Keynes: economia aperta più alle istanze delle persone più che a quelle del mercato

18 Agosto 2019
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  Gianfranco Sabattini

 

 

L’editrice Chiarelettere ha pubblicato, a cura di Francesco Saraceno, docente di Macroeconomia internazionale ed europea presso l’”Istituto di Studi Politici di Parigi (SciencePo) e membro del comitato scientifico della “Luiss School of European Political Economy”, il volume “Prosperità”, nel quale sono raccolti diversi saggi che John Maynard Keynes, il grande economista di Cambridge, ha scritto tra il 1925 e il 1933; in un periodo, quindi, “di forti contrapposizioni politiche e di crisi economica la cui affinità con l’oggi - afferma Saraceno nell’Introduzione – risulta evidente”; tutti i saggi mostrano, inoltre, da parte di Keynes, un approccio allo studio dell’economia assai diverso da quello prevalente ai suoi tempi, rivelando tra l’altro la necessità che l’economia sia sempre intesa “come scienza economica rivedibile dal volto umano”.
Lo studio innovativo dell’economia, e dell’applicazione dei suoi risultati alla soluzione dei problemi conseguenti alle fasi negative del ciclo economico, ha portato alla definizione dell’economista di Cambridge da parte di “Keynes Blog” (uno spazio di approfondimento dei contributi alla teoria economica di Keynes e dei keynesiani) come “il più importante e rivoluzionario economista del Novecento”; ciò, per avere la sua “teoria economica rotto con la tradizione liberista del laizzez-faire, cioè con l’idea che lo Stato non debba occuparsi di economia” per lasciar fare tutto al libero mercato.
Al contrario dei teorici del liberismo d’antan, Keynes sosteneva che lo Stato, con le sue politiche d’intervento, costituite soprattutto da investimenti pubblici, tassazione progressiva e protezione sociale, costituivano la leva necessaria per stabilizzare l’economia nei periodi di crisi, all’interno di un quadro istituzionale nel quale era possibile conciliare democrazia, efficienza nell’uso delle risorse ed equità distributiva. Le idee keynesiane, a partire dagli anni Venti, hanno ispirato politiche economiche fondate sull’assunto che libero mercato e autorità pubblica dovessero tra loro interagire, per determinare crescita, occupazione e distribuzione condivisa del prodotto sociale.
L’applicazione del pensiero keynesiano nella formulazione delle politiche d’intervento ha dato luogo, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, a un periodo di stabile e continua crescita dei sistemi economici ad economia di mercato, nonché alla realizzazione di un sistema di sicurezza sociale che ha garantito, secondo Saraceno, anche le condizioni per una prosperità di stabile crescita di lungo periodo. L’abbandono, a partire agli anni Settanta del secolo scorso, del “fecondo pensiero keynesiano”, in favore di un pensiero alternativo sostenente la necessità di lasciare operare il mercato libero da ogni forma di intervento pubblico, ha privato l’economia e la politica degli strumenti appropriati per far fronte alle ricorrenti crisi, che hanno causato crescenti disuguaglianze distributive, divenute causa della generalizzata recessione che ha colpito lo stabile funzionamento dell’economia globalizzata.
L’economista di Cambridge, ricorda Saraceno, rifiutava l’idea che i liberi mercati potessero raggiungere, a causa dell’incertezza che grava sulle decisioni degli agenti che vi operano, l’equilibrio di pieno impiego di tutte le risorse e, in particolare, della forza lavoro disponibile; è proprio l’incertezza, che secondo Keynes giustificava il ruolo attivo dello Stato per il superamento delle inefficienze del mercato, con un doppio obiettivo: il primo era quello di sostenere nel breve periodo l’attività economica, per evitare la formazione di disoccupazione congiunturale involontaria, attraverso la compensazione del deficit di domanda privata; il secondo obiettivo consisteva nel capovolgere le aspettative di imprenditori e consumatori, per promuovere la ripresa della spesa privata.
C’è però una parte del contributo di Keynes che, a parere di Saraceno, “è stato a lungo trascurato”, ed è quella che mette al centro dell’impianto teorico il ruolo degli investimenti pubblici, aventi un riflesso positivo, sia sulla capacità produttiva, sia sul livello di benessere di lungo periodo. Oltre al ruolo congiunturale di breve periodo, lo Stato - afferma Saraceno – ha, per Keynes, anche il ruolo di “far sì che la sequenza di disequilibri di breve periodo” non si trasformi in un permanente stato di depressione di lungo periodo, facendo ricorso alla “socializzazione dell’investimento”, quando quello privato è tanto insufficiente da “ridurre eccessivamente il capitale presente nell’economia”. In questo caso, l’intervento dello Stato ha lo scopo di eliminare “tramite l’intervento pubblico la scarsità di capitale”, per rendere più efficiente il funzionamento del sistema economico. Ciò, però, può accadere – continua Saraceno - se l’investimento pubblico rimane costante nel tempo, traducendosi in un aumento continuo dello stock di capitale disponibile per l’economia.
Secondo il pensiero keynesiano, la chiave della prosperità non risiede solo nella stabilità macroeconomica di breve periodo; questa va cercata anche nella macroeconomia di lungo periodo, che a partire dagli anni Trenta ha visto espandersi, sino agli anni Settanta del secolo scorso. il ruolo assicurativo dello Stato, con la costruzione del welfare State, che ha reso stabile il funzionamento dell’economia, equa la distribuzione del prodotto sociale, migliore il “capitale umano”, quindi maggiore il ritmo di crescita del sistema economico. Non è un caso – conclude Saraceno – “se gli anni d’oro della socialdemocrazia (i cosiddetti anni gloriosi 1945-1975) sono stati un periodo di crescita sostenuta e stabile”.
Alla fine degli anni Settanta, con l’avvento dell’ideologia neoliberista, il pensiero keynesiano è stato “spazzato via”; da una teoria della regolazione dell’economia da parte dello Stato, si è passati alla teoria secondo cui lo Stato deve limitarsi a garantire stabilità, “ma solo stabilità di pressi e finanze pubbliche”, in quanto la stabilità reale, l’assorbimento delle fasi negative del ciclo economico e la convergenza verso l’equilibrio del sistema produttivo sono compititi che è meglio lasciare “al libero operare dei mercati”.
La crisi seguita alla Grande Recessione del 2007/2008 ha però “rimescolato le carte” e riportato all’attenzione del mondo accademico e dei “policy maker” le politiche keynesiane di stabilizzazione, “rimettendo in causa” la dicotomia tra politiche di breve e politiche di lungo periodo. Il ruolo che Keynes assegnava allo Stato nel lungo periodo è tornato così, secondo Saraceno, al centro del dibattito in corso su crescita e stabilità delle moderne economie, “rivelandosi fonte di riflessioni importanti” sulla prosperità futura dei sistemi sociali ad economia di mercato.
I saggi che completano il libro curato da Saraceno illustrano il percorso intellettuale che ha condotto il grande economista di Cambridge al convincimento che la prosperità sia un obiettivo realmente perseguibile dalle moderne società economicamente sviluppate. possono realmente perseguire. Dei saggi, due in particolare rivelano la maturazione del pensiero di Keynes in proposito: quello molto noto, scritto nel 1930, sulle “Prospettive economiche dei nostri nipoti” e quello di un discorso radiofonico, tenuto nel 1932, sulla “Pianificazione statale”.

