RWM. La produzione di bombe è vietata: è saggio insistere?

20 Settembre 2019
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Andrea Pubusa

Gli operai di Domusnovas chiedono giustamente rassicurazioni sul futuro dopo la sospensione delle licenze alle esportazioni di armi. Ma è nel loro interesse insistere in una produzione vietata dalla legge italiana, da trattati e dalle risoluzioni internazionali?

 

la rwm di domusnovas (archivio l unione sarda)
La Rwm di Domusnovas

Dire come stanno le cose è così difficile? Possibile che non ci si renda conto che chiudere gli occhi sulla realtà non fa altro che danneggiare i lavoratori? Sembra che non l’abbiano capito gli assessori regionali all’Industria e al Lavoro, Anita Pili ed Alessandra Zedda, se,  a conclusione del tavolo tra Regione, Confindustria, azienda e sindacati sul futuro dell’azienda, hanno scartato la “riconversione”, auspicata dai comitati pacifisti e ipotizzano di far diventare la fabbrica di Domusnovas strategica per l’industria bellica nazionale, indipendentemente dalle esportazioni per il Medio Oriente. Poi favoleggiano sinistramente di proseguire la produzione di bombe per lo stoccaggio in Italia o in Europa. E così, al termine dell’incontro in Regione, a Villa Devoto, hanno diffuso una nota, dove dicono di aver “concordato col Ministero degli Esteri un incontro per il 4 ottobre alla Farnesina, dove chiederemo anche il coinvolgimento della Presidenza del Consiglio per avviare un tavolo tecnico che consenta di fornire adeguate garanzie ai lavoratori sardi“.
Ma sanno di cosa parlano? Hanno contezza del quadro giuridico e politico in cui si muovono?
Ne abbiamo già parlato, ma coi testoni repetita juvant dicevano i saggi d’altri tempo. Riassumiamo. Il ridimensionamento della RWM era largamente prevedibile, poiché la destinazione della produzione (bombe, non caramelle!) è da tempo vietata dalla normazione interna e internazionale. Anzitutto dalla nostra Costituzione (art. 11), della legge italiana 185/1990, che proibisce esportazione e transito di armi “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”, e dal Trattato sul commercio delle armi dell’ONU del 2 aprile 2013 (Arms Trade Treaty – ATT), ratificato dall’Italia come primo Paese UE. Ora, è ben noto, che i dettami della Costituzione imprimono all’ordinamento, al governo nazionale e regionale un indirizzo inderogabile. L’art. 11  pone due enunciati fondamentali: a) il ripudio della guerra come strumento di risoluzione di controversie internazionali o di oppressione di altri popoli; b) la costruzione di un ordinamento internazionale di “pace e giustizia” fra le nazioni, anche a costo di veder limitata di propria sovranità (”a parità di condizioni con gli altri stati”). Sviluppando questo indirizzo, nel luglio 1990, dopo una straordinaria mobilitazione della società civile “Contro i mercanti di morte”, le Camere hanno approvato la legge n. 185/1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento“. La legge, una tra le più restrittive a livello mondiale, introduce precisi limiti: vietato vendere armi a Paesi in stato di conflitto armato, a Paesi la cui politica contrasti col ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione, a Paesi sotto embargo delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, a Paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani, a Paesi che, ricevendo aiuti dall’Italia, destinino al proprio bilancio militare risorse superiori alle esigenze di difesa.
C’è di più, care assessore regionali, c’è l’Arms Trade Treaty – ATT, il Trattato sul commercio delle armi, il primo strumento giuridico di portata globale che stabilisce dei criteri per l’autorizzazione (o proibizione) di trasferimenti di armi convenzionali. Adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU il 2 aprile 2013, esso è entrato in vigore il 24 dicembre 2014, tre mesi dopo il conseguimento delle 50 ratifiche necessarie e in un processo eccezionalmente rapido. Primo nel suo genere, l’ATT persegue due obiettivi principali: disciplinare o migliorare la regolazione del commercio di armi convenzionali e prevenire / eliminare il traffico illecito delle stesse, al fine di contribuire alla sicurezza internazionale, ridurre sofferenze umane e promuovere l’azione responsabile degli Stati in questo settore. Senza dilungarci sul contenuto del Trattato si rinvia alla lettura delle disposizioni contenute negli articoli 6 e 7, dalle quali si desume il regime delle proibizioni in particolare all’uso per la commissione di atti di genocidio, crimini contro l’umanità o violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949.
