Carbonia. L’Azienda Carboni Italiani (ACaI), ‘ente asservito agli interessi dei gruppi industriali privati’

29 Settembre 2019
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Gianna Lai

 

Questo è il quinto post sulla fondazione di Carbonia. Gli altri sono stati pubblicati nelle domeniche precedenti a partire dal 1° settembre scorso. 

Il carbone, ancora il più importante fra i combustibili industriali, le miniere, uno dei ’settori chiave’ della politica autarchica (Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli 1980, pag. 200), nel 1935 nasce il Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra e la Commissione suprema di difesa. Nello stesso anno,  il 28 luglio, l’ACaI viene istituita come Ente di diritto pubblico, con personalità giuridica e gestione autonoma (regio decreto legge 1406), e posta sotto la vigilanza dei Ministri delle corporazioni e delle finanze, ai quali dovrà rimettere l’approvazione del suo programma e del suo bilancio. Azienda dalle vaste proporzioni, ha un capitale iniziale di 50 milioni, ma già nel ‘36 esso tocca i 76 milioni, nel ‘38 i 200, poi i 300 e i 500 nel ‘39 e nel ‘40, fino a raggiungere i 600milioni. Partecipazione dello Stato del 72%; la restante del 28%, alle Assicurazioni, di cui 10% all’Istituto fascista di previdenza sociale, 1,5% alla Riunione Adriatica di sicurtà, 0,5%, alle Assicurazioni generali di Venezia. Con decreto del Capo dello Stato viene nominato il Presidente, i componenti del Consiglio di amministrazione, prima 7 e poi 9, indicati dagli Istituti di Risparmio e delle Assicurazioni che partecipano al capitale ACaI, e dal Ministro delle corporazioni, dal ministro delle finanze, dalla confederazione facista dell’industria, dalla confederazione fascista dei sindacati dell’industria. Alla direzione ACaI tutta la responsabilità delle scelte economiche e produttive: per promuovere lo sviluppo industriale nazionale, le forti disponibilità finanziarie degli istituti assicurativi, che possono disporre di somme enormi, come dice Grifone, nell’intesa tra alta finanza e dirigenza dello Stato. L’ACaI agisce in condizioni di monopolio e gestisce permessi di ricerca e di coltivazioni, controlla la vendita del combustibile e finanzia le società carbonifere ad essa affiliate, la Società mineraria carbonifera sarda, nel Sulcis, e la Società carbonifera Arsa, già dello Stato attraverso l’IRI, in territorio istriano, la Società anonima mineraria Venezia Giulia e l’Istituto fascista delle case popolari, ente morale con capitale di 1milione, una sua sezione autonoma aperta nel Sulcis (v. Relazione presidente ACaI, Inaugurazione Carbonia, 1938, Ministero industria Commercio e artiginato).  L‘ACaI garantisce la ripresa di Bacu Abis e, intensificando i sondaggi nel Sulcis, dà inizio allo sfruttamento del bacino di Serbariu, ipotizzando una produzione di 4.000 tonnellate giornaliere di Sulcis. Si scavano due grandi pozzi a Serbariu del diametro interno di 5 metri e profondi 176 metri, ancora approfonditi Schisorgiu, Cortoghiana e Tanas, complessivamente 7 i nuovi pozzi, essendo in 500 milioni di combustibile valutata dall’ACaI la consistenza dei giacimenti sardi (Promemoria Pres. ACaI a Corporazione industrie estrattive, gennaio 1938 e maggio 1938). Le spese per le ricerche ammontano a oltre 5milioni di lire, a oltre 2milioni l’escavazione dei pozzi di Sirai;28 milioni nel 1938, più altri 10 negli anni successivi, lo scavo del canale e la costruzione del porto di Ponte romano, Ponti, a Sant’Antioco; e 18 milioni l’impianto prova di distillazione del minuto Sulcis, tra San Giovanni e Sant’Antioco, produzione di benzina e semicoke per gli impianti industriali, che avrebbe dovuto coprire il fabbisogno della Sardegna (Verbale seduta Consiglio di Amministrazione ACaI, 23.11.1938). L’energia necessaria alla miniera, dalla Centrale termoelettrica di Santa Caterina, costruita dalla SES, Società Elettrica Sarda, in grado di utilizzare a sua volta combustibile sardo, che affianca nell’isola la produzione delle centrali di Santa Gilla, Portovesme e Carloforte, e quella delle idroelettriche costruite sul Tirso e sul Coghinas, tutte sotto controllo SES. E poi la laveria di