Andrea Pubusa
Taglio di oltre un terzo il numero di deputati e senatori: la Camera ha approvato il testo, confermando quello trasmesso dal Senato. Si tratta della prima delle due letture conformi prevista per le riforme costituzionali. La legge potrebbe essere approvata definitivamente entro Natale. “Una tappa storica” ha esultato il ministro per le riforme Riccardo Fraccaro. Il testo è stato sostenuto non solo da M5s e Lega, ma anche da Fi e Fdi (310 i sì), mentre ad opporsi sia stato solo il centrosinistra, Pd, Leu, +Europa e Civica Popolare e Svp (107 no). Con questa maggioranza in seconda votazione scatta però la possibilità di richiedere il referendum confermativo, che rende incerta la sorte della proposta.
La riduzione del numero dei parlamentari non è nuova nell’elaborazione della sinistra. Una proposta di legge datata 1985 e firmata tra gli altri da Rodotà (all’epoca deputato eletto come indipendente nel Pci) mirava non solo a ridurre il numero dei membri della Camera, ma anche a «sostituire il vigente bicameralismo paritario con il monocameralismo puro».
I renziani a suo tempo presero questa proposta a riferimento per attaccare Rodotà e i “parrucconi” del NO. M in realtà non fu difficile provare che si trattava di una proposta diversa negli obiettivi e nel contesto, anzitutto perché si fondava su un sistema elettorale rigorosamente proporzionale.
Come si è detto, due sono i punti fondamentali della proposta Rodotà del 1985: superamento del bicameralismo puro previsto dalla Costituzione del 1948 e riduzione del numero dei parlamentari eletti della residua Camera elettiva da 630 a 500, come oggi prevede la revisione in approvazione alle Camere di marca pentastellata.
Dalla relazione alla proposta, un vero trattatelo di diritto e storia costituzionale (firmatari erano anche altri costituzionalisti come Ferrara e Bassanini), si desume che radicale era la critica della proposta Rodotà alle disfunzioni del bicameralismo puro. Spiegava allora il professore che due Camere gemelle riducono l’efficienza della produzione normativa, diventando solo casse di risonanza di «microinteressi» capaci per lo più di «reiterazione defatigante e distorcente del procedimento legislativo» per frenare le riforme con «tendenze conservatrici». L’abolizione del Senato, del resto, era un obiettivo tradizionale della sinistra, tant’è vero che, nell’assemblea costituente, comunisti e socialisti erano per il monocameralismo. Ma diverso era il contesto politico e istituzionale. E qui emergono le differenze rispetto anche alle recenti proposte renziane, che peraltro non giungevano ad auspicare la soppressione del senato, ma a tarsformarlo in un sorta di “dopolavoro” per consiglieri regionali e sindaci di grandi città.
Una lettura attenta del testo del 1985 fa capire che quei parlamentari della Sinistra Indipendente (Ferrara, Rodotà, Bassanini…) vogliono il monocameralismo innanzitutto per rafforzare il Parlamento («un’unica istanza rilegittimata») nel rapporto dialettico del governo (di cui si intendeva limitare il potere di decretazione d’urgenza), mentre la riforma Renzi combinata con l’Italicum, al contrario, mirava a rafforzare il governo contro il Parlamento (già abbondantemente indebolito: i regolamenti parlamentari sono molto più favorevoli di un tempo all’esecutivo e ormai da anni si legifera quasi solo con decreto).
Secondariamente, come contrappeso alla eliminazione di un ramo del Parlamento, Rodotà nel 1985 propone l’introduzione del referendum propositivo. Di questo nel progetto Renzi non si parlava, mentre si coglie una nuova assonanza con la visione del M5S, che lo propone con separata iniziativa di revisione.
Ancora, Rodotà nel 1985 propone di modificare anche l’articolo 138 sulle procedure di revisione costituzionale «con motivazioni e finalità garantistiche», per rendere più difficile alla maggioranza dell’unica Camera disporre della Carta fondamentale. Nessuna preoccupazione di questo tipo nel testo di Renzi e questa innovazione non compare neppure nelle intenzioni dei gialli.
Infine, ma non per importanza, la proposta Rodotà del 1985 introduceva, sull’esempio francese e spagnolo, una nuova tipologia di leggi, dette «organiche» perché incidono su principi e diritti fondamentali (il catalogo è ampio: dalle libertà fondamentali ai sistemi elettorali, dalle confessioni religiose alla giustizia…). Per queste leggi, di rango «quasi costituzionale», viene prevista una procedura di approvazione rafforzata, per garantire il Parlamento dall’egemonia del governo e i cittadini dallo strapotere della maggioranza parlamentare. Niente decreti legge, niente leggi delega. Obbligo di maggioranza assoluta dei componenti della Camera per l’approvazione. Ancora un’esplicita previsione per limitare il governo. Tutto ciò mancava nella riforma Renzi, che rimetteva tutta la legislazione alla maggioranza parlamentare, senza alcun contrappeso, sminuendio dunque le garanzie.