L’Italia è stata il primo paese dell’Unione Europea a ratificare l’ATT (settembre 2013), dunque, anche voi assessore della “Repubblica di Sardegna” siete vincolate!
Ma non basta! Il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione il 4 ottobre 2018 sulla situazione nello Yemen, nella quale si denuncia una grave crisi umanitaria tale da annoverare l’offensiva della coalizione a guida saudita – sulla base di una relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’agosto 2018 fra i crimini di guerra. In particolare – si legge nella Risoluzione - “nel giugno 2018, la coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati arabi uniti (EAU) ha avviato un’offensiva volta a conquistare la città di Hodeida”, che “secondo l’organizzazione Save the Children […] ha causato centinaia di vittime tra i civili”. […] “Il 9 agosto 2018 un attacco aereo sferrato dalla coalizione guidata dai sauditi ha colpito uno scuolabus in un mercato nella provincia settentrionale di Saada, uccidendo varie decine di persone tra cui almeno 40 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore ai 10 anni”. “Due settimane dopo, il 24 agosto, la coalizione guidata dai sauditi ha lanciato un nuovo attacco in cui hanno perso la vita 27 civili, per la maggior parte bambini, che stavano fuggendo dalle violenze nella città assediata di Hodeida, nel sud del paese“; inoltre, “la campagna guidata dai sauditi e gli intensi bombardamenti aerei, compresi gli attacchi indiscriminati in zone densamente popolate, aggravano l’impatto umanitario della guerra; che le leggi di guerra vietano attacchi deliberati e indiscriminati contro i civili e obiettivi civili quali scuole e ospedali“.[…]. “Alla luce delle conclusioni del gruppo di eminenti esperti indipendenti internazionali e regionali, detti attacchi possono costituire crimini di guerra e che le persone che li commettono possono essere per tale motivo perseguite”. […] “Dal marzo 2015 più di 2.500 bambini sono stati uccisi, oltre 3.500 sono stati mutilati o feriti e un numero crescente di minori è stato reclutato dalle forze armate sul campo; che le donne e i bambini risentono in modo particolare delle ostilità in corso; che, secondo l’UNICEF, quasi due milioni di bambini non sono scolarizzati, il che compromette il futuro di un’intera generazione di bambini yemeniti come conseguenza dell’accesso limitato o nullo all’istruzione, rendendo tali bambini vulnerabili al reclutamento militare e alla violenza sessuale e di genere“. Per queste ragioni, prosegue la Risoluzione, “nell’agosto 2018 una relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha concluso che vi sono ragionevoli motivi per ritenere che tutte le parti implicate nel conflitto nello Yemen abbiano commesso crimini di guerra”, giacché vengono utilizzate “armi pesanti in zone edificate e densamente abitate, attaccando anche ospedali e altre strutture non militari“.
Crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità”, roba da tribunali internazionali! Parola non del Comitato per la riconversione, no, no, parola di organismi internazionali. Bastano queste citazioni per ipotizzare nell’esportazione di ordigni alla Arabia saudita, compresi quelli fabbricati a Domusnovas, un concorso nella consumazione di questi crimini.
Cosa si vuole di più per comprendere che l’idea di continuare a produrre strumenti di morte non porta da nessuna parte? Che altro c’è da sapere per comprendere che i 350 posti di lavoro della fabbrica di Domusnovas verranno irrimediabilmente perduti se non si imbocca rapidamente un’altra strada? Se non si avanza un serio progetto di riconversione? Insistere nella produzione di bombe, inseguendo altre vie come quella fantasiosa di produrre per stoccare significa condannare lavoratori ad essere protagonisti di un film drammatico molte volte visto.Il copione? La triste via degli ammortizzatori e la perdita del lavoro.