Nel primo saggio, Keynes ha formulato una serie di previsioni (sicuramente rivoluzionarie nel momento in cui le ha rappresentate) sulla vita sociale e sulle condizioni economiche che avrebbero preso corpo nei successivi cento anni; sono state delle previsioni che molti economisti suoi contemporanei hanno considerato niente più di un “gioco” del teorico di Cambridge. La prima versione di “Possibilità economiche” è stata scritta nel 1928, ma, dopo averla presentata in circoli ristretti e perfezionata in previsione di una conferenza che avrebbe tenuto a Madrid, Keynes l’ha pubblicata nella sua versione finale nel 1930 ed inclusa, nel 1931, nei suoi “Essays in Persuasion”.

All’epoca, Keynes era fermamente convinto che il mondo stesse per vivere una crisi economica profonda, quale poi è stata la Grande Depressione del 1929-1932; per uscire dagli effetti devastanti della depressione, egli riteneva necessaria una politica economica interventista molto attiva, che valesse a dischiudere per l’umanità del futuro una prosperità crescente che, secondo le sue previsioni, non avrebbe avuto confronti rispetto al passato. Lo scritto conteneva la descrizione di tre aspetti del mondo a lui contemporaneo: l’illustrazione delle determinanti della crescita economica, una serie di previsioni sui tenori di vita che si sarebbero consolidati nei successivi cento anni e alcune ipotesi sui futuri stili di vita delle persone, basate sulla sua filosofia morale e sulla sua visione estetica della vita.

