Andrea Pubusa
Finora abbiamo esposto, in estrema sintesi, i fatti.
Si parla, tradizionalmente ed enfaticamente di “Sarda Rivoluzione” per indicare il periodo che va dal 1793 al 1796, e cioè dalla mobilitazione contro il tentativo di sbarco dei francesi a Cagliari allo “scommiato” (cacciata) dei piemontesi del 1994 e alla sfortunata fine dei moti capeggiati da Giovanni Maria Angioy. Ma fu Rivoluzione? E lo fu per l’intero periodo?
Secondo un’autorevole corrente storiografica (Mattone-Sanna), “la parabola complessiva della rivoluzione sarda può essere schematicamente suddivisa in quattro fasi principali. La prima, una fase di gestazione, va dall’elaborazione delle «cinque domande» (primavera-estate del 1793) alla delusione per le negative risposte del sovrano. La seconda, apertasi con la sollevazione antipiemontese del 28 aprile 1794, fu caratterizzata dal serrato conflitto tra «patrioti» e «realisti» e culminò nella vittoria dei primi durante i tumulti popolari di Cagliari del luglio 1795. La terza, segnata dall’emergere delle rivendicazioni antifeudali, fu caratterizzata da un’obbligata coesione del «partito patriottico», costretto a misurarsi in un difficile confronto col governo di Torino e a far fronte alla secessione baronale animata dalla Governazione del Capo di Sassari. La quarta, contraddistinta dall’acuirsi dei contrasti all’interno del «partito patriottico» e dall’esplodere delle agitazioni contro i baroni nei villaggi del Capo settentrionale dell’isola, si aprì all’indomani della riconquista di Sassari al governo della capitale e si concluse con la sconfitta del movimento antifeudale.
Stando a questa partizione ed esaminando la prima e la seconda fase, in realtà, cosa abbia di rivoluzionario la difesa dei Savoia dai francesi è difficile comprendere. C’è piuttosto un certo spirito patriottico giocato come fattore di chiusura verso le suggestioni esterne. Nei ceti dirigenti isolani l’eco dei sommovimenti d’Oltremare induce ad esaltare l’indipendenza dell’Isola come valore unificante. Ad un comando esterno, portatore di rivolgimenti sociali di segno opposto agli assetti tradizionali assicurati dai Savoia, pareva loro preferibile e più rassicurante un’evoluzione interna, fondata sulle forze sociali sarde (Umberto Cardia).
Dunque – come ha messo in luce la più affilata storiografia - “negli anni ottanta-novanta anche negli Stati sabaudi nasceva una nuova identità di tipo patriottico” (Mattone-Sanna). Il conflitto tra centro e periferia entra in una fase nuova, in cui la difesa dei particolarismi regionali si intreccia con molteplici istanze di più diretta partecipazione alla vita pubblica. Questo avviene in Savoia come in Sardegna. Ci sono comuni motivi di malumore e recriminazione verso il «dispotismo» del governo torinese, tuttavia la situazione savoiarda era assai diversa da quella sarda. In Savoia la monarchia sabauda aveva da tempo smantellato le antiche autonomie locali e e si erano largamente diffusi i principi della Rivoluzione; il movimento patriottico appariva in piena sintonia con i rivolgimenti parigini. Non a caso i savoiardi, nel settembre del 1792, riservarono favorevoli accoglienze alle truppe della Repubblica francese.
In Sardegna, invece, la coscienza di sé come nazione fece maturare un movimento patriottico in chiave antifrancese e restauratrice dei vecchi istituti del Regno. Di qui - secondo taluni storici sardi - la similitudine con i sentimenti dei coloni americani dopo la vittoria sui francesi nella Guerra dei Sette Anni (1756-63). Acquisita consapevolezza “della propria forza e della propria individualità di popolo, erano diventati insofferenti alla tracotanza degli ufficiali della madrepatria britannica, così nella Sardegna del 1793 la mobilitazione antifrancese fu il detonatore delle contraddizioni tra la «sarda nazione» e la Dominante sabauda” (Mattone-Sanna). Ma si tratta di somiglianza esteriore e parziale. I coloni americani traggono alimento da quei fatti per rivendicare la propria indipendenza, i gruppi dirigenti sardi vedono pur sempre nei Savoia i garanti di una evoluzione lontana dai rivolgimenti francesi.
