Andrea Pubusa
Si è svolto a Firenze giovedì e venerdì scorsi un Convegno internazionale su “Democrazia partecipativa in Italia e in Europa: esperienze e prospettive”. E’ stato l’incontro conclusivo di un Progetto interuniversitario Firenze-Cagliari-Napoli, che ha già prodotto un libro sul Convegno tenutosi l’anno scorso a Cagliari. Una seconda pubblicazione raccoglierà gli atti del Convegno di Firenze, cui hanno partecipato i maggiori esperti europei. La relazione generale è stata svolta da Umberto Allegretti, col quale abbiamo così avuto modo di scambiare delle opinioni, che sintetizzano alcuni passaggi della sua robusta introduzione.
D. Si parla tanto di democrazia partecipativa. Ma di cosa si tratta esattamente?
R. Un flusso di idee e di pratiche di partecipazione politica e amministrativa attraversa il mondo nel quale viviamo. Sebbene idee e pratiche si fossero già vivacemente manifestate negli anni sessanta e settanta del novecento, è dagli anni novanta che si assiste alla creazione di forme partecipative più approfondite e precise e la loro circolazione si è fatta più intensa, muovendo dall’America Latina – tanto che nella letteratura è stata proposta l’immagine del “ritorno delle caravelle” – e interessando i vari paesi d’Europa e tra essi il nostro.
D. Puoi spiegare meglio a cosa ci riferiamo quando parliamo di democrazia partecipativa?
R. Senza farne qui l’inventario - per il quale è ormai disponibile una ricca letteratura – basterà evocare a titolo campionario, accanto alle forme più generiche di procedure di consultazione diretta o indiretta e di organi consultivi appositi relativi alle più diverse materie, alcuni meccanismi istituzionali aperti più intensamente all’intervento del pubblico, quali gli istituti francesi della “démocratie de proximité”, le audizioni e inchieste pubbliche (soprattutto inglesi), la “urbanistica partecipata” e i provvedimenti partecipati in materia ambientale, esplicantisi negli interventi del pubblico nelle procedure relative a provvedimenti singoli, di pianificazione e programmazione e regolamentari e all’elaborazione di politiche (fino potenzialmente alle procedure legislative), quali quelli rientranti nel campo di applicazione della Convenzione di Aarhus, il “débat public”, le giurie civiche, i “fondi comunitari”, i comitati di controllo e gli osservatori popolari, i “bilanci partecipativi” delle varie gradazioni (e le forme di “economia partecipata”) avviate particolarmente in Spagna e in Italia.
D. Ma perché la democrazia partecipativa? Da cosa nasce il bisogno di nuove forme di partecipazione popolare?
R. Per comprendere lo scenario e la sceneggiatura stessa – poiché di una dinamica sceneggiatura si tratta - delle pratiche partecipative, bisogna partire dalla tela di fondo che ne costituisce la prospettiva. E’ la democrazia contemporanea, con tutta la complessità dei suoi antecedenti, della sua situazione, del suo movimento. La democrazia, modernamente configurata nella rappresentanza, e in quanto tale tradizionalmente percepita, magari esaltata, come una struttura stabile e tendenzialmente compiuta, è invece sottoposta a “disfunzioni originarie”, che si sono rivelate in pieno solo di recente. Disfunzioni che risalgono al concetto stesso che ne sta alla base, cioè alla centralità e quasi esclusività del momento elettorale di designazione della rappresentanza, che traduce in essenza della democrazia un artificio “procedurale” quale la formazione d’una maggioranza alla quale è affidata la decisione per il popolo, che della democrazia è il soggetto.
D. Ma questo è il peccato originale della democrazia, lo aveva capito già Rousseau…non si può essere sovrani solo in quell’attimo in cui esprimiamo il voto…
R. In realtà la democrazia è sempre stata cosa “incompiuta”; non solo per le imperfezioni congenite alle forme rappresentative e ai sistemi elettorali, ma tanto più in quanto i regimi democratici, nati in seno allo stato moderno come stato burocratico, si sono in realtà fondati su una “doppia legittimità”: “il suffragio universale e l’amministrazione pubblica”.
D. Ma l’amministrazione non è funzione esecutiva, quindi servente della legislazione? Insomma, almeno sul piano teorico, non dovrebbe avere autonomia….
In realtà non è mai stato così. L’amministrazione – in tempi recenti sempre più costituita da un complesso di strutture a carattere tecnico-scientifico - possiede “un margine di autonomia fondata sulla competenza” così che “ha giocato un ruolo decisivo come elemento compensatore dell’indebolimento della legittimità elettorale”.
D. Si questo è vero. C’è un peccato originale della democrazia rappresentativa (si vota una volta ogni cinque anni) e c’è un’amministrazione che ha una sua autonomia. Ma cosa determina tutto questo?