1 commento

  • 1 Tonino Dessì
    21 Settembre 2019 - 15:02

    Ecco, Andrea, come d’accordo, ti rimando l’articolo.
    Ciao. Tonino.

    …….,,,,
    Il nuovo Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che condanna, equiparandoli, nazifascismo e comunismo. I rischi attuali per la democrazia del revisionismo storico.

    Di Tonino Dessì.

    La recente risoluzione del Parlamento europeo (votata anche dagli europarlamentari del PD), che condanna, equiparandoli, nazifascismo e comunismo, va valutata alla luce del contesto in cui è stata approvata.
    Benchè i sovranismi abbiano vinto le elezioni europee in alcuni Paesi dell’Unione, complessivamente la velleità di spostare a proprio favore l’assetto rappresentativo e di governo dell’intera UE è fallito.
    Ciò non ha evitato tuttavia che la maggioranza politica negli organi europei, in particolare nel Parlamento di Strasburgo, si sia ulteriormente spostata in senso moderato-conservatore.
    La cultura politica delle componenti moderate e conservatrici ha antiche radici ideologiche non solo anticomuniste, ma anche antisocialiste e resta, più o meno consapevolmente, tuttora afflitta dalla memoria dei traumi che i movimenti degli anni ‘60 e ‘70 del secolo appena trascorso provocarono a ovest come a est, mettendo in discussione un ordine internazionale fissato dalla “Guerra fredda”.
    Quell’ordine che sul piano interno di gran parte dei Paesi aderenti ai due blocchi, sia pure in misura diversa, aveva congelato per più di vent’anni cultura, costumi, valori, rapporti e gerarchie sociali e politici.
    Quegli anni non furono solo il ‘68-‘69 statunitense e più ancora europeo, ma anche Varsavia e Praga, per non parlare dei grandi movimenti antimperialisti in Africa e in Asia.
    Piaccia o meno, è con quella storia, ancora recente, che tuttora si vogliono chiudere i conti, evidentemente non del tutto chiusi e anzi tali da costituire dei “fantasmi” che potrebbero risorgere, in controtendenza proprio all’ondata reazionaria che caratterizza il tempo presente, sotto le forme di nuovi movimenti radicalmente democratici.
    Forse a est, più che a ovest, di questo si ha ancora più paura.
    Non sarà casuale che la condanna del comunismo veda ben piazzati e ben soddisfatti i partiti sovranisti, allergici alla democrazia, che in fondo considerano anch’essa una forma di “comunismo”, ma anche per questo assai simpatizzanti del sistema autoritario e illiberale che caratterizza la Russia neocapitalista di Putin.
    Ciò detto, mi colpiscono due riflessi di questa vicenda che leggo sul web e sui social.
    Uno attiene al punto di vista di chi osserva che non si può biasimare quanti, avendo vissuto sulla propria pelle l’oppressione realizzata in URSS ed esportata nei Paesi satelliti, non possono distinguere fra le realtà di due sistemi ugualmente oppressivi.
    C’è del vero, intendiamoci.
    Se penso all’URSS non solo staliniana, ma, dopo la breve parentesi kruscioviana, a quella brezneviana e postbrezneviana, a quello che abbiamo appreso della DDR (non sarà stato molto diverso in altri Paesi del blocco) o ancora, per guardarci fuori, alla Corea del Nord, anche a me danno l’impressione di realtà maniacalmente oppressive e concentrazionarie, direi quasi dei manicomi gestiti da paranoici e abitati da persone in stato di detenzione coatta.
    Però proprio le correnti politiche e di pensiero democratico non possono nemmeno giustificare e incoraggiare nel 2019 il fatto che quei Paesi, nell’est-Europa, siano passati da un regime catastroficamente imploso a sistemi che mettono in discussione proprio la democrazia e che, piaccia o meno, tendono a restaurare, nell’ambito della loro conversione economico-sociale neocapitalistica, valori e rapporti reazionari al loro stesso interno.
    Sta qui l’inattualità di una presa di posizione retrograda come quella che leggiamo nella risoluzione in questione.
    L’altro modo di valutare quanto è accaduto è forse fondato nei timori, ma paradossalmente tale da disarmare anch’esso, se fosse condiviso, il fronte democratico nel suo nucleo essenziale di opposizione permanente alle pulsioni che nella prima metà del‘900 diedero origine al nazifascismo e che sono tuttora insite nel motore profondo del capitalismo occidentale.
    Fascismo e nazismo furono escogitati come estrema reazione repressiva delle classi dominanti contro il movimento operaio e per stroncare ogni velleità di sovvertire i rapporti di dominio sociale.
    E a tal fine quelle ideologie e i sistemi che ne scaturirono teorizzarono e praticarono lo stato di guerra interna nei loro Paesi e la guerra aggressiva, di sterminio anche genocida, verso l’esterno.
    Quel seme oscuro non è mai scomparso, in Occidente e a livello planetario, nel secondo dopoguerra. Lo vediamo ben oggi.
    Ora, sostenere che in quella risoluzione c’è il rischio di una messa al bando della cultura e dell’ideale comunista al pari di quello nazifascista è plausibile.
    Accusare l’antifascismo contemporaneo di esser causa del suo male per il fatto che continui a invocare (da noi in Italia, ma anche in Germania, è un principio costituzionale) il bando delle idee e delle organizzazioni neofasciste e neonaziste, è un paradosso molto pericoloso, oltre che basato su presupposti infondati.
    Non dovrebbero essere necessari molti sforzi per argomentare che i contenuti del Mein Kampf non sono equiparabili, anche sul piano delle convenzioni politiche internazionali, a quelli degli scritti di Marx, dello stesso Lenin, di Gramsci, per citare solo alcuni sostenitori di idee di giustizia sociale, di uguaglianza, di liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione che piaccia o meno, certo il primo e a breve distanza il terzo più del secondo, innervano ancora anche criticamente e problematicamente le riflessioni e più ancora i movimenti democratici e radicali mondiali.
    Lo stalinismo è stato una terribile esperienza e una tragica, non breve parentesi.
    Ma a differenza dei neofascisti e dei neonazisti, non esistono quasi più comunisti che non ne abbiano preso coscienza da decenni e che non abbiano considerato quella evoluzione della rivoluzione sovietica come un’aberrazione e fondamentalmente come un tradimento.
    Anche qui vanno perciò rigettati ogni “tregua d’armi”, ogni armistizio tattico e ideologico: non siamo ai tempi del Patto Ribbentrop-Molotov contro un comune avversario.
    Infine una considerazione.
    La Storia non dovrebbe esser riscritta dalla politica contingente: fra l’altro ormai la pluralità degli strumenti di informazione non lo consente.
    Un capovolgimento dei paradigmi a loro tempo consolidati di interpretazione “storica” della stessa Storia si può affermare e legittimare solo in esito a una epocale rivoluzione che intervenga in una società e nella sua cultura.
    Un Parlamento che pretenda di farlo con un documento così incapace di suscitare alcun progresso nelle coscienze si espone al ridicolo e alla banalizzazione del proprio ruolo e della propria condizione.
    Cosa assai carica di conseguenze infauste, proprio in questa contemporaneità, per un Parlamento di dimensione continentale.

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