Il nuovo gruppo dirigente che assurge al potere nel 1794 risulta così il frutto di quella sorta di crisi della coscienza dei sardi maturata nell’alveo dell’Antico Regime più che nell’adesione alle suggestioni della Grande Rivoluzione. Il che mette in dubbio la convinzione secondo cui il periodo 1795-96 “si apre all’insegna di un coerente progetto riformatore e si chiude, nella crisi dell’Antico Regime, con una rivoluzione patriottica – e successivamente anche antifeudale – che mobilita l’intera società isolana”. Gli avvenimenti immediatamente successivi mostrano come nel movimento patriottico il richiamo alla nazione sarda sia l’elemento catalizzatore di una unità egemonizzata dai gruppi moderati in cui più che anime diverse si annidano varianti, senza prospettive radicalmente opposte, legate piuttosto ai propri interessi di ceto. Ciò non inficia il fondamento della convinzione secondo cui “tra il 1793 e il 1796 la «nazione» sarda, fino ad allora semplicemente «sentita», divenne «voluta»” (Chabod). Lo confermano gli obiettivi. “Che cos’è in fondo la piattaforma delle «cinque domande» (il documento con le cinque fondamentali richieste del Regno solennemente approvate dagli ordini stamentari e trasmesse al sovrano) se non la manifestazione di questa volontà?” “Non a caso questa piattaforma costituì l’asse portante del movimento patriottico per l’intero triennio rivoluzionario sardo. Essa esprimeva l’esigenza di un profondo riequilibrio, anche sul piano istituzionale, di quei rapporti tra la Sardegna e il Piemonte che il dispiegarsi del «dispotismo ministeriale» aveva nettamente sbilanciato a favore della Dominante: richiamandosi all’antico contrattualismo catalano-aragonese, alla tradizione giusnaturalistica sei-settecentesca e alle clausole dell’atto di cessione del 1720, gli Stamenti, in rappresentanza di tutto il Regno, rivendicavano la riconvocazione delle Corti generali, il rispetto dei privilegi e delle Leggi fondamentali, l’attribuzione esclusiva ai «nazionali» sardi degli impieghi e delle più importanti cariche civili ed ecclesiastiche, una nuova articolazione amministrativa e giudiziaria del governo dell’isola fondata sull’istituzione di un Consiglio di Stato a Cagliari e di un apposito ministero per la Sardegna a Torino. Con l’invio della Deputazione stamentaria nella capitale sabauda (una sorta di ambasceria eletta dagli ordini del Regno) si aggiungeva, inoltre, l’implicita affermazione del diritto della «Sarda Nazione» ad accedere direttamente al sovrano, senza l’intermediazione del viceré e del ministero torinese” (Mattone-Sanna).
E’ dunque innegabile che tutte queste ragioni d’ispirazione patriottica sono sovrastate da una considerazione di natura sociale. La Grande Rivoluzione mette in discussione alla radice i rapporti fra la classi ed è intuibile che i promotori della difesa di Cagliari contro i francesi temano non tanto i francesi in sé quanto la loro rivoluzione. Quindi, non sembra imprudente affermare che la difesa della Sardegna contro i francesi ha un preciso segno di classe ed ha carattere quantomeno moderato per non dire reazionario. Si forma un fronte che va dai ceti reazionari (nobili ed ecclesiastici) ai ceti corporativi delle professioni. Perciò sembra più plausibile l’immagine di una Sardegna sostanzialmente chiusa alle sollecitazioni della cultura dei lumi e dell’assolutismo riformatore italiano ed europeo rispetto a chi intravede i segni di un’indubbia penetrazione delle nuove idee francesi. Non sembra dubbio che la mobilitazione antifrancese mostra come, nell’elaborazione politica, il partito patriottico nel 1792-94, rimase “fedele all’idea di una monarchia temperata dall’antica «costituzione» del Regno e da una «nazione» rappresentata da ordini e corpi privilegiati. La «sarda rivoluzione» non è dunque una sorta di anticipazione del triennio repubblicano italiano ma piuttosto l’ultima significativa rivoluzione patriottica del Settecento, ancora indissolubilmente legata alle dinamiche sociali, alla cultura e alla prassi istituzionale di Antico Regime” (Mattone-Sanna).
Insomma, fin dalle prime, determinanti tappe della mobilitazione patriottica in chiave antifrancese, prende risalto l’autoconvocazione dei corpi stamentari dell’antico Parlamento sardo che guida anche la sollevazione antipiemontese. Ed anche l’insurrezione cagliaritana del 28 aprile del 1794, che culminò nel «vespro contro tutti i piemontesi» e nell’instaurazione di un regime di «autogoverno», fu guidato dalla Reale Udienza e dagli Stamenti, prima fase significativa di aperta radicalizzazione del conflitto. Ma ai nostri fini è sufficiente osservare che la mobilitazione, “promossa dalle élites della capitale e dal movimento stamentario, coinvolgeva la nobiltà tradizionale, i magistrati e i funzionari governativi sardi, il ceto forense, i mercanti, gli artigiani e ampi strati popolari reclutati attraverso le milizie «nazionali» (Mattone-Sanna). Insomma, il «partito patriottico» che guiderà dal 1794 al 1796 la «sarda rivoluzione» è in larga misura formato e certamente diretto da ceti privilegiati e corporativi. Comunque loro è l’egemonia sui ceti popolari che irrompono sulla scena, ma in posizione subalterna.
