della scuola al mondo del lavoro, attraverso il “comandamento di ‘avvicinare’ la scuola alla società”, divenuto il “comandamento dell’istruzione, in Italia e in tutta l’area capitalistica”.
Tuttavia, l’origine della cause dello stravolgimento del sistema italiano dell’istruzione non è stato il Sessantotto; lo sono stati invece i fatidici decreti delegati del 1974. Con quei decreti l’apertura della scuola alla società è diventata “l’ingresso del mercato nella scuola e con esso il crescente disconoscimento del ruolo e della funzione dell’insegnante, con l’accusa di svolgere tale ruolo in modo autoritario e non democratico. Il disconoscimento quindi non è stato, come molti sono propensi a credere, la conseguenza del Sessantotto, bensì dell’ingresso del mercato nella scuola.
Il Sessantotto, secondo Galli della Loggia, è stato un movimento alimentato dalle idee modernizzanti di un gruppo di intellettuali; ma quando poi tali idee sono state recepite dalla società, hanno ricevuto dalla politica e dai partiti delle risposte distorte, che nel caso della scuola non sono state di natura autenticamente democratica. Sul piano dei contenuti, è stato prevalentemente privilegiato “quello dell’obbligo della promozione per tutti”, trascurando però che “tra quei tutti” veniva a mancare circa un quarto del totale degli iscritti, che abbandonava la scuola nel corso del ciclo scolastico, non per l’autoritarismo del docente, ma per l’autoesclusione degli studenti dal sistema educativo.
Per il ricupero della funzione educativa e formativa della scuola, il problema principale da risolvere – a parere di Galli della Loggia – è la ricostruzione dell’autorità del docente, il quale, non disponendo più di un potere disciplinare, né di un potere sanzionatorio (perché non può più bocciare), è stato deprivato della natura asimmetrica del rapporto che egli deve poter intrattenere con il discente nella trasmissione della cultura e del sapere; chi sa è il docente, non il discente, per cui se sulla base di una male intesa democrazia scolastica è negata la natura asimmetrica del rapporto docente-studente (ponendoli entrambi sullo stesso piano) viene meno anche l’autorità che deve sostenere e legittimare la trasmissione del messaggio educativo.
Con l’obbligo delle promozione per tutti e con la svalutazione della funzione del docente, la scuola ha finito così col perdere, non solo il ruolo educativo e formativo del cittadino, ma anche quello, di rilevanza costituzionale, di promozione sociale, di affrancamento e di emancipazione di tutti i componenti la società, dotandoli di uguali capacità di realizzare i loro progetti di vita.
In conclusione, secondo Galli della Loggia, se si vuole ricuperare la scuola al ruolo e alla funzione che essa deve svolgere nella moderna società, trasmettendo criticamente l’esperienza del passato alle nuove generazioni, fuori da ogni malintesa logica democratica, considerate le divisioni ideologiche che caratterizzano allo stato attuale il corpo sociale del Paese, non resta che “trovare un’ampia base comune tra [i] moltissimi italiani interessati a questo obiettivo”. Si dirà che questo proposito corrisponde più a una speranza che a una linea di azione politica immediata, ma non si potrà negare che esso non rifletta giuste riflessioni sulle effettive cause della crisi attuale della scuola italiana.
Completamente opposta è la posizione di Tomaso Montanari, non tanto riguardo alle cause che hanno scatenato la crisi della scuola, quanto al modo in cui essa dovrebbe essere riorganizzata per il superamento del disordine attuale. Montanari riconosce che la sua visione della crisi “è un po’ diversa” da quella di Galli della Loggia, “a cominciare dal punto di partenza”, che a suo parere non deve essere cercato nelle decisioni politiche assunte dalle classi liberali post-unitarie del Paese, ma nella rifondazione dello Stato attraverso la Costituzione del 1948. Essa ha prescritto la liberazione di tutti i cittadini italiani, non solo dal bisogno materiale, ma anche dall’ignoranza, perché fossero messi in grado di esercitare la propria sovranità.
Per Montanari, la causa della crisi non va tanto cercata nel fatto che la scuola sia stata abbandonata a se stessa, bensì nel fatto che essa sia stata intenzionalmente “uccisa”, nel corso della cosiddetta “Seconda Repubblica”, per essere conformata ad un’azienda, destinando il personale docente a svolgere compiti estranei all’insegnamento. L’aziendalizzazione della scuola, però, secondo Montanari, si è riconducibile solo all’entrata del mercato nel sistema scolastico, ma si iscrive nel quadro “più ampio di uno smantellamento dello Stato e della funzione pubblica, di un’eversione sostanziale del progetto della Costituzione del ‘48”. Cosicché, è assai debole la tesi secondo cui la crisi dell’istruzione sia da ricondursi “all’onda lunga di un libertarismo sessantottino”, in quanto manca di ricondurla piuttosto al montante neoliberismo di quegli anni, “che ha fatto a pezzi gran parte delle funzioni pubbliche”.
Il punto di rottura, per Montanari, non è dunque il Sessantotto, ma sono gli anni Ottanta e quelli successivi che segnano l’inizio del capovolgimento dei valori politici, sociali e morali fissati dalla Costituzione, con la sostituzione dell’idea di giustizia sociale con quella di una modernizzazione consona all’ideologia neoliberista; una modernizzazione, perciò, che non ha nulla a che fare con le istanze avanzate dai sessantottini. Per la ricostruzione della scuola, secondo Montanari, occorrerebbe introdurre un modello organizzativo dell’insegnamento sul tipo di quello realizzato a Barbiana da Don Milani, una scuola cioè intesa come luogo in cui si agisce per rimuovere le differenze di classe in modo pacifico e incruento; una scuola cioè che operi a somiglianza di “un ospedale che, naturalmente senza maltrattare i sani, si occupi soprattutto di curare i malati”; ma anche una scuola all’interno della quale sia possibile dare concretezza all’idea democratica del professore che, nello svolgimento della sua funzione, non sia assiso su una cattedra-piedistallo, ma sia idealmente a capotavola della classe scolastica a lui affidata, intento ad aiutare “gli studenti ad arrivare a un punto in cui criticheranno, argomemtatamente, anche ciò che avrà detto lui stesso”.
In conclusione, secondo Montanari, la scuola può uscire dalla crisi, solo cessando d’essere politicamente neutrale, “in quanto scuola della Costituzione i cui valori non possono essere revocati o messi in discussione”. A tal fine, egli considera il discorso pubblico sulla scuola fondamentale e crede anche che un cambiamento dello status quo del sistema d’insegnamento possa essere affidato, non tanto alla politica, quanto alla scuola stessa; in altri termini, nella prospettiva di Montanari, a una scuola animata al suo interno, sia pure in modo pacifico e incruento, dalla logica della lotta di classe. Appartiene solo a Montanari l’idea che la scuola possa essere sottratta alla crisi che l’affligge, attraverso relazioni conflittuali tra coloro che vivono al suo interno, anziché attraverso relazioni che uniscano, invece che dividere.
Stupisce il fatto che Montanari non abbia colto che la causa principale della crisi della scuola sia dipesa dalla conflittualità originata da una falsa idea di democratizzazione delle sue strutture; idea che, dopo aver sconquassato il sistema scolastico, non può servire a ripristinare una situazione di ordine condiviso, in quanto ripropone quella conflittualità che è l’origine del male che si vorrebbe rimuovere.

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