Manuela Scroccu
Dove sono Mohamed e Hasan, che volevano raggiungere i cugini nella ricca Europa per andare a lavorare in un ristorante? Dove sono Abdou, Ahmed e Omar che volevano un futuro migliore che non avesse il profumo della miseria del loro piccolo paese? E Idris che scappava dalla guerra? Dormono in fondo al mare insieme ai duecento passeggeri delle due imbarcazioni affondate nel tratto di costa che separa la Libia dalla Sicilia. Lo ha reso noto l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Duecento, forse trecento persone, nessuno sa dirlo con certezza, sono attualmente disperse nel sud del Mediterraneo. Il mare in tempesta ha sbriciolato le “carrette del mare” nelle quali viaggiavano come fossero di cartone. Centinaia di persone sono annegate in un colpo solo, praticamente nel pianerottolo di casa nostra.
Probabilmente i loro corpi non verranno mai ritrovati. Chi erano, come si chiamavano non lo sapremmo mai. Possiamo solo immaginarli i loro nomi, così come i loro sogni, che sono gli stessi per tutti i migranti del mondo e di ogni epoca: pane e speranza, un futuro migliore per se e la famiglia. Le loro storie dormiranno sepolte in fondo al mare, al sicuro e ben lontane dalle coscienze di un paese ormai smarrito le cui coste confinano con un enorme cimitero d’acqua salata senza lapidi. D’altronde questi morti non sono di nostra competenza. Come ha tempestivamente ricordato il ministro Maroni: “Noi controlliamo e gestiamo coloro che a bordo dei barconi arrivano nelle acque di competenza italiana. Diamo soccorso e sostegno. Non possiamo che auspicare che lo stesso venga fatto da altri per evitare tragedie che addolorano tutti”.
Non è facile in effetti, riprendersi dallo sgomento di aver introdotte leggi tanto restrittive quanto inutili. La spinta migratoria verso l’Occidente non può essere fermata con politiche di “militarizzazione” delle coste. Sarebbe necessario rivedere tutto il sistema di accoglienza e intervenire soprattutto sulla regolamentazione di nuovi ingressi. Invece si preferisce tacere sul fallimento delle politiche sull’immigrazione, dando spazio al rumore e al sensazionalismo di chi specula su episodi di cronaca nera e sul luogo comune del “nemico straniero”. D’altronde chi tiene il conto di morti senza nome e senza patria? Quanto dura il cordoglio per gli ennesimi duecento clandestini “dispersi”, o trecento (in fondo che differenza fa?), se non lo spazio di due minuti di servizio televisivo?
Fare una stima dei decessi, peraltro, sarebbe impossibile perché la stragrande maggioranza delle morti non ha la possibilita’ di essere segnalata. L’unico dato certo sono i 13 mila cadaveri recuperati in mare negli ultimi dieci anni e le testimonianze quotidiane dei pescatori che si ritrovano con i corpi senza nome impigliati nelle reti, come ha raccontato il giornalista Giovani Maria Bellu nel suo libro “I fantasmi di Porto Palo”. Dieci anni di silenzio e omertà.
Tredicimila morti ci sono voluti per rompere la cautela e il riserbo dell’Organizzazione internazionale e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che hanno espresso ‘’scetticismo” riguardo all’efficacia delle misure congiunte italo-libiche di pattugliamento annunciate dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il quale ancora oggi, invece, affermava con totale sicumera che il 15 maggio, giorno in cui entrerà in vigore l’accordo tra Italia e Libia per il pattugliamento della sponda Sud del Mediterraneo, il problema degli sbarchi di “clandestini” in arrivo dalla Libia ‘’sara’ risolto”.
Non è ben chiaro, comunque, che ne sarà di tutti quegli immigrati intercettati dai libici. Verosimilmente verranno rimandati indietro verso il deserto, ad affrontare una sorte forse peggiore. Le tombe senza nome sarebbero soltanto spostate un po’ più in là, verso l’Africa. Certo, almeno non morirebbero nel “mare nostrum”.
Tutti, tutti dormono, dormono in fondo a mare
2 Aprile 2009
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