Andrea Pubusa
Palabanda, qual’era il contesto? Cosa accadeva in Italia e in Europa quando nel 1812 Salvatore Cadeddu, il fratello Giovanni, i figli Gaetano e Luigi, Giuseppe Zedda, docente nella facoltà di Legge, gli avvocati Francesco Garau e Antonio Massa, il sacerdote Antonio Muroni ed altri insigni professionisti di Cagliari si riunivano nella casa dinnanzi all’anfiteatro romano, vicino a due cipressi? E cosa meditavano insieme ad alcuni capi-popolo, combattenti di tutte le battaglie dellì’ultimo ventennio, come il conciatore di pelli Raimondo Sorgia, il sarto Giovanni Putzolu, il pescatore Ignazio Fanni e il panettiere Giacomo Floris? Insomma cosa progettavano questi rivoluzionari fra gli alberi e accanto all’orto di Salvatore?
Non è secondario dare uno sguardo a quanto si muoveva intorno, perché quegli avvenimenti ci aiutano a intuire cosa poteva balenare nella testa di quei democratici sardi che vivevano nella grigia e triste isola governata da Vittorio Emanuele I. Quali suggestioni subivano e quali obiettivi potevano realisticamente proporsi quegli uomini decisi a mettere in gioco la loro vita per cambiare la Sardegna Insomma, vedere il contesto aiuta a capire se gli irriducibili di Palabanda erano dei velleitari votati al martirio o, se, invece, la loro azione, pur difficile e rischiosa, aveva qualche possibilità di successo.
Correva il 1812 e Napoleone si apprestava a regolare i conti con lo zar Alessandro I, Battuta l’Austria, la Russia era l’unica potenza sul Continente a rappresentare una minaccia per la Francia. E siccome il grande corso aveva fama d’essere invincibile, nelle riunioni in quel di Palabanda è sicuro che Salvatore Cadeddu e gli altri vedessero nell’invasione della Russia da parte dell’Armée un fatto incoraggiante. Un successo della armi francesi avrebbe indebolito ulteriormente le corone, che, come quella dei Savoia, residualmente rimanevano sul campo in parti periferiche del loro Regno. E si reggevano più perché Bonaparte aveva da pensare a cose più grandi che per una forza propria. Anche i Borbone delle due Sicilie ormai erano relegati nell’Isola, senza prevedibili possibilità di rimetter piede nella terraferma.
D’altronde anche in questi “resti” di Stato non mancavano i fermenti. In Sicilia e nella Spagna non sottomessa dalle armate francesi l’onda lunga della grande Rivoluzione faceva sentire i suoi effetti. E così, mentre nel giardino di Palabanda fiorivano i mandorli, i peschi e gli aranci, Napoleone metteva piede in Russia e a Cadice veniva approvata la Costituzione spagnola del 1812. Nota anche come la Costituzione di Cadice o La Pepa, questa carta costituzionale fu promulgata il 19 marzo del 1812 dalle Cortes, il parlamento iberico. Era una risposta all’occupazione napoleonica e al regime di Giuseppe Bonaparte. Introduceva un regime nuovo, la monarchia costituzionale con la limitazione dei poteri del re, la separazione dei poteri, il suffragio universale maschile, la libertà d’impresa.
Fra l’altro quella di Cadice fu una un costituzione non concessa, ma votata dalle Cortes. Infatti, di fronte all’avanzata francese il 24 settembre 1810 furono convocate a Cadice (una delle poche zone ancora non conquistate dai francesi) le cortes, secondo la vecchia prassi parlamentare iberica. Dopo due anni di intenso lavoro, il 18 marzo 1812 approvarono una costituzione, che, per la prima volta, dunque, era votata e non soltanto ottriata, cioé concessa dal sovrano.
Ma quale l’impianto e le caratteristiche principali di questa Carta? Alla monarchia ereditaria, veniva affidato il potere esecutivo, che nominava anche i magistrati. Il re esercitava il suo comando attraverso i cosiddetti segretari — ovvero dei ministri — scelti da lui, ma nel numero fissato dalle cortes. Le leggi venivano votate dalle cortes, con potere di veto del monarca. La sovranità, come nella costituzione francese del 1791, risiedeva non più nel re, ma nella nazione, intesa a quel tempo come comunità di individui che condividono un destino politico comune per tradizione di vita associata, formatasi per una comunanza di fattori, tra cui lingua, territorio, religione, razza, consuetudini sociali e giuridiche. Non era ancora la sovranità popolare, ma neppure quella del re, insomma era quella della borghesia. Ciò era ben simboleggiato dal modello monocamerale, nel quale l’élite liberale ottocentesca vide la possibilità di garantire ogni forma di rappresentanza. Non a caso verrà presa a modello da ampia parte dei sovrani europei, e in Italia subito adottata con la costituzione siciliana del 1812, e poi da Carlo Alberto in qualità di principe reggente di Savoia-Carignano nel 1821.