R. Cambia la prospettiva. Al concetto statico della democrazia bisognerebbe sostituire, come si tende a fare in ambienti diversi da quelli dei regimi che si pretendono assestati dell’Occidente, quello dinamico di democratizzazione, che riconosce quell’incompiutezza e si sforza per il suo continuo superamento. Si aggiunga che oggi – forse per non aver accettato umilmente e coraggiosamente tale passaggio concettuale – la democrazia sperimenta una crisi (di cui infatti tutti parlano), che ispira delusione, sfiducia e sospetto (da ciò il concetto di “età della diffidenza” proposto da Rosanvallon).
D. E’ come si risponde o dovrebbe rispondersi a questo pericoloso passaggio?
R. E’ a questa crisi che si connette l’emergere di esigenze nuove e di nuovi strumenti atti ad affrontarle. Accanto ai tentativi, che in realtà si scontrano per lo più, almeno per ora, con gravi impasse, di rivitalizzare le forme rappresentative - i parlamenti, i partiti, i regimi elettorali, il concatenamento tra i vari livelli territoriali di potere - stanno proprio l’invenzione e la ricerca di strumenti riconducibili alla democrazia partecipativa. Essi intendono “democratizzare la democrazia”, darle sviluppi tante volte promessi, complementare – non sostituire - le sue realizzazioni classiche e provvedere sbocchi diretti o indiretti alla loro crisi.
D. Ma in quale spazio si può collocare quest’opera di democratizzazione?
R. Lo spazio scenico in cui questo secondo tipo di tentativi si muovono è, non quello della rappresentanza, ma quello di uno “spazio pubblico politico”, non “organizzazione” né “sistema”, ma semmai “rete” dagli “orizzonti aperti, porosi e mobili”, in cui si muove la società civile con tutta la varietà di attori che la compongono.
D. Capisco, ma il tutto mi pare un po’ nebuloso…
R. Ma no. Queste raffigurazioni concettuali colgono in modo più forte di ogni precisione pedante una realtà effettuale solo apparentemente immaginaria …
D. D’accordo, ma a quale realtà ti riferisci?
R. In seno allo spazio pubblico, è caratteristica della democrazia partecipativa, e delle stesse forme minori di partecipazione, che società e istituzioni si incontrino entro procedure fondate su ruoli previsti dei vari attori e aventi spesso – questo carattere si accentua nelle forme più elevate – un forte grado di istituzionalizzazione, di innovazione organizzativa. Si tratta ovviamente di un approccio che introduce immediatamente in questi nuovi fenomeni una dimensione tecnico-giuridica molto specifica, legandoli a sviluppi tipici degli ordinamenti giuridici in età contemporanea…
D. Ma in queste procedure come s’inseriscono i cittadini?
R. Tali procedure si fondano su una unione degli elementi di democrazia rappresentativa con altri riconducibili alla democrazia diretta che segnano la presenza attiva della collettività, ma che, invece di realizzare integralmente quest’ultima – il che supporrebbe che sia la decisione stessa a essere presa in prima persona dal popolo, come avviene nelle forme decisionali di referendum e in istituzioni assembleari antiche –, li immettono entro una procedura che vede la decisione e altri momenti del procedimento lasciati agli organi rappresentativi.
D. Insomma, i cittadini non decidono direttamente, come accade nei refrerendum, ma partecipano ad una decisione che rimane in capo agli organi rappresentativi…
R. Sì. Società e istituzioni sono connesse tra loro entro una stessa operazione, e si produce una oggettiva affermazione della legittimità di entrambe secondo un riconoscimento reciproco che supera la storica separatezza tra due entità (rappresntanza e società appunto) già considerate come mondi a sé.
D. Dunque, è la democrazia, o meglio la democratizzazione, il territorio in cui si muove la novità della pratica partecipativa…
R. Certamente. Tuttavia, guardandola da vicino, si coglie la forte complessità interna degli scopi che poi le singole esperienze assumono di volta in volta a propri obiettivi specifici…
D. Mi pare di capire che gli scopi sono tanti, a seconda anche dei contesti…
R. Si certo. In concreto, le forme di partecipazione si ispirano a obiettivi e funzioni o (come si dice con linguaggio socio-filosofico) ideali normativi diversi. La letteratura francese, forse la più affinata in argomento (almeno in Europa), lo ha chiarito, elencando, accanto a quello complessivo della crescita della democrazia, le finalità dello sviluppo dei diritti di cittadinanza (empowerment), della rilegittimazione del sistema politico, gli obiettivi semplicemente amministrativi e gestionali che puntano sull’aumento d’efficacia dell’azione pubblica (detti qualche volta, più o meno bene, di modernizzazione), gli scopi di giustizia sociale mediante azioni redistributive, la ricerca della sostenibilità ambientale. Ma altri ancora se ne possono aggiungere: si pensi ad esempio alla complessità di obiettivi e di interessi propri dell’atto bilancio e di altri quali i piani urbanistici e gli interventi ambientali, e all’incertezza che pervade, oggi, le soluzioni tecno-scientifiche, con la conseguente pari incertezza che comportano per una serie crescente di decisioni amministrative (tipiche proprio quelle del settore ambientale, ma non solo quelle).
