I problemi dell’Unione Europea e l’eredità della “parte cattiva” della storia degli Stati membri
Gianfranco Sabattini
Spesso si discute sui valori che hanno dato origine all’Europa; da questo punto di vita, il Vecchio Continente potrebbe essere pensato come costituito da Stati e da popoli antichi; invece, per molti apetti, afferma Mark Mazower (docente di Storia alla Columbia University di New York e autore di “Le ombre dell’Europa”), esso è “nuovissimo”, nel senso che si tratta di un Continente che “nel corso del Novecento si è inventato e reinventato attraverso una trasformazione politica spesso convulsa”.
Il libro di Mazower è entrato nelle librerie italiane nel lontano 2000 e, dopo successive edizioni, opportunamente è ricomparso nel 2019, considerato che le riflessioni svolte dall’autore sulla storia europea del XIX secolo possono aiutare a rendere meglio comprensibili i problemi che affliggono oggi la parte comunitaria del Continente, ma anche a lasciare intravedere le loro possibili soluzioni.
Tra le rovine della Grande Guerra, gli establishment dominanti di allora avevano promesso ai popoli, stremati dal loro coinvolgimento negli eventi bellici come mai era accaduto prima, la realizzazione di una “società più giusta” e l’edificazione di nuovi Stati, laddove fosse stato necessario. Tali promesse venivano fatte da politici portatori di ideologie concorrenti: quella liberale, quella comunista e quella fascista. Gli ideologi liberali offrivano un nuovo mondo, retto da regimi democratici; quelli comunisti promettevano la realizzazione di una società senza classi, affrancata dal bisogno e liberata dalle gerarchie sfruttatrici del passato; quella fascista, infine, prometteva la costruzione di una società “purgata” da ogni elemento ad essa estraneo, perché potesse realizzare il proprio destino attraverso la purezza della razza e la conquista di uno spazio vitale. Ciascuna delle tre ideologie (liberale, comunista e fascista), in concorrenza tra loro, si considerava – afferma Mazower – “destinata a rifondare la società, il Continente e il mondo intero secondo un nuovo ordine”; lo scontro tra di esse per la definizione dell’Europa moderna si è protratta per gran parte del Novecento.
Nel breve periodo, sia l’ideologia comunista che quella liberale hanno fallito nel loro tentativo di costruire il mondo migliore che promettevano: l’esportazione della rivoluzione comunista nel resto dell’Europa ha mancato di realizzarsi, per cui il tentativo di costruire la società socialista è rimasta limitata alla sola Unione Sovietica; d’altra parte, anche l’ideologia liberale non è riuscita a generalizzare l’adozione di regimi politici democratici, in quanto, dopo il Trattato di pace di Versailles, le turbolenze politiche e sociali ad esso seguite hanno portato, nel corso degli anni Venti, all’indebolimento dei regimi democratici costituitisi dopo la fine del conflitto e l’ascesa del fascismo; la conseguenza è stata, all’inizio degli anni Trenta, il radicamento dell’opinione che il futuro dell’Europa occidentale dovesse “incarnarsi nel Nuovo Ordine hitleriano”. Alla difesa della democrazia e delle libertà individuali dell’ideologia liberale, il fascismo contrapponeva una gestione olistica delle relazioni tra i gruppi sociali: all’uguaglianza formale degli Stati, il dominio della razza superiore; al libero commercio, il coordinamento delle economie europee sotto la leadership dello Stato dominante.
Lo scontro di queste ideologie negli anni anteriori al 1940 è andato incontro a ribaltamenti repentini e inaspettati. Negli anni Quaranta (secondo Mazower, vero spartiacque del secolo), l’ideologia fascista ha raggiunto contemporaneamente l’apice delle sue fortune, ma anche il suo crollo definitivo, subendo una “sconfitta totale per mano di quella stessa storia ch’esso presumeva” di riuscire a dominare.
Gli anni Quaranta, a parere di Mazower, sono stati importanti anche per un altro motivo; l’esperienza vissuta dai popoli europei nel corso della secondo conflitto mondiale è valsa a diffondere tra di essi “una crescente stanchezza nei confronti della politica ideologizzata. […] La gente [ha scoperto] le tranquille virtù della democrazia, con tutto lo spazio che lasciava alla privacy, all’individuo e alla famiglia”. E’ stato così che, dopo la fine del conflitto, l’opinione pubblica dell’Europa occidentale ha sostenuto e condiviso la riemersione della democrazia, rivitalizzata dalla vittoria conseguita contro il nazi-fascismo autoritario e aggressivo. A questo punto, però, la risorta ideologia liberale, sottostante le democrazie dell’Europa occidentale, ha dovuto affrontare la competizione, non più dell’ideologia del nazi-fascismo, ma di quella del comunismo, per via del fatto che l’Armata Rossa, una volta distrutti i sogni imperiali del nazismo hitleriano, ha esportato l’ideologia comunista nei paesi dell’Europa orientale sino ad “insidiare” la raggiunta stabilità politico-sociale dei restanti Paesi europei.
