Magistratura: a proposito delle dichiarazioni di Di Matteo e del correntismo

25 Settembre 2019
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Aldo Lobina

 «L’appartenenza a una cordata è l’unico mezzo per fare carriera e avere tutela quando si è attaccati e isolati, e questo è un criterio molto vicino alla mentalità e al metodo mafioso». Lo ha detto il pm antimafia Nino Di Matteo presentando in streaming la sua candidatura al Csm contro la «degenerazione del correntismo». Su questa esternazione ecco l’opinione di Aldo Lobina, attento osservatore delle questioni istituzionali.

Giudicare contundenti i passaggi di Di Matteo mi sembra esagerato. Il giudice ha espresso un suo giudizio sulla carriera dei magistrati, che sarebbe legata solo a cordate correntizie, trovando in questo, lui che di mafia se ne intende, stigmate appunto malavitose.
Come dargli torto se davvero i magistrati fanno carriera non per merito e competenza, ma solo per appartenenza di branco e logiche tribali?
Forse le asserzioni così decise servivano a sottolineare la deriva o i rischi di una deriva correntizia.
Personalmente non considero le correnti un male in sé, quando sono orientate ad aprire un utile confronto e riflessione sulle molteplici problematiche della giustizia. Infatti - per quello che può valere il mio giudizio – sono contro la neutralità e la apoliticità del diritto. E sono in buona compagnia.
Il giudice non è un rey papelero. Non deve esserlo.
E comunque nella nostra società c’è il rischio che tutte le categorie, anche le più nobili, abbiano perduto l’aura di innocenza, che è virtù primordiale, per non dar torto a Rousseau.
Bisogna  ricuperare un rapporto ragionevole tra popolo e giudici, che non debbono essere freddi burocrati, ma servitori dei codici alla luce della Costituzione e delle categorie giuridiche che vanno continuamente ripensate  con rispetto per nuovi diritti.
Il messaggio del giudice Di Matteo va preso per il problema che pone: la necessità di riportare la carriera dei giudici nei binari della Legge. Perché comunque non si può negare che malapolitica, malagiustizia, malasanità esistono. Né ci si può stracciare le vesti se un giudice mette a fuoco un problema.
Le sue parole infatti non sono quelle di chi è fautore di una rottura tra èlite e popolo, tese cioè a delegittimare le istituzioni, ma al contrario sottolineano la necessità che qualunque titolare di un potere pubblico debba essere soggetto alla Legge. E sarebbe una ipocrisia perbenista stracciarsi le vesti perché la critica viene dall’interno della magistratura. E’ vero, i panni sporchi si lavano in casa. Ma quei poteri sono anche nostri, Sono solo delegati. E soprattutto più che poteri sono servizi  alla Comunità.

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