La democrazia partecipativa, è possibile nei sistemi presidenziali?

4 Aprile 2009
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Amsicora

La forma prima di partecipazione è offerta, negli ordinamenti democratici dagli organi elettivi e dalla loro consonanza con il corpo elettorale. La nostra Costituzione individua una trama articolata che muove dalla libertà di associazione in ogni sua forma (art. 18), poi specificamente in quella sindacale dove si appunta soprattutto nella contrattazione collettiva (art. 39), e nei partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). In questi modi variegati si esercita quella partecipazione dei lavoratori che è insieme fonte di ulteriore capacitazione e di uguaglianza. Questa partecipazione per così dire sociale rifluisce poi negli organi rappresentativi dove un ruolo centrale è assegnato alle assemblee (dai Consigli comunali al Parlamento), in un continuum democratico articolato in vari livelli, così da giustificare la convinzione secondo cui la nostra Costituzione propende per una democrazia assembleare, fondata sulla partecipazione diretta e, senza soluzione di continuità, nell’intreccio fra partecipazione sociale e rappresentanza politica.
Orbene, cosa è rimasto di questo schema formale? Guardando alla realtà senza infingimenti, dobbiamo ammettere che di esso nella costituzione materiale non è rimasto nulla o quasi. Su questo versante sorgono i primi problemi perché i sistemi elettorali locali, da quello comunale a quello regionale, presentano molti aspetti critici. E mi spiego. E’ innegabile che le elezioni dirette di sindaci e presidenti hanno incontrato un gradimento perché la scelta dai partiti o dai gruppi rifluisce in capo al corpo elettorale e, dunque, offre maggiori certezze e stabilità. Tuttavia, occorre ammettere che si registra un deficit democratico, in ragione della diminuzione di ruolo dei partiti e delle assemblee. Le assemblee sono un impaccio, vengono percepite come “un mercato delle parole“, un luogo rumoroso, sregolato e turbolento, da mettere sotto controllo. I parlamentari sono (preferibilmente) nominati dall’alto, e viene conseguentemente anche limitato l’esercizio del loro voto in aula, direttamente demandato, per ora solo di fatto, ai capigruppo. Certo l’orientamento autonomo è possibile, ma si configura come un atto d’indisciplina, passibile della più terribile delle sanzioni: la non ricandidatura. Dunque è una facoltà solo teorica, perché la forza dissuasiva della sanzione è massima. Scompare il Parlamento così come storicamente lo abbiamo inteso in favore di un organo collegiale nominato; in questi sistemi vien meno anche l‘esecutivo, che da organo politico diviene poco più che uno staff del Presidente. Certo il concreto atteggiarsi di questa forma di governo dipende non solo dalla legge, ma anche dalla situazione reale, dalle propensioni e dal tasso di populismo del Presidente, dal modo in cui le forze politiche sono organizzate, anzitutto dal fatto che esse esistano o siano niente più che sigle elettorali vuote, dietro le quali si nascondono singoli o gruppi di persone. Tuttavia è innegabile che la disciplina legislativa influisce in modo pregnante sulle dinamiche democratiche.
E l’agorà? Qual è la sorte dell’agorà in questo ambiente? L’agorà, colpevole d’essere la sede del confronto e della discussione fra i cittadini attivi, il luogo dove i più deboli cercano rimedio e riparazione alla disuguaglianza, è accusata d’essere d’intralcio all’azione efficace e decisa del capo e dei gruppi di comando. Viene sostituita dallo stadio, dove i convenuti non sono i cives, ma i tifosi acritici del leader. Luogo dove i fedeli osannano il leader con acclamazioni, applausi e, spesso anche con inni e canti.
Orbene, in un ambiente di questo tipo, quali sono le dinamiche partecipative? Anzitutto, i cittadini attivi e i deboli si ritraggono. A livello elettorale è agevole constatare l’enorme aumento dell’astensionismo: in Abruzzo alle ultime elezioni regionali il 47%, Si dirà: il dato non è significativo per l’eccezionalità della situazione (ex Presidente e Sindaco del capoluogo agli arresti). E in Sardegna un mese e mezzo fà? Su 1.449.335 elettori alle elezioni regionali ci sono state oltre 600 mila fra astensioni, schede bianche e nulle, ossia circa il 43%. Il più grande partito. E dunque, nell’Isola, reclusi non sono stati i candidati alla presidenza, ma gli elettori, che si sono sentiti ristretti fra due offerte politiche considerate parimenti indigeste.
