Gianfranco Sabattini
Il libro “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati” dell’economista indiano Raghuram Rajan, docente di Finanza presso l’Università di Chicago, si occupa dei tre pilastri che reggono la società e spiega perché il rapporto tra essi deve essere sempre in equilibrio; è la condizione perché, secondo l’autore, la società possa prosperare, non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello politico e sociale.
Rajan illustra le ragioni del perché le “tre colonne portanti della società” (Stato, mercati e comunità) devono costantemente interagire in equilibrio tra loro, al fine di evitare che lo stato di salute di ogni società (sia essa arretrata o economicamente avanzata) possa “guastarsi” e subire effetti indesiderati, sotto forma di reazioni violente da parte dei gruppi sociali maggiormente colpiti sul piano esistenziale.
Tradizionalmente gli economisti, osserva Rajan, hanno sempre trascurato di riflettere sul ruolo che la comunità svolge sul piano del corretto funzionamento dei meccanismi sociali che presiedono alla conservazione della coesione sociale, limitando il loro campo di riflessione alle sole relazioni che si svolgono fra lo Stato e i mercati; in tal modo, essi hanno trascurato che i mercati sono definiti da una spessa rete di relazioni umane e dalla condivisione di valori e di regole da parte di tutti i componenti la società.
Questo sistema di relazioni, valori e regole, su cui si basa il funzionamento delle società organizzate, ha però subito nel tempo una lenta, ma continua, evoluzione, che ha visto crescere lo Stato e i mercati e aumentare il livello di centralizzazione del potere decisionale, rispettivamente, sul piano politico e su quello economico; centralizzazione che ha “condannato” le comunità ad essere tendenzialmente escluse dal governo dello Stato e dell’economia. Ciò ha causato reazioni spesso violente da parte dei componenti le comunità che, nell’attuale complessità delle società moderne, potrebbero vanificare (se non si porrà rimedio all’emarginazione delle comunità locali e al crescente malcontento dei loro componenti), non solo la possibilità di poter continuare a fruire dei vantaggi derivanti dagli sviluppi della scienza e della tecnica applicati all’economia, ma anche dell’opportunità, per la parte del mondo ad economia sociale di mercato, di poter continuare a vivere nella libertà garantita dal regime democratico dello Stato.
Il mondo è ora tanto ricco –afferma Rajan - come non lo è mai stato nel passato; la ricchezza è però maldistribuita tra i Paesi e, all’interno di questi, tra i diversi gruppi sociali. Siamo circondati dall’abbondanza; l’umanità, nonostante non sia “mai stata più ricca, grazie al costante miglioramento delle tecnologie di produzione negli ultimi 250 anni”, stenta a trovare le forme più convenienti per “debellare ovunque la fame e i decessi che ne derivano”. In tal modo, il nostro futuro appare, ad un tempo, promettente e pericoloso: promettente per via del progresso nel campo della conoscenza, che può aiutare l’umanità a risolvere i problemi più allarmanti come quelli connessi alla crescita delle disuguaglianze distributive, alla povertà e al deterioramento dell’ambiente; pericoloso, perché le società degli Stati più influenti non riescono ad adattarsi in tempi brevi ai mutamenti causati dal progresso e a convenire sull’urgenza della soluzione dei maggiori problemi sociali. Tutti questi potrebbero favorire il costituirsi di comunità contrarie alle istituzioni democratiche ed a quelle dei liberi mercati, se non sarà impedito che i risultati del progresso politico ed economico vadano a vantaggio solo di alcuni gruppi privilegiati, dotandoli di un potere politico e di una ricchezza sproporzionati.
Ora il mondo si trova, secondo Rajan, in un momento critico della storia dell’umanità, per cui eventuali scelte sbagliate o ritardate “potrebbero fare deragliare” il progresso politico ed economico raggiunto dall’uomo moderno. Il periodo di transizione verso un maggiore equilibrio dei tre pilastri potrebbe risultare traumatico; si può solo sperare che gli uomini tengano conto del fatto, come la Storia insegna, che la società è riuscita a raggiungere con successo l’equilibrio tra i tre pilastri più di una volta nel corso del tempo. L’interrogativo che ci si deve porre, per evitare i possibili traumi da transizione, è come impedire, di fronte ai cambiamenti tecnologici ed economici che caratterizzano il mondo di oggi, il loro verificarsi, al fine di favorire la formazione di relazioni più convenienti e meno conflittuali tra Stato, mercati e comunità.
