Gianfranco Sabattini
Paolo Fadda, scrittore appassionato sull’evoluzione economica della Sardegna, ha dato alle stampe “L’amico di uomini potenti”. Si tratta di un libro nel quale Fadda, in terza persona, racconta la sua passata esperienza; non si tratta di un’autobiografia – come egli tiene a precisare –, ma del resoconto di un “lui narrante” che, sollecitato da una “spalla” immaginaria, “apre il cassetto della memoria e riscopre, pian piano, il suo passato raccontandolo all’io scrivente. Quel che ha visto, chi ha incontrato e quanto, d’esperienza, gli è rimasto, in quel mezzo secolo abbondante in cui ha attraversato – da cronista prima ancora che da spettatore(?) – la storia più vera ed interna di quest’isola-patria”.
Il libro però non si limita a riportare i ricordi dell’”io narrante” sulle vicende che hanno caratterizzato la storia economica e sociale dell’Isola nei primi decenni successivi all’ottenimento dell’Autonomia speciale; esso, in chiusura, riporta anche un insieme di “appunti & riflessioni” su un possibile futuro della Sardegna.
Qual è il futuro che Fadda prefigura per la Sardegna? In sintesi, può essere riassunto nei termini che seguono: per fare nostro un futuro desiderato di benessere – egli afferma – occorre prima di tutto “scacciare le pene del difficile presente, non dimenticando di far tesoro degli errori commessi in passato”. A tal fine, va quindi rifondata l’Autonomia, nel senso che le sue “valenze” “non possono più essere esclusiva prerogativa della classe politica”, ma di altri protagonisti, “più uomini del ‘fare’ che del ‘dire’”, per dare all’”economia e al mercato quel primato che consenta alla società isolana di diventare forte, competitiva e socialmente coesa”. Per perseguire questo obiettivo, e “saltare in sella al futuro”, occorre voltare le spalle al passato “per cercare di fare luce sull’itinerario da seguire e quali campi attraversare”; in altri termini, occorre individuare i settori produttivi interni alla base produttiva sarda, potenzialmente più dinamici, da “utilizzare e su cui contare”.
Padroneggiare l’Autonomia, non solo sul versante istituzionale e della politica, ma anche su quello dell’economia, implica la rimozione del pregiudizio, radicatosi già dai tempi della “Prima Rinascita”, della presunta contrapposizione tra industria e agricoltura; ancora oggi, questi due settori continuano ad essere visti ”come poli contrapposti d’una costituzione economica sbilenca e sfilacciata”. Per il superamento del pregiudizio e imboccare la strada del futuro desiderabile, la Sardegna deve pensare di sviluppare il settore manifatturiero, in funzione della valorizzazione delle risorse locali e della soddisfazione della domanda di beni finali proveniente dalla crescita del comparto turistico, che Fadda considera “il fatto più nuovo e più travolgente, che l’isola abbia trovato nella sua strada negli ultimi quattro decenni”; anche se la crescita del comparto è stata contrastata da “arroccamenti ‘fondamentalisti’”, che spesso hanno ostacolato ogni progetto di cambiamento e di progresso.
Le attività manifatturiere dovrebbero essere indirizzate, non solo a soddisfare la domanda di beni alimentari all’interno dell’Isola, ma anche a sostenere le esportazioni verso i mercati esterni. Nel futuro desiderabile della Sardegna, con lo sviluppo delle attività manifatturiere agro-alimentari, non c’è più posto – secondo Fadda - per le passate attività produttive ad alto rapporto capitale/lavoro (le famose ‘cattedrali nel deserto’), ma opifici a misura d’uomo, per organizzare al loro interno un processo produttivo caratterizzato da una forte spinta innovativa basata sull’introduzione nelle combinazioni produttive delle moderne tecnologie informatiche adattate alle condizioni locali.