Vi è poi una differenza di contesto. Il Rodotà del 1985 si muove all’interno di un impianto costituzionale fondato sulla rappresentanza proporzionale (tanti voti, tanti seggi) e su parlamentari prima selezionati da solidi partiti pluralisti, poi scelti dal corpo elettorale con le preferenze, il che li dotava di un certo tasso di autonomia. Un partito del 40 per cento non poteva approvare da solo le leggi, scegliere i presidenti delle Camere e della Repubblica, istituire commissioni d’inchiesta, designare gli organi di garanzia… Inoltre la forma di governo era rigorosamente parlamentare: il governo nasceva in Parlamento e dal voto di fiducia traeva la sua unica legittimazione. Oggi i sistemi elettorali possono dare col premio di maggioranza una forza parlamentare così alta da rendere solo formale il voto di fiducia, modificado sostanzialmente la forma di governo: la tendenza è di dare al premier una legittimazione elettorale sostanzialmente diretta dal popolo. Inoltre è cambiata la posizione e il ruolo dei parlamentari: non sono legittimati dal consenso personale, ma dalla nomina del capopartito (anche i partiti sono meno democratici di trent’anni fa: alcuni a guida personale). I deputati sono meno autonomi nei confronti del governo e del partito: dalla disciplina dipende la ricandidatura. L’importanza di questa differenza di impostazione culturale è testimoniata dal fatto che il testo Rodotà del 1985, pur in un contesto proporzionalista e fondato sulla centralità del Parlamento, vuole «costituzionalizzare» il principio proporzionale, scelta «imposta dal monocameralismo e dalla riduzione dei parlamentari» proprio per evitare dittature della maggioranza.
Se si legge la relazione alla proposta Rodotà, appare a prima vista sforzata e immotivata l’opposizione di forze che si richiamano alla tradizione della sinistra, come, anche del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tuttavia, la modifica dei sistemi elettorali, il rafforamento dell’esecutivo e la scomparsa dei grandi partiti di massa giustificano una certa prudenza. Non esistono, infatti, a monte delle iniziative e delle proposte ampie consultazioni e riflessioni interne alle forze politiche, manca quel filtro democratico connesso alla discussione di massa dei congressi dei partiti della seconda metà del nocevento. I sistemi elettorali tendono a falsare la rappresentanza. Insomma, il contesto della proposta Rodotà è radicalmente mutato, nel senso di una riduzione della democrazia di base e nei partiti. In questo ambiente, proposte spesso formalmente uguali, devono indurre a valutazioni più articolate, con esiti anche diversi, proprio a salvaguardia delle garanzie costituzionali. Da parte PD si è fatta notare la incisiva modifica dei collegi uninominali, che, con la riduzione dei parlamentari approvata, avranno alla Camera in media 404 mila abitanti e al Senato 803 mila. In questo ramo del Parlamento poi la soglia di sbarramento implicita raggiungerà la vertiginosa percentuale del 25%, un record mondiale, che incide negativamente sulle forze minori e sui territori marginali meno popolosi e, dunque, riduce la rappresentanza.
La preoccupazione - come si vede - sta non tanto nel testo pentastellato, non diverso in questa parte dalla proposta Rodotà, anzi meno incisivo perché rimane il Senato, quanto nell’impatto sulla mutata realtà politico-istituzionale e su quella prossima ventura. Da questo punto di vista l’esperienza si sta incaricando di mostrare come revisioni, pur avanzate da forze democratiche, possono dare risultati stravolgenti in un quadro diverso. Così la modifica del Titolo V del 2001 ci ha dato l’autonomia a due velocità, ora richiesta dalle Regioni del Nord (da Lega e da PD insieme per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna). Una modifica del quadro generale che, più che dare maggiori diritti, sembra orientata a creare più forti disparità fra regioni ricche e regioni meridionali, incidendo su campi fondamentali come scuola e sanità.
Ci sono molte ragioni per affermare che la proposta va discussa a fondo, senza pregiudiziali, in vista del probabile referemdum confermativo.
1 commento
1 Aladin
11 Maggio 2019 - 09:16
Anche su Aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=96755
Lascia un commento