Carbonia, città azienda dalle inflessibili gerarchie

6 Ottobre 2019
1 Commento


Gianna Lai

Proseguiamo nella ricostruzione della storia di Carbonia, la città fabbrica di Stato, costruita a bocca di miniera, che riproduce dell’Azienda l’inflessibile gerarchia interna. I post precedenti ogni domenica a partire al 1° settembre. 

Carbonia, ‘una delle tante zone industriali’ nata, si potrebbe dire parafrasando Ernesto Rossi, molto duro a proposito dei nuovi insediamenti del regime fascista, ‘onde migliorare le condizioni economiche di alcune regioni, in particolari località d’Italia‘ che, ‘per le difficoltà degli approvviggionamenti,…per la lontananza dei mercati,…per la deficienza di manodopera qualificata…e per la cattiva qualità delle materie prime disponibili sul posto’, sono le meno adatte a garantire lo sviluppo del territorio circostante.
Rompendo la tradizione costruttiva e abitativa dei paesi sardi, il complesso urbano della nuova città operaia viene realizzato in trachite e pietra estratta dalle cave locali, avendo imposto il regime un uso limitatissimo del ferro. Ne è padrona l’Azienda Carboni Italiani, ACaI, costituita il 28 luglio 1935, ormai divenuta mggiore azionista della SMCS e dell’ARSA, che sviluppa il progetto direttamente sotto il controllo del suo Presidente, Guido Segre. A dirigere i lavori l’ingegner Cesare Valle e l’architetto Ignazio Guidi, poi chiamati ad Addis Abeba da Bottai e sostituiti dagli architetti Montuori e Pulitzer Finali. Fadda e Tonini tra le imprese più accorte ed efficienti, che operarono nel tumultuoso cantiere di costruzione della città, dove si dà inizio ai lavori nell’estate del 1937, in una estensione corrispondente a 143,58 kmq di territorio sulcitano. Le prime pietre destinate alla Torre Littoria, sede del fascio. Piano Regolatore della ‘nuova città rurale di Carbonia’ ad opera dell’ Ufficio Tecnico, collaudo affidato all’IFACP l’Istituto fascista per le case popolari.

