Popolo contro democrazia?

14 Luglio 2019
1 Commento


 Gianfranco Sabattini

Nel 2011, con la “caduta” del governo Berlusconi, era diffusa l’idea che il Paese si fosse liberato di uno stile politico, quello populista, col quale per due decenni il Cavaliere di Arcore aveva caratterizzato la vita politica italiana. Durante il ventennio berlusconiano l’opposizione non era riuscita a offrirsi all’opinione pubblica come una valida alternativa credibile, a causa delle divisioni interne che le impedivano di esprimere una critica unitaria nei confronti di un Primo Ministro, del quale, oltre a non condividere le scelte politiche e il modo non tradizionale con cui rappresentava il Paese a livello internazionale, considerava il suo ruolo, in quanto oggetto di diversi procedimenti penali, sconveniente sul piano delle moralità pubblica. Dopo anni di critiche pressoché ininfluenti, condotte contro l’uomo del “secondo ventennio”, dopo il 2011, l’Italia sembrava avviata, come afferma Yascha Mounk, in “Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, sulla strada del rinnovamento politico.

Il populismo, che si pensava uscito di scena assieme al suo interprete, non ha tardato però a riproporsi, perché, sia il governo del tecnocrate Monti, che quelli di un politico di centrosinistra di “vecchia scuola”, Enrico Letta, e di un “giovane rampante”, che si proponeva come un riformista radicale deciso a “rottamare” il personale politico del passato, Matteo Renzi, hanno avuto vita breve, soprattutto per gli errori commessi da quet’ultimo. Infatti, Monti e Letta, anche per le tensioni originate dall’eccezionale periodo di crisi che il Paese attraversava dopo la Grande Recessione, non hanno avuto neppure il tempo, è il caso di dire, di insediarsi: il Governo Monti è durato, infatti, meno di un anno e mezzo (dal novembre del 2011 all’aprile del 2013), e il Governo Letta meno di un anno (dall’aprile 2013 al febbraio 2014). Il Governo Renzi è stato il più longevo; ma dal momento del suo insediamento – a parere di Mounk – “non ha potuto mantenere le promesse esagerate che aveva fatto, sia perché ha commesso gravi errori tattici, sia perché si è trovato davanti gli ostacoli che avevano dato del filo da torcere anche ai suoi predecessori: una sinistra divisa, un sistema elettorale confuso”, ma soprattutto perché non è riuscito a liberarsi dalla “morsa d’acciaio” dei gruppi di interesse che si erano costituiti e che avevano tratto vantaggio durante il ventennio berlusconiano.

Le elezioni del 2018 hanno sancito, in maniera evidente, che le principali alternative al populismo di Berlusconi avevano fallito. Gli Italiani, secondo Mounk, “avevano provato la tecnocrazia apartitica. Avevano provato a restituire il potere a un rappresentante tradizionale del centrosinistra. Avevano provato un giovane rottamatore di ideologia moderata che prometteva di riformare il sistema anziché distruggerlo”. L’opinione pubblica, però, di fronte agli effetti dirompenti della crisi e all’inefficacia dell’azione di governo, ha gettato, come era logico attendersi, “alle ortiche tutte e tre le opzioni” post-berlusconiane. Gli italiani, infatti, quando nel 2018 sono stati chiamati alle urne si sono comportati, come sottolinea Mounk, “esattamente come hanno fatto negli ultimi anni gli elettori di tanti altri Paesi che avevano perso le speranze: hanno dato fiducia a una variegata combriccola di populisti”, mettendo in evidenza che il “virus del populismo” sopravviveva al suo portatore originario.

Il risvolto di questa sopravvivenza è consistito nell’ascesa di due movimenti risultati entrambi ostili alle istituzioni come lo era stato il populismo di Berlusconi, e forse ancora più radicali sul piano ideologico. La Lega disprezza la stampa ed è ostile ai giudici come Berlusconi, ma pratica anche una forma di xenofobia che viola i diritti delle perone (soprattutto di quelle più vulnerabili).