La Sardegna, quindi, per “fare sviluppo”, non deve più, come nel passato, “affidarsi alle sole variabili macroeconomiche”, ma deve valorizzare “tutti i fattori antropologico-culturali” potenzialmente disponibili, aprendoli all’uso delle moderne tecnologie gia presenti nell’intera area regionale. Con l’impiego di tali tecnologie – afferma Fadda – sarà possibile la “’rifondazione’ dell’istituto autonomistico, per realizzare una Regione ‘leggera e sburocratizzata’”, con la messa a punto di un modello di sviluppo per una “diversa realtà produttiva. Dove la stessa società politica venga costretta a liberare l’imprenditoria isolana dallo stato di subordinazione, e di insabbiamento in cui oggi si trova”. Non solo, con l’impiego delle nuove tecnologie ed il potenziamento delle attività produttive manifatturiere in funzione della valorizzazione delle risorse interne all’Isola, sarebbe possibile liberare la Sardegna da due penalizzazioni dalle quali ancora non è stata ancora affrancata: una è quella, radicata nella cultura sarda che, di fronte alle sfide del mondo moderno, evoca il ricorso “a su connotu”, condizionando il progresso; l’altra è quella che spinge i sardi a “sentirsi isolani”, cioè “diversi” da quanti vivono sulla terraferma, con una chiusura da isolamento talmente esclusiva, da indurre i sardi a cessare di essere italiani.
Percorrendo la strada che conduce al nuovo futuro, Fadda conclude augurandosi che i sardi subiscano una “metamorfosi” culturale, utile a condurli ad interiorizzare il senso della famosa frase di J.F. Kennedy, cioè a cessare di chiedersi cosa la Regione può fare per loro, ma al contrario chiedersi cosa essi possono fare per la Regione nella quale vivono. Si tratta di un augurio che lo stesso Fadda rivolge innanzitutto a se stesso, perché, compiendosi la metamorfosi sperata, la Sardegna possa finalmente percorrere la strada della crescita e dello sviluppo.
Osservazioni critiche
Non si può non concordare con quanto è contenuto negli ”appunti & riflessioni” di Fadda sul futuro dell’Isola. Vi è però un “lato oscuro” nella sua narrazione, che impone sia fatta chiarezza, non foss’altro che per sottolineare, per amore del vero, che le riflessioni sui limiti delle scelte del passato, e su quelle che sarebbe stato più conveniente assumere per assicurare all’Isola un futuro migliore, sono state anticipate da quanti in Sardegna, muovendo da posizioni non prone al potere politico e non “fondamentaliste”, avevano avuto modo di indicare in anticipo i limiti del modello di crescita che sarebbe poi stato adottato, formulando al riguardo le stesse obiezioni e le stesse alternative esplicitate da Fadda solo ora.
Stupisce che Fadda, “l’amico di uomini potenti”, consideri oggi dal tutto inappropriate (sulla base degli esiti conseguiti) le scelte assunte negli anni in cui era parte integrante dell’establishment dominante e sulle quali allora non aveva avuto nulla da obiettare; anzi, considerato che – come tiene a precisare – fin dai tempi della prima Autonomia egli ha fatto un lungo viaggio sotto il segno della DC, è plausibile nutrire il sospetto che di quelle scelte sia in parte responsabile.
Correttezza intellettuale avrebbe voluto che, nella narrazione del suo convincimento tardivo (meglio tardi che mai) sull’inappropriatezza di quelle scelte, Fadda avesse riconosciuto che esistevano nell’Isola posizioni critiche nei confronti del modello di sviluppo prescelto, sin da prima dell’elaborazione del primo Piano di Rinascita. In altre parole, Fadda avrebbe dovuto riconoscere che già negli anni Cinquanta, dopo il “Congresso del popolo sardo” celebrato in Sardegna nel 1950, una “Commissione consultiva” istituita a livello regionale aveva predisposto uno studio per la Rinascita fondato sulla traduzione operativa delle conclusioni del “Congresso”, auspicante un processo di industrializzazione unicamente volto a creare una struttura produttiva regionale equilibrata, fondata sulla valorizzazione delle risorse locali.