Riproducendo le forme di potere e di subordinazione che regolano i rapporti interni alla fabbrica, la città si sviluppa secondo una pianta a scacchiera, già a metterne in luce la struttura sociale interna alquanto rigida, fondata come è, nei vari quartieri, sulla divisione degli spazi riservati ai diversi ceti, alle diverse condizioni economiche e professionali di appartenenza. Al centro la piazza col Municipio, il campanile a immagine di quello di Aquileia, qui ridotto a 43 metri per non superare in altezza la Torre Littoria, emblema della città ed anche sede del ’sacrario dei martiri fascisti’. E poi la Chiesa con la Via Crucis di Tavolara, del Tilocca la statua di Santa Barbara, protettrice dei minatori, di Figari la vetrata, di Stanis Dessy le xilografie sul tema dei minatori. E poi, adiacenti, Villa Sulcis sede della direzione SMCS, i servizi, i luoghi per le attività di svago e del tempo libero, sempre gestiti dall’ACaI, come gli stessi impianti sportivi, i pubblici locali e il dopolavoro e il cinema, mai in grado di reggere quella massa di gente, che cresce così rapidamente. E, a segnare le nuove forme dell’apartheid, l’albergo per gli impiegati, che è anche circolo ricreativo e luogo di incontro, ad essi esclusivamente destinato. E poi la sede del sindacato, l’Unione provinciale fascista lavoratori industria, e la caserma dei carabinieri e il piccolo ospedale dell’Istituto Nazionale Fascista Infortuni sul lavoro, l’asilo, la scuola elementare, gli spacci aziendali, il campo sportivo dedicato a Costanzo Ciano e, presso i pozzi di Serbariu, una Centrale termoelettrica di 75 watts, da alimentare col carbone Sulcis. Da Caput Aquas, inizialmente, l’approvvigionamento idrico per la città, poi da Villamassargia, v. Relazione presidente ACaI al prefetto 13-2-1940 e 9.11.1940 e al duce, in Presidenza Consiglio Ministri, Archivio Centrale di Stato Roma
. A formare il centro dell’abitato, le villette dei dirigenti e poi, alquanto distanziate e in posizione circolare rispetto alla piazza principale, le ‘case operaie’ destinate ai minatori e alle loro famiglie. Che formano l’ossatura di Carbonia, con attorno i loro cortili autonomi, su imitazione delle case coloniche toscane, per le quali è ugualmente previsto l’imposizione di un canone di affitto.
Fin verso l’estrema periferia, così ampia, così vasta, in un agglomerato già da subito molto esteso, strade e marciapiedi ancora da costruire, e così del tutto priva di servizi, come separata, quasi fosse altra cosa rispetto al resto della città. Questa si allarga a comprendere i 10 alberghi operai, per 1500 lavoratori senza famiglia, ciascuno denominato in ricordo e secondo le località delle vittorie africane: Caffé dell’Impero, ad esempio, la grande insegna che troneggia sul bar posto al centro della Piazza Roma. E poi, costruiti tra le baracche fatiscenti e senza neanche servizi igienici che, sempre più numerose, continuano a caratterizzare il paesaggio urbano della nuova città, gli squallidi cameroni dormitorio dell’estrema periferia, destinati agli operai dell’edilizia e ancora utilizzati fino agli anni del secondo dopoguerra, per dare ricovero a decine e decine di famiglie senza casa.
Non un piccolo villaggio, questo immenso patrimonio nelle mani dell’ACaI, ma un centro edificato con criterio e rispetto delle moderne tecniche di costruzione, secondo un piano organico e dettagliato, dapertutto prevista l’apertura dei dopolavoro, strade ampie e larghi spiazzi aperti in ogni quartiere. Anche se, troppo a lungo lasciata senza illuminazione, la città comincia già a incupirsi fin dopo il tramonto, insicura e pericolosa da attraversare di notte, specie nella sua trascurata periferia. Le case dotate di acqua e luce e di veri servizi, nell’ordinata divisione dei locali interni; confortevoli per la cottura dei cibi e per il riscaldamento degli ambienti le stufe in mattoni alimentate dal carbone Sulcis. Una cosa mai vista per la massa di diseredati che, provenendo dalle zone più povere del Paese, affollava in quegli anni la miniera, e per le popolazioni del Sulcis, ridotte in miseria dall’incuria dei governi, tra raccolti scarsi, malaria e inesistenza di presidi medici e sanitari. Ma da qui a chiamare Carbonia ‘città giardino’ ne passa se, per carenza di spazi, in ciascuno dei piccoli quattro appartamenti, che componevano le singole case popolari, più nuclei familiari, composti da otto, dieci, dodici persone, avrebbero ancora convissuto, fino a tutti gli anni Cinquanta. In condizioni di tale promiscuità e di tale precariato, e secondo un continuo e incontrollabile avvicendamento, da impedire a lungo ogni forma di cura degli stessi piccoli cortili condominiali. La sua più forte caratterizzazione, per tutti gli anni della miniera, quelle lunghe file di lavoratori che l’attraversano, provenendo dai vari quartieri e dalla più lontana periferia, tutti verso Serbariu, andata e ritorno, a piedi o in bicicletta. Una vera e propria rete di uomini che si allarga come a raggiera, nell’incontro degli operai che montano al lavoro e degli operai che smontano, per tre volte al giorno, al suono della sirena del turno d’ingresso ai pozzi. Insieme ai tocchi di campana della piazza, i veri segni che scandiscono il tempo e danno il ritmo, e la sveglia, pure al resto della città.
Così Bacu Abis, piccolo borgo preesistente a Carbonia, formato da 20 isolati e 87 appartamenti, oltre che da uno spaccio aziendale, da un ambulatorio, dalla scuola e dalle sedi del fascio e del dopolavoro. Anche qui l’ACaI proseguì nella sua opera di costruzione di nuovi caseggiati, allargando lo spazio abitativo fin verso la campagna circostante, nell’ambito tuttavia di una estensione decisamente più limitata, tale da non far perdere quasi per niente al luogo il carattere originario di piccolo villaggio minerario.

1 commento

Lascia un commento