“Lavorare meno, per lavorare tutti”: si può?

16 Maggio 2019
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Gianfranco Sabattini

 (il libro prodotto dal CoStat in libreria)

Di fronte alla necessità di contrastare il fenomeno della disoccupazione strutturale e della povertà è tornato di moda lo “slogan” “Lavorare meno, per lavorare tutti”; in voga in Francia negli anni Ottanta, questo slogan è sicuramente coinvolgente e accattivante, ma le difficoltà che le moderne economie industriali avanzate devono superare per creare nuovi posti di lavoro, al fine di sconfiggere la disoccupazione e la povertà, danno luogo a interrogativi troppo seri, per lasciare spazio all’emotività a sostegno di un’idea che si è rivelata, anche per coloro che l’hanno proposta per primi, non percorribile nelle società capitalisticamente avanzate.
Infatti, nel contesto attuale dell’economia globalizzata - come osserva Chiara Saraceno in “Lavorare meno provare si può”, apparso su “la Repubblica” del 12 aprile) quest’idea investe direttamente (anche solo a pensare di doverla attuare in via sperimentale) la questione esiziale del suo rapporto con la produttività dei fattori impiegati nello svolgimento dell’attività economica.
Ciononostante, l’idea è stata rilanciata di recente dal neo-presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, forse perché sollecitato a trovare un’alternativa alle difficoltà incontrate, nel contesto italiano, nell’introdurre un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, in sostituzione di quello adottato dall’attuale governo, la cui unica finalità è quella di contrastare la povertà con una “misura” assistenziale non diversa da quella espressa dal preesistente reddito di inclusione.
Da una robusta schiera di studiosi, tutti di orientamento di sinistra (quali, in particolare, Guy Aznar, Claus Offe e André Gorz), il reddito di cittadinanza, quale era stato definito da James Meade e da altri già nella seconda metà del secolo scorso, è stato inteso come strumento volto ad assicurare un reddito a chi è privo di ogni opportunità per procurarselo, associato però al vincolo che esso sia sempre connesso ad un’attività lavorativa. A tal fine, l’idea di un “reddito sociale garantito” (altra espressione con cui spesso viene denominato il reddito dei cittadinanza) è collocata dagli autori sopraccitati all’interno di una prospettiva di analisi del funzionamento dei sistemi economici implicante una correlazione stretta che, a loro giudizio, deve sempre esistere tra reddito di cittadinanza e prestazione lavorativa.
Secondo gli autori citati, un reddito sociale, svincolato dall’”unità indissolubile” che caratterizza la connessione del diritto al lavoro al diritto al reddito, ha l’effetto di fare rientrare nel novero dei palliativi (cioè dei provvedimenti che non risolvono in modo definitivo la soluzione del problema della disoccupazione strutturale e della povertà) qualsiasi “misura” di politica economica che sia intenzionalmente diretta a proteggere i lavoratori (e i poveri), senza però promuovere una dinamica sociale in grado di aprire loro prospettive sicure e stabili di miglioramento della loro condizione, oltre che economica, anche sociale.
Sopprimendo il contenuto valoriale del lavoro, a parere di Aznar, Offe e Gorz, il ricevimento di un reddito sociale farebbe perdere il senso della cittadinanza, in quanto varrebbe a negare che l’aspirazione al lavoro costituisce un diritto incondizionato dell’uomo. Inoltre, la corresponsione di un reddito sociale svincolato dal lavoro avrebbe il difetto d’essere un provvedimento ridistributivo non sufficiente ad impedire il continuo aumento della disoccupazione e della povertà, indotte dal progresso tecnico e dall’aumento della competitività, derivante a sua volta dalla globalizzazione delle economie nazionali.
La contrazione continua dell’occupazione e il progressivo aumento della povertà, per via delle difficoltà (economiche e politiche) che si oppongono all’introduzione del reddito di cittadinanza come Aznar, Offe e Gorz lo intendono (non solo, quindi, come “misura welfarista”, ma anche come strumento di salvaguardia del valore sociale del lavoro), ha determinato l’orientamento della loro riflessione verso la soluzione del problema della disoccupazione e del contenimento della povertà, attraverso l’attuazione di una politica fondata sulla riduzione del tempo di lavoro, resa possibile dalla produttività crescente dei fattori produttivi impiegati dalle imprese e dalla crescita del prodotto sociale, rimuovendo in questo modo il pregiudizio secondo il quale “lavorare meno“ significherebbe “guadagnare meno”.
Qual è il senso della proposta di Gorz, Offe e Aznar? Se le imprese, per il prevalente effetto dell’aumentata produttività dei fattori produttivi impiegati, potessero ridurre, a parità di produzione, il tempo di lavoro, significherebbe che una parte della forza lavoro occupata, a parità di tempo di lavoro, diventerebbe esuberante, quindi destinata a perdere la stabilità occupazionale. I nuovi disoccupati potrebbero però essere immediatamente “riassorbiti” da attività produttive autodirette, finanziate con un reddito di cittadinanza corrisposto dallo Stato, utilizzando il valore dei salari non più corrisposti dalle imprese.