Ecco allora un primo elemento di riflessione. Costituiscono terreno fertile per la democrazia partecipativa i sistemi iperpresidenziali, come sono i nostri dal livello locale a quello nazionale? Oppure c’è incompatibilità fra partecipazione e propensione monocratica?
La risposta non può essere univoca. Talora la partecipazione diretta può avere una funzione di bilanciamento, di temperamento almeno in relazione alle questioni più gravi e coinvolgenti. Così è stato in Italia col referendum oppositivo ex art. 138 Cost. nel giugno del 2006. Con esso si è salvata la Costituzione formale da una radicale trasformazione voluta dal Governo allora in carica, anche se non si è impedito il mutamento della Costituzione materiale già in larga parte avvenuta a livello locale e con nell‘attuale situazione anche sul piano nazionale.
Dunque è decisiva la chiarezza della disciplina sui requisiti di validità del referendum e sui risultati della consultazione. Perché se così non è in regimi iperpresidenzialisti, il presidente non esita a forzare il quadro normativo. In Sardegna, ad esempio, in presenza di una norma sul referendum identica all’art. 138 Cost., la legge Statutaria, battuta al referendum oppositivo (o confermativo), è stata tuttavia promulgata con una modifica presidenziale della formula legislativa della promulgazione, ossia con una abnorme modifica presidenziale della legge sulla promulgazione, altrimenti preclusa. Analoga forzatura si è avuta in occasione dell’approvazione del PPR, quando l’udienza pubblica nella fase formativa del Piano prevista dall’art. 18 della l.r. n. 40/1990 (la 241 sarda), è stata indetta così a ridosso dalla comunicazione da precludere la partecipazione perfino ai comuni.
Questa tendenza ad una forzatura degli esiti della partecipazione ci offre una preziosa indicazione anche sulla portata e sull’effettività delle forme partecipative non direttamente deliberative. I loro esiti saranno piegati laddove esista una volontà predeterminata del leader o dei gruppi di comando. Volete sapere quale sarà l’argomento principe? La scarsa partecipazione. Ora, com’è ben noto, il coinvolgimento delle forme partecipative, anche quando è accettabile, è sempre molto limitato, è sempre affare di minoranze attive, spesso solo intellettuali talora anche sociali. Ed allora? Sentirete dire che gli organi rappresentativi devono tener conto di tutti, anche di coloro che non hanno partecipato. Non solo, l’alto numero dei non partecipanti verrà messo in conto dei voti favorevoli al governo. Cosicché l’esecutivo e il suo capo, comunque vadano le cose, avranno sempre per sé la maggioranza dei consensi.
Dunque istituti partecipativi come il Bilancio partecipato, l’Urban Center, il Town Meeting, le Giurie popolari e simili possono nascere e prosperare solo se i governi e le maggioranze sono propense a renderli vivi e a valorizzarne gli esiti. In caso contrario, o non nascono (come l’Urban Center a Cagliari) o non funzionano come l’Urban Center di Torino. Non si dimentichi che il bilancio partecipato di P. Alegre in Brasile fu voluto dal Partito dei lavoratori (il partito di Lula) che ne fece uno dei cardini del suo programma e della sua azione politica in favore dei ceti popolari. Si volevano spostare risorse verso i quartieri poveri. Nei sistemi iperpresidenziali invece il Presidente o il Sindaco credono d’essere la vox populi e dunque la partecipazione può essere concepita solo conferma della volontà del capo, mai come stimolo o peggio come bilanciamento.
Dunque dobbiamo lavorare a sviluppare la democrazia partecipativa, ma avendo ben in mente ch’essa si sviluppa dove i governanti hanno il gusto della democrazia, dove, dunque, esiste una efficace democrazia rappresentativa. In questo ambiente la democrazia partecipativa si configura come un’integrazione di essa, come un apporto diretto dei cives alla discussione e alla decisione pubblica.