I lettori di oggi non possono che restare sorpresi nel constatare quanto “azzeccate” si siano rivelate alcune delle congetture keynesiane riguardo ai livelli di reddito conseguiti e quanto, al contrario, le stesse congetture siano “fallite” riguardo alla diminuzione degli orari di lavoro e al miglioramento degli stili di vita. Il teorico di Cambridge prevedeva che, entro il 2030, i nipoti delle generazioni a lui contemporanee avrebbero vissuto uno stato di abbondanza che sarebbe stato sufficiente a liberarli dall’incombenza di continuare a svolgere attività economiche, quali lavorare, risparmiare e accumulare capitale, per dedicarsi ad attività ludiche e al godimento che poteva essere loro procurato dalle arti e dalla poesia.

Se si esclude l’eccezionale sviluppo economico registrato a partire dal e gli eccezionali risultati verificatisi in molti campi delle scienze e della ricerca tecnologica, tutto il resto appare oggi lontanissimo dal mondo previsto da Keynes. I nipoti delle generazioni a lui contemporanee sono diventati sicuramente ricchi, ma molti di loro sono rimasti poveri e disoccupati, “prigionieri” dell’impossibilità di trovare una fonte autonoma di reddito. A fronte di tale situazione, tanto contraddittoria, tra le previsioni riguardo alla prosperità e quelle relative alla sua equa distribuzione tra tutti i soggetti componenti i sistemi sociali, viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile che uno studioso del calibro di Keynes, profondo conoscitore dell’economia e della società, abbia saputo prevedere con tanta precisione lo sviluppo materiale futuro delle società e “fallire” le previsioni relative al miglioramento dei livelli di benessere e degli stili di vita dei singoli individui.

La risposta non può che essere trovata nel fatto che, malgrado la plausibilità delle previsioni formulate da Keynes, i nipoti delle generazioni a lui contemporanee hanno continuato a conservare molti convincimenti riguardanti le attività economiche (quali la necessità di lavorare, risparmiare e accumulare), considerate, sino alla fine degli anni Venti, delle “virtù” necessarie per migliorare le condizioni di vita degli uomini, ma divenute progressivamente, negli anni successivi, dei “pregiudizi” tali da impedire che la prosperità crescente si traducesse in un miglioramento della qualità della vita sociale di tutti.

I pregiudizi, già incipienti all’epoca di Keynes, sono decritti nel testo delle trasmissione radiofonica da lui svolta nel 1932 sulla “Pianificazione statale”. In tale saggio, il teorico di Cambridge individua nella pianificazione statale l’attività necessaria “per fare quelle cose che, per la loro specifica natura, sono al di fuori della portata dell’individuo”. Essa, la pianificazione statale, nei sistemi democratici, non cerca di estendere i compiti dello Stato a svantaggio dei privati, come avviene invece nei regimi autoritari; il suo scopo è quello di tenere sotto controllo lo stabile funzionamento del sistema economico, decidendo razionalmente come modificare e condizionare l’ambiente, al fine di assicurare che l’attività dei privati possa svolgersi liberamente, senza essere ostacolata da impedimenti di varia natura.

Secondo Keynes, la pianificazione statale sarebbe stata l’attività dello Stato diretta al mantenimento del livello ottimale della produzione; in altri termini, sarebbe stata l’attività con cui lo Stato avrebbe potuto svolgere il più importante e il più difficile compito, al fine di assicurare, non solo le condizioni di equilibrio , sia di breve che di lungo periodo, con una costante e stabile crescita del prodotto sociale, ma anche quelle necessarie per realizzare una giusta ed equa distribuzione intersoggettiva della prosperità, consentendo alti livelli di benessere e migliori stili di vita tutti i cittadini indistintamente.

Non è improbabile, concludeva Keynes, che lungo tali linee evolutive dei sistemi economici si tenti la sperimentazione, attraverso il governo razionale dell’economia, della programmazione degli interventi pubblici e dell’attuazione delle riforme strutturali necessarie per la realizzazione di quanto previsto a favore delle generazioni future. Anche su questo punto, le previsioni di Keynes sono state smentite dal prevalere dei vecchi pregiudizi, che dopo circa mezzo secolo hanno portato la maggioranza degli economisti a ritenere che il problema della stabilizzazione ciclica dell’attività economica e quello del sostegno della crescita di lungo periodo potessero essere meglio risolti direttamente dal libero mercato.
Il risultato del prevalere di questo convincimento è sotto gli occhi di tutti; le economie di mercato dei Paesi economicamente sviluppati sono state “cacciate” dal libero mercato nel tunnel di una crisi, dalla quale non è ancora dato intravedere un qualche possibile riscatto, per il rilancio di una crescita stabile e di una sua equa distribuzione a livello personale.

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