In questo modo, secondo Gorz, Offe e Aznar, diverrebbe possibile realizzare un’organizzazione del sistema produttivo regolato in modo da consentire di contrastare la disoccupazione strutturale e la povertà, scegliendo di istituzionalizzare, a favore dei disoccupati, un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, senza doverlo correlare a specifiche contribuzioni produttive eterodirette; i sistemi produttivi che optassero per la riduzione del tempo di lavoro si doterebbero di automatismi preventivi di controllo e di gestione della disoccupazione (e, indirettamente, della povertà) tali da consentire il superamento di ogni forma di intervento pubblico “caritatevole”.
Per i sostenitori di questa tesi, la realizzazione di un sistema sociale “rivitalizato” sulla base della diminuzione del tempo di lavoro e sulla conservazione della stabilità occupazionale, tramite l’avvio di attività autodirette, non porrebbe problemi particolari sul piano macroeconomico; le difficoltà, secondo loro, consisterebbero nel trasferire sul piano microeconomico ciò che, dal punto di vista dell’economia considerata nel suo insieme, non presenterebbe contraddizioni. Se la riduzione della durata del tempo di lavoro è concepita, non come semplice “misura” di una politica pubblica volta a contrastare la disoccupazione e la povertà, ma come una “politica di rivitalizzazione” del sistema sociale, a loro parere, la lotta contro la mancata disponibilità di un reddito non sarebbe tanto realizzata attraverso una riduzione meccanica del tempo di lavoro, quanto con l’inserimento, nel governo della disoccupazione e della povertà, di “automatismi” che consentirebbero di creare costanti condizioni di equilibrio del sistema economico.
Dal punto di vista microeconomico, Gorz, Offe e Aznar affermano che le economie di tempo di lavoro si tradurrebbero per le imprese in economie sui salari; sebbene si possa pensare che, dal punto di vista macroeconomico, il sistema delle imprese, pur gravato dell’onere di finanziare il reddito di cittadinanza, sia sempre in grado di conservarsi in equilibrio, l’idea degli autori citati, però, manca di tener conto che gli automatismi da essi ipotizzati (compensazione delle disoccupazione tecnologica con l’occupazione degli esuberi in attività produttive autodirette, finanziate con il risparmio sul monte salari) presuppongono un condizionamento dell’attività delle imprese che potrebbe risultare esiziale per la loro stessa sopravvivenza, sino al dilagare incontrollato della disoccupazione e della pauperismo.
Per questo motivo, l’idea di Gorz, Offe e Aznar non sfugge alle considerazioni critiche che possono essere formulate contro tutte le proposte fondate sull’ipotesi che il contrasto alla disoccupazione e alla povertà sia vincolato all’erogazione di un reddito condizionato all’esercizio di specifiche attività lavorative eterodirette; ciò implica che l’attuazione dell’idea di Gorz, Offe e Aznar non rimuoverebbe la necessità di un collegamento alla logica propria di ogni modello organizzativo del sistema economico fondato sulla centralità e incondizionalità della produzione.
Lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” manca così d’essere sorretto dalla dimostrazione che la contrazione del tempo di lavoro, per effetto dell’aumentata produttività, sia sempre sufficiente a garantire l’occupazione della forza lavoro che viene espulsa dalle imprese in quanto esuberante. Ciò che lo slogan stesso sottende è che, linearmente, dopo ogni miglioramento della produttività dei fattori impiegati dalle imprese, la possibile disoccupazione conseguente sia compensata dall’avvio di attività autodirette.
Ma come si può pensare che il miglioramento della produttività delle imprese possa essere utilizzato per finanziare l’avvio di attività autodirette, senza evitare che esse possano vedere compromessi i loro obiettivi di produzione e la loro permanenza sul mercato? Ciò dimostra che l’aumento della produttività non può essere utilizzato per rendere operanti automatismi in grado di evitare, in modo stabile, sia la disoccupazione che la povertà.
In conclusione, occorrerà riflettere in termini molto più approfonditi sulle forme mediante le quali nel mondo globale di oggi, caratterizzato dal lento, ma continuo, passaggio dall’”età della scarsità” all’”età dell’abbondanza”, sia possibile affrontare la soluzione dei problemi che causano instabilità e conflittualità all’interno delle società capitalistiche avanzate.
L’estendersi dell’abbondanza della quale godono i moderni sistemi economici industriali avanzati, impone necessariamente che i nuovi meccanismi di distribuzione del prodotto sociale siano sempre più affrancati dagli slogan e dalle idee che, pur coinvolgenti e accattivanti, non offrono alcuna possibilità di risolvere, in condizioni di stabilità economica e sociale, i mali del mondo attuale, quali sono la disoccupazione e la povertà.

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