Nel 1959, però, è stato insediato a livello nazionale un apposito “Gruppo di lavoro” (formato da rappresentanti del Governo nazionale e della Regione), che nel giro di poco tempo ha elaborato un “Programma di intervento”, col quale venivano sovvertite le conclusioni dello studio originario della “Commissione”, con la scelta di un modello di “industrializzazione forte” dell’economia regionale e la promozione di attività che fino ad allora erano state estranee alla cultura produttiva dell’Isola. Il che ha suscitato non poche perplessità, per le ragioni che saranno poi evidenziate da Albert Hirschmann, secondo il quale lo sviluppo economico era un fenomeno molto complesso, la cui promozione non poteva essere avviata attraverso la semplice manipolazione di alcune variabili finanziarie, come veniva ipotizzato nel progetto del “Gruppo di lavoro”, poi attuato.
Ovviamente queste considerazioni critiche provenivano inizialmente solo dagli “specialisti” (economisti e studiosi, in genere); ma già col manifestarsi dei primi effetti provocati dall’attuazione del primo Piano di Rinascita emergeva che si era ben lontani dalle attese che in esso erano state riposte. Per converso, grazie ad ulteriori approfondimenti teorici, era divenuto sempre più chiaro le ragioni su cui erano state fondate le perplessità iniziali. In particolare, Hirschmann, in “Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo” (“Rassegna italiana di Sociologia”, 1981) sosteneva che i modelli utilizzati per descrivere e spiegare l’avvio del processo di crescita delle regioni arretrate si erano limitati ad esplicare il processo solo in termini di una “dinamica di equilibrio”, riferita però a regioni economicamente avanzate; mentre, al contrario, sarebbe stato necessario utilizzare modelli che avessero esplicato il processo di crescita in termini di una dinamica del tutto diversa, ovvero in termini di “dinamica cumulativa”, della struttura economica e sociale originaria di tali regioni. In questa prospettiva, il problema del superamento dell’arretratezza doveva essere risolto, non solo sulla base della disponibilità di risorse finanziarie, ma anche attraverso l’individuazione delle “variabili strategiche indipendenti“, in funzione delle quali determinare le forme economiche e sociali con cui promuovere il superamento dello stato di arretratezza.
Secondo Hirschman, i costruttori dei modelli utilizzati per la formulazione delle politiche d’intervento avevano di solito assunto l’ipotesi dell’”industrializzazione ritardata”. Tale ipotesi implicava la riproposizione, all’interno delle regioni arretrate, dei comportamenti e delle strutture produttive delle regioni avanzate; implicita a tale ipotersi era l’assunto che per promuovere il processo di crescita delle regioni arretrate bastasse immettere “forzatamente” risorse finanziarie nella loro struttura sociale e produttiva stazionaria, adeguando a questa forzata immissione tutte le altre variabili, quali il lavoro in tutte le sue forme specifiche, la tecnologia e l’imprenditorialità.
Il passaggio dall’arretratezza alla crescita è stato in tal modo correlato all’immissione di capitale finanziario, assunto come unica variabile strategica, cui associare una politica pubblica finalizzata alla creazione di economie esterne di tipo reale (infrastrutture) o di tipo finanziario (incentivi monetari). E’ stata questa la causa per cui tutti i tentativi di avviare un processo di crescita delle regioni arretrate mediante l’immissione in esse di risorse finanziarie esterne non hanno avuto successo; ciò perché la logica sottostante l’”immissione” era fondata sull’ipotesi, contestata da Hirschmann, che la produttività e la destinazione delle risorse finanziarie investite fossero compatibili con la “razionalità economica” propria delle regioni già sviluppate, assente però in quelle arretrate.