Rispondere all’interrogativo è oggi particolarmente importante, se si tiene conto del fatto che le comunità territoriali presenti nelle società moderne svolgono ruoli importanti riguardo alla tenuta della coesione sociale; esse (le comunità), ricorda Rajan, conservano “l’individuo ancorato a una serie di reti umane reali”, conferendogli un senso di identità e permettendogli di partecipare alla gestione dei problemi locali. Una comunità in “buona salute” ha ancora altre virtù, la più importante delle quali è quella di “fungere da scudo” nei confronti del potere decisionale del governo centrale; un’altra virtù della presenza attiva delle comunità nelle moderne società ad economia di mercato è quella di rappresentare una “valida palestra” per la formazione di amministratori utili a risolvere i problemi locali. Tutte queste virtù sono oggi affievolite e, se in assenza di un loro ripristino, il disequilibrio oggi esistente tra Stato, mercati e comunità potrebbe essere fonte di instabilità politica e sociale e di un persistete stato di crisi economica.
Quando esiste un corretto equilibrio fra i tre pilastri, le società moderne si trovano nelle migliori condizioni per poter garantire il benessere alle comunità territoriali che le costituiscono. A tal fine, lo Stato deve offrire la necessaria sicurezza, intesa in senso lato; deve inoltre garantire l’equità distributiva (evitando l’approfondimento delle disuguaglianze economiche e sociali), la regolazione del funzionamento dei mercati e la possibilità di accedervi liberamente a tutti i cittadini. I mercati, regolati dallo Stato devono consentire che in essi le comunità possano operare senza discriminazioni e non abbiano a subire sbarramenti d’ingresso di nessuna specie. Le comunità, infine, devono poter decidere in piena autonomia le politiche locali per la valorizzazione ottimale delle proprie risorse, sia materiali, che umane.
Quando uno qualunque di questi pilastri si indebolisce o si rafforza eccessivamente rispetto agli altri – afferma Rajan – le società ne soffrono: i mercati e le società “troppo deboli diventano improduttivi”; le comunità e le società “troppo deboli tendono verso il capitalismo clientelare”; gli Stati e le società “troppo deboli diventano apatici”. Viceversa, i mercati e le società “troppo forti diventano iniqui”; le comunità e le società “troppo forti diventano statiche”; gli Stati e le società “troppo forti diventano autoritari”. L’equilibrio tra Stato, mercati e comunità è quindi essenziale.
La soluzione di tutti i problemi implicati dalla mancanza di equilibrio tra i tre pilastri (che affliggono molte delle società moderne, in modo particolare quelle economicamente avanzate) non dovrà consistere necessariamente in un continuo intervento dello Stato o in un maggior ruolo attivo dei mercati all’interno delle diverse comunità, ma in una “rivitalizzazione” che ridia loro il potere decisionale e di iniziativa che lo Stato ha progressivamente sottratto.
A seguito dell’integrazione delle economie nazionali nel mercato globale, questo processo di sottrazione ha investito anche i singoli Stati nazionali (spinti a delegare ad organismi internazionali molte loro funzioni). Così, all’interno degli Stati moderni si sono verificate le conseguenze peggiori del processo di sottrazione di funzioni alle comunità locali, concorrendo a peggiorare gli squilibri che già preesistevano tra i tre pilastri; ciò è accaduto perché lo Stato, “per soddisfare gli obblighi internazionali, armonizzare le regolamentazioni tra le varie comunità e garantire che i finanziamenti pubblici venissero utilizzati in modo opportuno […] ha indebolito ulteriormente la comunità”.
A parere di Rajan, occorre perciò invertire il trend, per riportare il potere decisionale e d’iniziativa dagli organismi internazionali agli Stati e da questi alle singole comunità, facendo del “localismo” (inteso come accentramento di più poteri e attività nella comunità) la via attraverso la quale rendere possibile l’annullamento degli effetti dell’eccessivo accentramento del potere decisionale nello Stato, ma anche per contrastare gli effetti indesiderati dei liberi mercati e il disordine politico causato dal diffondersi di movimenti radicali di protesta contro le conseguenze negative riconducibili alla distanza politica che ha progressivamente separato lo Stato dalle comunità locali.
