Lucio Garofalo
Condivido molto il contenuto e lo spirito di questo scritto del prof. Lucio Garofalo che mi fa andare con la memoria nei tempi lontani delle mie scuole medie alla Scuola “G. Pascoli” di Carbonia. Ricordo che i minatori o le loro mogli, persone molto modeste, talora analfabeti, si recavano ai colloqui coi professori con l’abito buono, gli uomini col cappello o il basco in mano, e ascoltavano molto rispettosamente le valutazioni dei docenti, che prendevano molto sul serio.
Per ricollegarmi al post di Garofalo, ricordo che i minatori, genitori di ragazzi irrequieti e birbanti, di solito concludevano il colloquio con una raccomandazione: “Su professori, m’ arraccomandu, arropiriddu!”, “Professore, mi raccomando, lo picchi!”. Forse è una pedagogia, primitiva e rozza, ma ha funzionato. Molti di quei ragazzi sono diventati buoni cittadini, seri lavoratori e ottimi professionisti. (A.P.)
Alcuni genitori (che si ritengono “utenti” della “scuola-azienda”) forse scambiano noi docenti per baby-sitter assunti al loro servizio ed alle loro dipendenze, ma non è così. I doveri di vigilanza dei minori non sono tali da giustificare le lunghe attese all’uscita della scuola per accontentare i genitori ritardatari, che se la prendono più comodamente. Vorrei ricordare ad alcuni che “educare” non significa viziare, bensì l’esatto contrario: vuol dire fare in modo che i figli diventino degli individui autonomi e responsabili, e non dei tiranni capricciosi ed infantili. Mi domando se siano genitori capaci e maturi coloro che si limitano ad assecondare i propri figli e si ergono sul piedistallo nel ruolo, errato ed improprio, di “sindacalisti ad oltranza” delle loro creature, anche quando hanno torto marcio. E sono pronti e disponibili ad esaudire qualsiasi loro richiesta, anzi pretesa, senza esigere nulla in cambio. Concedono tutto e subito, in una maniera incondizionata, ma non sono capaci di renderli autonomi, maturi e responsabili, in condizione di far fronte alle avversità della vita. Genitori solo in quanto li hanno generati, ma non li sanno educare, nella misura in cui non riescono ad opporgli neppure il rifiuto più blando. Ancor meno sanno infliggere ai propri figli la benché minima punizione per fini educativi, non repressivi, né coercitivi. Non a caso, la stessa cognizione di “educare” discende dall’etimo latino “e-ducere”, che significa letteralmente estrarre fuori, emancipare, non castrare, inibire ed opprimere. Vorrei ricordare che l’amore per i propri figli non significa proteggerli ad oltranza e in ogni caso, persino quando sbagliano in modo eclatante, ma comporta la capacità e la volontà di punirli contro il nostro stesso desiderio istintivo di cura e di protezione. Tale è l’amore intelligente, poiché giova al bene ed alla crescita psico-emotiva e socio-affettiva dei nostri figli: serve fargli comprendere che, allorché commettono un errore, devono sapersene assumere la paternità e la responsabilità personale e pagarne ogni conseguenza. Altrimenti non diventeranno mai adulti consapevoli e respondabili. Lo sforzo educativo più serio ed efficace equivale a tirar fuori, o fuoriuscire (”e-ducere”), la personalità di un adulto, che “cova” nel bambino. Serve educare, non viziare oltremisura i figli.
1 commento
1 Aladinpensiero
1 Ottobre 2019 - 07:46
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