Sulla base di quanto sin qui detto, qual è stata allora la causa dell’insuccesso della politica d’intervento sperimentata per la soluzione dell’annosa “Questione sarda”? Essa va individuata nel fatto che la politica regionale attuata è stata ispirata all’ipotesi dell’”industrializzazione ritardata” indicata da Hirschman; ipotesi che, oltre a risultare riduttiva, implicava che si considerassero positivi solo gli elementi di “rottura dell’arretratezza” che potevano derivare dalla sola immissione di risorse finanziarie; la “rottura” doveva infatti considerarsi, secondo uno dei padri fondatori dell’intervento straordinario nelle regioni arretrate, Pasquale Saraceno, “come il risultato di un’azione deliberata, volta a creare strutture necessariamente molto complesse”, nel senso che “non potendosi avere uno sviluppo nascente da stimoli automaticamente sorgenti nel sistema”, si doveva “procedere alla creazione deliberata di un tale sistema”, sperando che, in un secondo tempo, esso “potesse svilupparsi per forza propria”.
Qual è stato il risultato? La politica di sviluppo realizzata in Sardegna ha riassunto in sé i limiti delle politiche d’intervento ispirate all’ipotesi dell’”industrializzazione ritardata” e del ruolo strategico assegnato all’immissione nella regione delle sole risorse finanziarie. A causa dell’assunzione di questa ipotesi, gli esiti della politica di crescita attuata in Sardegna sono stati: una valutazione degli investimenti realizzati sulla base di parametri ad essa esogeni; la mancata considerazione delle asimmetrie esistenti tra regioni arretrate e regioni avanzate; l’assunzione di criteri di valutazione degli esiti delle politiche attuate disgiunti da ogni riferimento alla loro giustificazione rispetto al mercato, ma connessi al perseguimento di obiettivi che nulla avevano a che fare con il superamento dell’arretratezza economica dell’Isola. L’insieme di questi esiti è valso a determinare solo un aumento del reddito disponibile disgiunto da quello del reddito prodotto
L’aumento del reddito disponibile si è associato ad una disfunzionale distribuzione intersettoriale dell’occupazione della forza lavoro, i cui effetti sono consistiti nella perdita dell’autonomia agro-alimentare da parte dell’Isola. In particolare, radicale è stata la diminuzione dell’occupazione verificatasi nel settore agricolo, a fronte di un limitato aumento di quella industriale e di una sua ”esplosione” nel settore dei servizi ed in quello della pubblica amministrazione.
La contrazione dell’occupazione agricola e l’espansione di quella riguardante i settori dei servizi e della pubblica amministrazione, in assenza di un parallelo sviluppo del settore industriale manifatturiero, hanno comportato uno squilibrio della bilancia commerciale regionale, che ha causato la perdita dell’autonomia agro-alimentare dell’Isola; si è trattato di un effetto connesso alle modalità con cui, nell’intero periodo dei primi trent’anni di autonomia istituzionale, sono state utilizzare dalla Sardegna le risorse pubbliche ad essa trasferite.
La perdita dell’autonomia agro-alimentare è da ricondursi al tipo di attività industriali ad alto rapporto capitale/lavoro, scelte come base del processo di crescita dell’Isola, che si sono rivelate inidonee ad interconnettersi con le attività produttive manifatturiere preesistenti. In conseguenza di ciò, la mancata crescita e quella della mancata costituzione di nuove attività manifatturiere hanno orientato la domanda regionale di beni di consumo verso beni importati, determinando così una “fuga” degli effetti moltiplicativi della spesa del reddito disponibile verso le regioni dalle quali provenivano le importazioni agro-alimentari dell’Isola.