Serbariu, che avrebbe migliorato il carbone Sulcis, portandolo da una media di 4.000 calorie a 6.000, per limitarne la perdita intorno al 30%. Così, mentre spirano più forti i venti di guerra, a seguito del Piano di ricerca minerali e potenziamento attività estrattiva sul territorio nazionale, anno 1938, le produzioni AMMI e ACaI aumentano nel ‘39 del 60% rispetto al 1935 (Salvatorelli Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Mondadori 1970, pag. 352). In provincia di Cagliari, le 25 aziende tra le più importanti: ACaI a Carbonia e poi Monteponi, Montevecchio, Pertusola, Vieille Montagne, Malfidano, Società Cogne, nel territorio di Iglesias, Nebida, Guspini, Narcao, ecc. Produzione Sulcis, 465772 tonnellate nel ‘38, 911279 ‘39. Previsione complessiva di carbone nazionale ACaI per il 1940, 4milioni e mezzo di tonnellate, come da richiesta del duce, di cui 3milioni e mezzo di carbone sardo (v. Consiglio di Amm. ACaI 23.11.1938), che, in realtà, non avrebbe poi superato il 1.295.779 tonnellate di produzione (v. Rapporto sull’industria mineraria, Centro e conomico per la ricostruzione, anno 1946, in Ministero industria e commercio, direzione generale produzione industriale, Archivio centrale di Stato, Roma, pag. 49). E si sarebbe trattato veramente di ben poca cosa, rispetto ai 46 milioni di produzione francese per il solo 1938, come dice Enzo Santarelli, in Storia del movimento e del regime fascista, Ed. Riuniti, 1967, pag 370), che può contare sulla qualità indiscussa del prodotto, su ricchezza ed estensione dei giacimenti, sugli importanti strumenti della ricerca, sulla presenza di validi tecnici e sulla capacità di controllo del mercato nazionale e internazionale dei combustibili. In Italia, così povera di materie prime, si insiste su una produzione nazionale di carbone a costi di gran lunga superiori e subordinata alla congiuntura economica dei preparativi di guerra. Con un apparato industriale arretrato e quasi del tutto privo di adeguate strutture per la ricerca scientifica e per la formazione di veri tecnici, da destinare allo studio e alla gestione delle miniere di carbone. Tutte figure del regime e del Consiglio nazionale gli uomini ACaI, a iniziare da Guido Segre, cui già si muovevano forti critiche di affarismo, in particolare sulla gestione degli spacci aziendali dell’ARSA, e di abusi e favoritismi nei confronti delle imprese d’appalto. Costretto alle dimissioni dalle vergognose leggi razziali del ‘38, poco prima dell’inaugurazione della città, e sostituto dall’avvocato Giovanni Vaselli, ex vicegovernatore di Roma, cui non veniva riconosciuta competenza alcuna specifica, neppure nei suoi ambienti di origine (v. G. Are e M. Costa, Carbosarda, Franco Angeli, 1989, pag. 63). Senz’altro di dubbia provenienza, a quanto pare, anche i vertici dell’Azienda, e non solo molti degli operai al tempo così spericolatamente ingaggiati, e poi Gottardi e, alla SMCS, Vitale Piga, già podestà di Serbariu, camicia nera di incondizionata fedeltà al regime, ‘fascista della prim’ora‘ (v. Ignazio Delogu, Carbonia, Levi editore, 1988, pag. 188). Enzo Santarelli definisce l’ACaI, insieme all’AMMI (Azienda minerali metallici) ed all’ANIC (Azienda nazionale idrocarburi), ‘ente asservito agli interessi dei gruppi industriali privati‘, ben decisi a non imbarcarsi in ‘una impresa così rischiosa, come lo sfruttamento del carbone Sulcis e dell’Arsa‘, buono solo per i tempi di guerra. Ma pronti a servirsi vantaggiosamente della “preziosa risorsa nazionale”” quando il regime, attraverso le sovvenzioni statali alle industrie, avesse promosso con grande propaganda l’uso dei ‘carboni nazionali‘. Due milioni di lire annue per sostenere le miniere ACaI, ‘le quali potranno tutt’al più dare 4 dei 12 milioni di tonnellate attualmente indispensabili‘. Dice Grifone, ‘grandi mezzi finanziari, erogati interamente dallo Stato data la dubbia proficuità di tale iniziativa‘ (v. anche Are e Costa, cit., pag.25 e segg.) per la scadente qualità del combustibile, l’esposizione all’attacco nemico in caso di guerra, e la lontanza, in particolare del Sulcis, dai mercati di consumo nazionali.

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