D. Una miriade di finalità non tutte di uguale segno ed effetto…
R. Tutti questi scopi si possono articolare più specificamente col rilevare, ad esempio, che quelli di natura prettamente politica consistono nella ricerca di arricchimento della democrazia rappresentativa, nel senso di correzione, di complementarità, di integrazione – ma anche, come si vedrà, con il possibile cambiamento del suo senso -, e insieme nello sviluppo della capacità dei cittadini (“capacitazione” nel senso di Amartya Sen), e dell’inclusione di fasce di cittadini prima esclusi. Gli obiettivi economico-amministrativi, a loro volta, cercano un rimedio ai trend di inefficienza e inefficacia che affliggono molte amministrazioni sotto la pletora delle burocrazie, la loro tendenza all’inerzia, la complicazione puramente interistituzionale dei procedimenti, la paralisi determinata dalla disinformazione, dal mancato consenso e dall’opposizione dei cittadini. E’ un terreno dove la teorica della partecipazione si incrocia e si somma a quella del New Public Management in una sovrapposizione che, data la diversità filosofica delle due ispirazioni, non manca di porre problemi.
D. Ma a molti interessano di più le finalità sociali. In fondo la democratizzazione se è sostanziale deve condurre ad una crescita dei diritti dei ceti deboli, deve favorire l’eguaglianza…
R. Quanto alle finalità redistributive, qualcuno tenderebbe ad escluderle, ma in realtà sono vivacemente presenti, anzi essenziali, nelle esperienze più sistematiche come quelle brasiliane; d’altronde gli stessi sviluppi della democrazia rappresentativa nella seconda parte dell’Ottocento e nel Novecento non vedono nella democrazia economica e sostanziale un carattere della democrazia compiuta?
D. Mi pare proprio di sì. Anzi a poco servirebbe una democrazia solo formale. In fondo, la democrazia o è anche sostanziale oppure non è. I grandi balzi in avanti della democrazia, a ben vedere, hanno sempre comportato l’introduzione dei diritti e l’allargamnento delle fasce di popolazione che ne godono e che li esercitani, la capacitazione o impowerment come si usa dire oggi…
R. Ideali profondi, anche se non risultano esplicitati come tali (ma, come viene notato, l’esplicitazione avviene solo in parte nella pratica partecipativa e importa molto se i vari fini sono comunque compresi in essa) sono quelli di natura antropologica – ritorna l’obiettivo della capacitazione -, da interpretare ad esempio, facendo riferimento a una nota lettura della sociologia più avvertita, come il controllo che le forme partecipative possono contribuire a svolgere sulla drammatica “liquidità” della società “globale” moderna, arginandone e correggendone l’impatto, e la riconquista di umanità che consente di diminuire la deriva verso il post-umano propria anch’essa della situazione contemporanea.
D. Qui torniamo all’obiettivo di fondo della democrazia che - come dice la Costituzione americana - è alla fine quello di rendere gli uomini felici. O, a voler essere meno ottimisti, a renderli meno infelici…
R. Beh sì, è la “sofferenza” caratteristica del nostro tempo che la democrazia partecipativa può aiutare a fronteggiare; e certo questo di far fronte alla sofferenza è uno dei grandi scopi che non può non proporsi alla politica e al diritto della nostra epoca.
D. Poi oggi ci sono gli angosciosi dilemmi che ci pone il grande sviluppo della scienza…
R. Quanto alle implicazioni della complessità e dell’incertezza tecnico-scientifica, entrambe si avvantaggiano della partecipazione che, oltre ad aprire, garantite certe condizioni, maggiori possibilità di alternative esperte, consente di fruire di quei “saperi quotidiani” (detti anche locali, o posizionati; in francese, savoir d’usage) che solo i cittadini, in relazione alla loro abituale presenza nei luoghi a cui i procedimenti si riferiscono, possiedono, e che integrano con una funzione loro propria i “saperi esperti”.
Qui c’è un collegamento forte e non in direzione della chiusura alle problematiche dell’identità, spesso declinate in chiave solo difensiva. E con queste considerazioni terminiamo per ora la conversazione con Umberto Allegretti. Ma contiamo di riprenderla con lui e con altri perché ci sono tanti altri aspetti da approfindire, comprese le possibili distorsioni e gli elementi critici. E certo per chi come noi pone la democratizzazione in cima ai propri pensieri e al proprio impegno, questi sono campi da sondare nel profondo. Non per fermarci, ma per procedere con più sicurezza.
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