Questa considerazione trova conforto negli accadimenti immediatamente successivi e nel voltafaccia di non pochi “democratici” quando i moti angioyani assumono un carattere di rottura. La scissione del partito patriottico e la torsione verso la Corona del gruppo che fa capo all’avv. Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor Sirigu è emblematica. Il che fa sorgere dei dubbi sul fatto che questa élite debba configurarsi come «una sorta di grande fronte riformatore capace di interpretare, insieme ai grandi temi della riforma dello Stato, anche le istanze degli strati più bassi della popolazione cittadina» (Carta). Insomma, non pare che al di là delle apparenze si stagli nettamente il profilo di “un «Terzo stato» cagliaritano che manifesta la propria volontà politica attraverso alcuni circoli o club che per qualche tempo agiscono di concerto, soffiando sul fuoco del malcontento per l’accoglimento indecorosamente indifferente che la corte e il governo di Torino fanno ai deputati degli Stamenti latori delle «cinque domande»”. Se è vero che il 28 aprile 1794, il detonatore dell’«emozione popolare» per lo «scommiato» dall’isola di tutti i piemontesi, vicerè compreso, è stato il tentativo di arresto di Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor, è anche vero che gli sviluppi della vicenda mostrano che questo movimento limitava la “riforma” alla privativa in capo ai sardi delle cariche pubbliche, senza investire gli strati inferiori. Al di là di ogni enfasi, i promotori del movimento, che mette capo allo scommiato, più che a una rivoluzione sembrano mirare alla conquista di prebende in favore dei ceti cittadini sardi altolocati, quelli che insomma possono ambire alla cariche più importanti, ricoperte generalmente da piemontesi. Possiamo in questa aspirazione cogliere anche uno spirito “autonomista” (Francioni, Carta), ma senza enfatizzarlo. Sembra, in altre parole, eccessivo parlare addirittura di una pretesa di vera e propria autodeterminazione della società sarda (Francioni). L’evoluzione successiva delle posizioni di Vincenzo Cabras e compagni pare mostrare una prevalenza degli aspetti corporativi su quelli generali. Si salda un fronte fra ceti di antico privilegio e una intellettualità professionale che rivendica la sua parte. Quali siano le ricadute favorevoli sui ceti popolari è difficile vedere. D’altronde, da tempo erano in campo sia a Cagliari che a Sassari sia nel contado varie rivendicazione degli artigiani, sopratutto contro i proprietari di case e il caro affitti, nonché contro i negozianti per l’aumento dei prezzi. In questo la sans-coulotterie sarda non aveva una condizione e aspirazioni diverse da quella parigina, ma nelle rivendicazioni ebbero un’indiscussa egemonia i rappresentanti della borghesia professionale (Francioni). Nelle cinque domande c’è la salvaguardai degli antichi privilegi e la richiesta dell’esclusiva delle cariche ai ceti professionali sardi; neanche un cenno alle richieste dei sanculotti locali.
Non deve sfuggire certo l’importanza della mobilitazione dei gremi artigiani quale “palestra di educazione politica” (Francioni) e l’ombra lunga ch’essa getta sui fatti successivi fino al 1812, né può essere svalutata la costituzione e messa in campo di una armata di miliziani sardi, una sorta di esercito popolare, con a capo Vincenzo Sulis e, ovviamente ai livelli intermedi di altri quadri, comandanti delle schiere di paese o di zona. E’ questa una forza che rimane in campo. Ma è una milizia rivoluzionaria? O è al servizio di quei ceti che alla fine puntano ad un compromesso “corporativo” fra loro e con la monarchia in veste di garante? L’evoluzione della vicenda, con Vincenzo Sulis realista fino all’ottusità, e l’avv. Cabras e i suoi con un orizzonte che non va oltre il loro status personale e di ceto, mostra che questa forza militare fu giocata in chiave controrivoluzionaria, tant’è che è a capo di queste schiere che il Pintor, genero dell’Avv. Cabras, muove da Cagliari per affrontare e far fuori Giomaria Angioy alla fine della sua avventura, questa sì rivoluzionaria.
Ad uno sguardo di sintesi, non pare azzardato dire che almeno i primi due episodi (il respingimento dei francesi e lo scommiato) di rivoluzionario non hanno nulla, salvo che per “rivoluzione” non s’intenda qualunque mobilitazione popolare a prescindere dai suoi contenuti. Semmai hanno un carattere rivoluzionario i fatti che vanno dai moti angioiani allo sbarco di Cillocco e Sanna Corda in Gallura e fino alla rivolta di Palabanda del 1812. C’è poi la azione carsica che porta ai moti di Alghero fino a congiungersi con gli avvenimenti nazionali che mettono capo alla Costituzione del 1821, poi revocata da Carlo Felice, e allo Statuto albertino del 1848.
1 commento
1 Aladin
5 Agosto 2019 - 08:27
Anche su Aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=99301
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