3 commenti

  • 1 a. gregorini
    4 Aprile 2009 - 10:49

    Leggo in questi giorni l’ultimo libro di G. Zagrebelsky in cui, di fatto, sotto altre categorie, viene trattato anche questo tema.
    So che questo sito é “tenuto” da fior di giuristi, per cui riporto sommessamente e con umiltà l’osservazione rischiando anche di essere deriso.
    In esso é citato un brano in cui Alcibiade immagina un dialogo con Pericle. In esso, in sintesi, appare una contrapposizione fra Legge, concepita in prima battuta da Pericle (all’epoca) come la forza della maggioranza dei deboli v/s la minoranza dei ricchi e nobili, e Legge, concepita da Alcibiade secondo una prospettiva di implementazione di forme di “necessaria persuasione”, delle proprie ragioni, da parte della maggioranza a favore della minoranza contraria che, infine, accetterebbe la decisione (nomos) perché cosciente che l’ordine all’interno dello Stato passa anche per i compromessi e qualche volta l’accettazione degli interessi altrui.
    Uso questa analogia per dire che il “nostro Urban Center” può essere visto anche in quest’ottica: l’Agora dove la maggioranza, la casta degli eletti e delle lobbies da essi rappresentate, “persuade” una minoranza portante interessi differenti.
    Le dichiarazioni programmatiche di Cappellacci, Floris e altri sono sempre andate in questo senso. La realtà spesso é altra cosa, valga per tutti l’esempio dell’underground cagliaritana, fatta passare come scelta ottimale del Piano Strategico cittadino, dove invece la maggioranza dei partecipanti al tavolo della mobilità l’aveva contrastata con dovizia di argomenti.
    Occorre convincerli che la politica muscolare non paga ed é, anzi, anacronistica. Quindi promuovere questa iniziativa. Con un gruppo di amici ci stiamo muovendo verso la costituzione di un “comitato a progetto”. Non sarà facile e l’ottenimento di un risultato, come sempre, dipenderà dalle nostre capacità di incidere.

  • 2 Sergio Ravaioli
    4 Aprile 2009 - 16:38

    “… senza popolo l’oligarchia inciucia o si dilania, senza «senato » il popolo diventa passiva base di puro populismo”
    Così Giuseppe De Rita in un bell’articolo sul Corriere di oggi 4 aprile, reperibile qui:
    http://www.corriere.it/editoriali/
    Queste le conclusioni (per chi non volesse leggerlo tutto):
    “…. un Senatus sarà sempre necessario, come insegna la storia. Esso si costruirà in futuro attraverso un recupero della capacità di coagulare interessi, persone, gruppi, istituzioni, perché è la connessione sociale, e non il prezzo come valore, che formerà la nuova classe dirigente. Sarà cosa lenta, ma inevitabile.”
    Grazie, De Rita.

  • 3 M.P.
    5 Aprile 2009 - 10:26

    L’analisi è estremamente corretta, lucida e incontestabile. Offre tanti spunti di riflessione e dibattito, ma ne rilevo solo qualcuno che mi pare importante:
    1. A Soru è mancato totalmente il “consenso democratico partecipato” per sua volontà, per i suoi ottusi propositi di superamento delle “pastoie assembleari e partecipative”;
    2. Aspirazioni e necessità dei singoli, opportunamente sintetizzate e rielaborate, devono costituire la premessa di ogni programmazione e attività politica;
    3. Il corpo elettorale deve percepire la disponibilità all’ascolto da parte degli “addetti ai lavori”, ossia politici, sindacalisti, giornalisti, associazioni e via dicendo; che a loro volta devono promuovere una comunicazione nei due sensi, interattiva, che permetta anche l’educazione-formazione del cittadino stesso;
    4. Il linguaggio di chi ambisce a catturare l’attenzione degli elettori, deve essere oltremodo chiaro, semplice e comprensibile; senza questo la barriera fra politica e società permane immutata (nonostante i grandi raduni);
    5. Così facendo: a) quel 43% di non-elettori scenderebbe parecchio; b) i tifosi di qualunque palla metterebbero i piedi per terra; c) i venditori di fumo verrebbero più facilmente smascherati.

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