E’ difficile non rinvenire nell’analisi di Rajan, la spiegazione delle ragioni di quanto è accaduto in moli Paesi, all’interno dei quali lo squilibrio delle relazioni tra Stato, mercati e comunità (aggravatosi dopo la Grande Recessione del 2007-2008) ha causato la formazione di istituzioni territoriali che hanno danneggiato (anziché migliorare) le condizioni esistenziali dei componenti le singole comunità locali. Le regioni arretrate italiane, ad esempio, non sono mai riuscite a superare il loro ritardo economico, in quanto (secondo la distinzione introdotta da Daron Acemoglu e James Robinson in “Perché gli Stati falliscono”) sono state governate da istituzioni di “natura estrattiva, piuttosto che di “natura inclusiva”; le istituzioni estrattive, anziché plasmare la struttura sociale delle comunità, in modo da consentire l’acquisizione di opportunità di crescita e sviluppo dei singoli territori distribuite in modo equo, hanno invece favorito il permanere dello stato di arretratezza; è accaduto, infatti, che le istituzioni locali (di natura estrattiva) abbiano consentito che i vantaggi derivanti dall’impiego dei continui trasferimenti pubblici andassero solo a vantaggio di ristretti gruppi sociali.
Il fallimento dell’intervento straordinario nelle regioni meridionali italiane può essere considerato, se esaminato dal punto di vista dell’analisi di Rajan, la conseguenza di politiche meridionalistiche attuate in presenza di istituzioni locali che non sono mai risultate in equilibrio, né con la Regione (in luogo dello Stato centrale), né coi mercati; fatto, questo, che ha impedito che i trasferimenti delle risorse pubbliche fossero associati a riforme delle istituzioni politiche ed economiche locali, perché da estrattive (quali erano nel contesto sociale ed economico arretrato, distanti dalla Regione e dai mercati) divenissero inclusive.
Dal punto di vista dell’analisi di Rajan, sarebbe stato possibile, senza grandi sconvolgimenti, realizzare una più efficace e razionale politica meridionalistica se fosse stato realizzato il ricupero di un più funzionale equilibrio fra i tre pilastri; a tal fine, occorreva solo partire dal presupposto che il livello di governo regionale, pur essendo necessario alle comunità arretrate, doveva cedere ad esse potere decisionale d’iniziativa, riconoscendo “che le comunità sono essenziali” per assicurare crescita, sviluppo e benessere, sia ai loro membri, che alle società regionali delle quali erano parte.
Perché ciò accadesse, doveva essere “ritagliato” per le singole comunità arretrate uno spazio decisionale esclusivo, “sottraendolo” sia ai mercati che al governo regionale, realizzando un equilibrio fra i tre pilastri (Regione, mercati e comunità locali), basato su un “localismo inclusivo”. Ciò, a sua volta, avrebbe richiesto, un impianto istituzionale regionale inclusivo, nel quale tutte le comunità fossero state considerate su un piano di parità, parti essenziali delle singole società regionali, impegnate a rimuovere le differenze tra centro e periferia; l’esatto contrario di quanto è accaduto in Italia, con l’attuazione della politica meridionalistica. La mancata realizzazione di un funzionale equilibrio fra i tre pilastri (che sarebbe stato necessario realizzare sin dall’inizio dell’intervento straordinario dello Stato centrale) ha infatti promosso il consolidarsi delle differenze tra centro e periferia, compromettendo irreparabilmente il superamento dello stato di arretratezza delle regioni meridionali.
2 commenti
1 Aladin
25 Agosto 2019 - 08:17
Anche su Aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=99733
2 Giorgio
25 Agosto 2019 - 17:17
Nel meridione d’Italia le comunità locali sono state depotenziate a causa dalle modalità stesse con cui sono stati portati avanti gli interventi di sviluppo.
Le due modalità che hanno causato questo depotenziamento sono, prima di tutto, l’emigrazione. Questa determina una doppia selezione tale per cui, da un lato sj riduce il numero complessivo dei residenti che potrebbero dare un contributo positivo allo sviluppo dell’area. Dall’altro lato determina un effetto selettivo per cui, il più delle volte, sono i migliori che se ne vanno. Nel senso che chi emigra è, quasi sempre giovane e con competenze sopra la media;
Accanto a quanto ora detto, e specularmente, l’altro effetto negativo è stato che chi è rimasto era sempre quello che presentava minori capacità, in termini di capacità di innovazione e di animali spirits. Se a ciò si aggiungono le politiche di tipo assistenzialistico che hanno ulteriormente depresso la capacità di intraprendere, si capisce bene il danno morale oltre che economico che i tradizionali interventi hanno determinato sulle comunità locali meridionali.
Si è trattato di un vero e proprio genocidio antropologico.
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