Come si è detto, quache mese dopo la Costituzione di Cadice viene approvata la Costituzione del Regno di Sicilia. Nell’isola l’atmosfera dopo l’arrivo dei Borbone, divenne pian piano incandescente, non volendo il popolo siciliano sottostare al loro dominio né pagare ulteriori gabelle all’esclusivo fine di mantenerli. Così, nonostante le richieste di Ferdinando, il Parlamento siciliano, dopo lunghe discussioni, accordò al governo un donativo appena sufficiente ai bisogni immediati. L’imposizione di una gravosa tassa sulle entrate fu la scintilla che fece esplodere una diffusa rivolta. E siccome la Sicilia era allora una sorta di protettorato inglese, che con la flotta scongiurava l’invasione francese dell’isola, arbitro della situazione divenne l’ammiraglio Lord William Bentinck, emissario del governo inglese nell’isola. Egli invitò Ferdinando ad abbandonare il governo, nominando il figlio Francesco suo reggente nel gennaio 1812. Al giovane venne affiancato un governo esclusivamente siciliano presieduto da un consigliere di Stato anziano (una sorta di primo ministro). L’attribuzione del comando militare, con il titolo di capitan generale de’ reali eserciti di S. Marina siciliana, andò allo stesso Bentinck. Obiettivo fondamentale fu la ratifica di una nuova costituzione. Prevalse l’idea che il testo sarebbe stato elaborato dai Bracci, le antiche istituzioni parlamentari di derivazione normanna. Così anche la Sicilia, mentre l’avv. Salvatore Cadeddu nella sua casa di Paladìbanda offriva ai suoi amici le primizie del suo giardino, pesche e albicocche profumate e gustose, il 12 luglio ebbe la costituzione sul modello della costituzione di Cadice, adattato alle esigenze locali. Le dodici basi o principi generali, dopo la loro approvazione da parte del parlamento, furono sottoposte al re, che, pur molto lontano dall’entusiasmarsene, fu costretto ad accettarle. La costituzione venne approvata dal parlamento (fu perciò votata e non ottriata, proprio come quella di Cadice) e promulgata dal reggente Francesco. Uno dei principali aspetti innovativi di tale costituzione fu l’abolizione dei poteri civili sulla popolazione legati alla feudalità.
Che dire dunque del quadro internazionale nel quale i rivoluzionari cagliaritani si muovevano? Non era male, anzi era incoraggiante. Alle viste c’era una completa affermazione dei Napoleone su scala europea, e, nei Regni simili a quello sardo, l’iniziativa popolare e liberale aveva conquistato la Costituzione.
Alla favorevole situazione internazionale si accompagnava – com’è noto – un’esplosiva situazione interna. Era il 1812 e lo scenario in Sardegna era drammatico, le piogge eccessive degli anni precedenti, impedirono la semina e ne derivò, specie quell’anno, una grave carestia e la conseguente peste. Cagliari, che a quei tempi contava poco più di 25000 abitanti, vide affluire dal contado una folla di oltre mille persone prive dei più elementari mezzi di sostentamento. Molti si cibavano di erbe, molti morivano di stenti per strada. Le descrizioni di Cagliari in quell’anno ricordano molto da vicino la Milano manzoniana del seicento. Tant’è che su famini de s’annu doxi è divenuto proverbiale ed è entrato così profondamente nell’immaginario collettivo, da essere tramandato di generazione in generazione, fino ai giorni nostri.
Sulla spinta della situazione internazionale e sella gravissima carestia interna, in “s’annu de su famini”, nel podere dell’ avvocato Cadeddu cominciarono a prender corpo progetti di ribellione contro il tracotante ed esoso governo sabaudo.
Con quali obiettivi? E’ verosimile che Salvatore Cadeddu e i suoi compagni, nelle loro riunioni, progettassero di dare alla Sardegna una Costituzione. Questo doveva, essere il loro obiettivo: ottenere una Carta costituzionale come quella di Cadice o di Sicilia, trasformando quella dei Savoia in monarchia costituzionale. Poco realistico, invece, pensare alla repubblica. Infatti, non era possibile sperare in un aiuto dei francesi, le cui forze erano interamente impegnate nella campagna di Russia. D’altronde il porto di Cagliari, come quello di Palermo, era presidiato dalla flotta inglese in chiave antifrancese. La situazione era simile a quella siciliana e lasciava presagire un appoggio degli inglesi ad una rivolta per richiedere una Costituzione come quella sicula. Del resto, se Lord William Bentinck, longa manus del governo inglese, aveva imposto la Costituzione in Sicilia, non c’è ragione per un diverso orientamento in Sardegna.
Occorreva un motivo per intervenire: e una rivolta poteva essere la scintilla capace di far scoppiare l’incendio.
1 commento
1 Aladin
14 Agosto 2019 - 10:48
Anche su Aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=99441
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