L’insieme delle conseguenze negative descritte ha originato una base produttiva regionale che ha solo sorretto un “debole sviluppo senza crescita”; sviluppo che ha causato la tendenza dell’economia isolana a portarsi verso una costante situazione di stallo, il cui superamento avrebbe richiesto un totale cambiamento delle modalità con le quali erano stati pensati e attuati tutti gli interventi finalizzati alla crescita. Tale cambiamento avrebbe dovuto comportare, non solo l’affievolimento delle situazioni negative che nel passato avevano condizionato i processi decisionali concernenti il futuro economico dell’area regionale, ma anche il ricupero di alcuni parametri del tutto ignorati, quali, ad esempio, l’importanza delle attività tradizionali e soprattutto la necessità che ogni investimento aggiuntivo e innovativo si integrasse con esse.
In conclusione, il cambiamento richiesto implicava una discontinuità rispetto alle ipotesi e alle procedure con cui era stato attuato l’intervento straordinario iniziale nell’Isola, compresa una riforma volta a dotare la Sardegna di un nuovo Statuto e di una nuova organizzazione della struttura istituzionale della Regione.
Il paradigma dello sviluppo locale avrebbe dovuto rappresentare la discontinuità rispetto al passato, non solo sul piano istituzionale, ma anche sul piano del metodo di “fare sviluppo. In questa prospettiva, negli anni Ottanta, la Regione avrebbe dovuto cessare di insistere nel preservare il risultato di scelte economiche che non avevano risposto sino ad allora alle attese delle comunità locali, realizzando una riforma dell’organizzazione istituzionale delle Regione che includesse forti elementi di “autonomia decisionale” a favore dei territori.
Ciò avrebbe consentito di rifondare l’Autonomia, sottraendola – a differenza di quanto afferma Fadda nelle sue riflessioni sul possibile futuro della Sardegna – non al primato della classe politica, per trasferirlo all’economia e al mercato, ma agli autentici protagonisti del “fare”, presenti e diffusi nell’area regionale, cioè ai membri delle comunità locali, gli unici “costruttori” di un possibile futuro di benessere auspicabile per la Sardegna.
3 commenti
1 Aladinpensiero
11 Ottobre 2019 - 08:13
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=100681
2 Giorgio
11 Ottobre 2019 - 11:40
L’analisi storica del Prof Sabattini risulta impeccabile dal punto di vista formale. Ci sta anche la critica a Paolo Fadda per i suoi trascorsi. Tuttavia il problema da porsi ora è cosa fare per il futuro della Sardegna. È su questo che si misura il contributo che ciascuno, per la parte di propria competenza, può dare.
Da questo punto di vista ben vengano le proposte, seppure tardive, di Paolo Fadda, se queste vanno nella direzione di favorire lo sviluppo dell’Isola. Quanto al Prof. Sabattini, in qualità di profondo conoscitore dell’economia regionale, più che analisi di tipo retrospettivo, ormai note ai più, o critiche, seppur fondate, ci si aspetterebbe una proposta organica di sviluppo per il futuro. Questa sarebbe la migliore eredità da lasciare ai posteri
3 Gianfranco Sabattini
12 Ottobre 2019 - 09:30
Caro Giorgio, forse non sono riuscito a mettere bene in risalto la proposta che da tempo (certamente non da solo) vado proponendo; essa (la proposta) è stata parzialmente oscurata dalle affrettate conclusioni dell’articolo: Sinteticamente, posso riassumerle affermando che il futuro della Sardegna non può che essere fondato su una discontinuità delle ipotesi e delle procedure con cui era stato formulata ed attuata la politica di intervento del passato, i cui tratti fondamentali devono consistere in una riforma dello Statuto per dare alla Sardegna una nuova organizzazione della sua struttura istituzionale. Il paradigma dello sviluppo locale riassume in sé la discontinuità proposta, non solo sul piano istituzionale, ma anche sul piano del metodo di “fare sviluppo”. In questa prospettiva, la Regione deve cessare di insistere nel preservare il risultato di scelte economiche che non hanno risposto sinora alle attese delle comunità locali, realizzando quindi una riforma istituzionale che includa forti elementi di “autonomia decisionale” a favore di tali comunità presenti nei singoli territori. Grazie degli apprezzamenti.
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