Il Movimento Cinque Stelle è invece un “paradosso istituzionale e ideologico”. Pur essendo nato come protesta di sinistra, esso si è aperto al pericolo di una deriva ideologica indeterminata. Le sue analisi dei problemi sociali ed economici del Paese, pur racchiudendo una buona dose di verità, mancano di concretezza, di competenza e di un respiro temporale adeguato nel proporre valide soluzioni dei problemi, in quanto sempre “schiacciate” sul presente. Inoltre, la profonda ostilità del “Movimento” alle istituzioni del governo rappresentativo costituisce un seria minaccia alla conservazione della democrazia liberale.

L’affermazione della Lega e del Movimento Cinque Stelle, proprio perché percepiti dall’establishment ancora dominate come pericolo per le istituzioni democratiche, solleva la necessità che le forze tradizionali di opposizione di sinistra non si limitino a criticare quelle populiste attualmente al governo del Paese con argomentazioni di breve respiro, nella prospettiva di una loro possibile prossima sconfitta elettorale; esse (le forze tradizionali di sinistra), alla critica corrente devono anche aggiungere un’analisi del perché le forze populiste hanno avuto la possibilità di legittimarsi presso l’opinione pubblica in un così breve lasso di tempo.

La rapida ascesa ha, per Mounk, una sua giustificazione, espressa dalla speranza della maggioranza degli italiani che, di fronte al permanere degli effetti della crisi sociale ed economica del Paese, l’affermazione delle forze populiste potesse trasformarsi “in un meccanismo autocorrettivo”. A questa speranza, però, secondo il politologo, è risultato intrinseco un pericolo, rappresentato dalla possibilità che l’ascesa rapida del populismo (quale quella verificatasi in Italia), come i precedenti storici suggeriscono, si trasformasse in un effetto autoradicalizzante, invece che autocorrettivo; nel senso che, “anziché contribuire ad affrontare le cause della rabbia popolare”, potesse acutizzarle, determinando un aumento della protesta degli elettori, trasformando l’Italia in un sistema sociale “sempre più caotico”.

Mounk ritiene che, per evitare questo pericolo sia necessario un cambiamento profondo delle forze politiche tradizionali di sinistra dell’Italia, non solo riguardo al modo di farsi percepire dall’opinione pubblica, ma anche e soprattutto, riguardo alla capacità di proporre soluzioni concrete dei problemi che hanno danneggiato, anziché aiutato, i gruppi sociali più deboli, a causa di decenni di stagnazione economica e di inadeguate azioni politiche. Pertanto, il modo migliore per dare agli italiani il governo al quale aspirano – continua Mounk – è quello di una riorganizzazione delle forze di sinistra per vincere “l’immobilità dell’attuale classe politica, senza tuttavia mettere in discussione i principi della democrazia liberale, né distruggere il lascito della Costituzione italiana”.

La riorganizzazione delle forze di sinistra è tanto più necessaria, se si pensa che fino ad alcuni decenni fa la democrazia liberale “regnava sovrana”, facendo apparire che il futuro “non sarebbe stato molto diverso dal passato”. Non è stato però così; l’immobilità della classe politica ha deluso i cittadini, per cui i populisti, come è avvenuto in molti Paesi dell’Occidente, hanno incominciato ad affermarsi, grazie al favore di buona parte dell’opinione pubblica, disaffezionatasi perfino della democrazia liberale stessa. Di fronte alla nuova situazione politica, non è più possibile dubitare sulla natura non transeunte del momento attuale populista. Se a fronte della nuova situazione, le forze politiche di sinistra non cambieranno, né riguardo al modo di percepire le istanze dell’elettorato, né riguardo al modo di considerare le cause del “momento populista”, dovranno assumersi la responsabilità di “mettere in pericolo” la sopravvivenza della democrazia liberale.

Quest’ultima ha il suo “pilastro di sostegno” nel liberalismo d’antan; questo e la democrazia, quindi, formano un insieme coeso, nel senso che se viene meno il primo, anche l’altra entra inevitabilmente in crisi. Tra l’altro, il fatto che i sistemi occidentali ad economia di mercato possano dare l’impressione di sopravvivere per la presenza di entrambi gli elementi (liberalismo e democrazia), non significa che in presenza di entrambi quei sistemi siano politicamente stabili. Al contrario, la dipendenza reciproca mostra che il liberalismo, inteso nel senso dell’ideologia neoliberista dominante, cessando d’essere presidio dei diritti individuali in pro del libero mercato, mette a rischio la democrazia; d’altra parte, i diritti senza la democrazia perdono la caratteristica d’essere solidi e stabili, per cui una volta che il sistema politico perda il proprio equilibrio nei confronti del mercato, l’esclusione del popolo dalle scelte politiche importanti è destinata ad aumentare.

Se la passata stabilità della democrazia liberale era determinata dal “giusto equilibrio” che esisteva tra diritti del popolo e capacità dell’azione politica democratica di soddisfarli, ci si deve chiedere se negli ultimi decenni quel giusto equilibrio sia venuto meno. La risposta non può che essere affermativa; intanto perché nel periodo della stabilità democratica (in particolare, nel periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale) la maggior parte dei cittadini ha goduto di un aumento degli standard di vita ed ha acquisito un maggior numero di diritti; in secondo luogo, perché i cittadini riponevano un alto livello di fiducia nell’impegno assunto dai loro rappresentanti politici a migliorare quegli standard di vita; infine, perché la comunicazione diretta di massa era lo strumento attraverso il quale la classe politica riusciva a riscuotere il consenso dei cittadini in una “società monoetnica”. Nell’ultimi trent’anni, queste “costanti significative” sono profondamente cambiate, e i cambiamenti sono stati di tale intensità da imporre alle forze democratiche di sinistra un nuovo modo di atteggiarsi nei riguardi dei cittadini e dei loro problemi.

In primo luogo, sottolinea Mounk, occorre riformare la politica economica a livello nazionale e internazionale, al fine di attenuare le disuguaglianze che si sono consolidate sul piano della distribuzione del prodotto sociale, partendo dal presupposto che una più equa distribuzione personale della ricchezza non è solo una questione di giustizia distributiva (a livello nazionale e internazionale), ma è anche questione di stabilità politica.

In secondo luogo, occorre rinunciare a soluzioni internazionali ai problemi economici, riconoscendo che democrazia, internazionalizzazione dell’economia e Stato-nazione non possono coesistere. Per salvaguardare la democrazia e ricuperare la fiducia dei cittadini, senza rinunciare ai vantaggi della globalizzazione, “occorre capire come aiutare lo Stato-nazione a riprendere il controllo del proprio futuro.

In terzo luogo, occorre ripensare al modo in cui è possibile appartenere allo Stato-nazione, partendo dalla considerazione che è sbagliato continuare a pensare che soggetti culturalmente diversi possano essere considerati come se fossero culturalmente uguali. La società democratica del futuro non dovrà continuare a perseguire un’improbabile uguaglianza valoriale (che, di per sé, implicherebbe conflitti continui tra i gruppi culturalmente diversi), ma garantire un uguale rispetto ad ogni soggetto, in quanto titolare di diritti che ne fanno “un cittadino, non per il fatto di appartenere a un determinato gruppo”.

Infine, si dovrà agire perché l’era digitale non implichi rischi irreversibili per la democrazia, disciplinando l’uso sul piano politico delle tecnologie informatiche, per impedire che esse siano impiegate per destabilizzare il regolare funzionamento del sistema politico.

Oggi è pressoché impossibile prevedere se i cambiamenti auspicati nel modo d’essere delle forze politiche di sinistra potranno avvenire rapidamente, oppure meno; né, proprio per questo motivo, è possibile prevedere se l’ascesa dei movimenti populisti sarà di breve durata, oppure se sarà il preannuncio di un mutamento epocale del modo di “stare insieme”.

Tuttavia, nell’incertezza che ci riserva il futuro, se le forze di sinistra non faranno il possibile per salvaguardare la democrazia liberale ed i diritti che grazie ad essa i cittadini delle società moderne sono riusciti a conquistare, sarà una sconfitta a danno di tutti; non solo di chi continua a credere nella democrazia liberale, ma anche di chi ritiene che attraverso una sua rimozione o, nel migliore dei casi, una sua trasformazione in democrazia illiberale, possano essere risolti i mali delle contemporanee società economicamente avanzate.

1 commento

Lascia un commento