L’ultimo atto dello scontro ideologico che ha caratterizzato la storia europea per quasi tutto il XIX secolo è stata la Guerra Fredda; tuttavia, questa, a differenza delle fasi precedenti, non ha comportato, almeno sul Continente europeo, conflitti aperti e devastanti; a meno di circoscritti periodi di crisi nei loro reciproci rapporti, le due superpotenze contrapposte (USA e URSS) hanno condiviso il principio di “coesistenza pacifica” e, sebbene ognuna di esse facesse affidamento sul crollo dell’altra, entrambe hanno accettato per il presente la loro reciproca sopravvivenza, in funzione della stabilità e della pace nel Continente.
Le due superpotenze hanno così dato origine a due sistemi contrapposti, che hanno coinvolto tutti i Paesi riconducibili alle loro rispettive “aree di influenza”, decise, nel 1945, alla Conferenza di Jalta. Per tutto il tempo della Guerra Fredda, i due sistemi hanno continuato a “confliggere” tra loro, offrendo sviluppo economico e prosperità ai Paesi che ne facevano parte; solo uno dei sistemi, però, ha mostrato col tempo di riuscire a affrontare meglio le sfide crescenti del capitalismo globale. Nel 1989, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha avuto termine la Guerra Fredda, quindi la competizione e la conflittualità tra le due ideologie concorrenti, le cui promesse avevano tormentato, a partire dalla fine del primo conflitto mondiale, l’intera Europea.
Ciò che, nel loro contendere, ha caratterizzate queste ideologie è stata l’ambizione – afferma Mazower – “di presentare la propria utopia […] come ‘fine della storia’”, e leggendo il passato sulla base del presente, hanno dato per scontato che essa (l’utopia) dovesse affermarsi in tutti i Paesi europei. A tale ambizione non si è sottratta l’ideologia liberale, affermando che, dopo il crollo del Muro di Berlino, la democrazia fosse il regime politico destinato a radicarsi incontrastato sul suolo europeo, dato che, al crollo del “Muro”, erano riuscite a resistere solo le democrazie dei Paesi dell’Europa occidentale.
A parere di Mazower, per risolvere i nuovi problemi che agitano i rapporti tra i Paesi membri dell’Unione Europea, occorre oggi un approccio alla realtà che non sia più di natura ideologica, forse meno utile come strumento di mobilitazione politica, ma più diretto e “più vicino alla realtà del passato”; deve trattarsi, secondo lo storico della Columbia University, di un approccio che consideri “il presente semplicemente come uno dei tanti possibili risultati che gli scontri e le incertezze dei nostri predecessori avrebbero potuto produrre”.
Ciò equivale a dire che non è più possibile, come è accaduto sino alla fine della Guerra Fredda, considerare il presente solo in funzione di ciò che di “buono” poteva presentare il passato e ignorare, per contro, quanto di “negativo” esso lasciava in eredità delle generazioni successive, facendo affidamento sulla certezza che il fluire del tempo sarebbe servito a “relegarlo nell’oblio”. Cosa significa tutto ciò dal punto di vista dell’attuale situazione di crisi che caratterizza i rapporti tra i Paesi aderenti all’Unione europea, sul piano della realizzazione dell’obiettivo originario dell’integrazione economica e, soprattutto, su quello dell’unificazione politica?
Dopo la riemersione della democrazia e della libertà individuale, al termine del secondo conflitto mondiale, la natura dello Stato ha “cambiato pelle”, nel senso cha da Stato di diritto (secondo l’originaria ideologia liberale) si è trasformato in Stato sociale di diritto (secondo l’ideologia socialdemocratica, una rielaborazione più comprensiva di quella liberale), implicante un suo impegno attivo sul piano delle politiche sociali, da realizzarsi con il supporto della crescita economica attraverso il capitalismo regolamentato. Il nuovo contratto sociale, nato dalla trasformazione della natura dello Stato, si è evoluto, sostiene Mazower, “influenzato meno dalla Guerra Fredda e dagli interventi delle superpotenze, […] e più dalle aspirazioni popolari, dal ricordo del fallimento interbellico e dall’andamento dell’economia”; ma, soprattutto, influenzato “dal doppio successo della piena occupazione e dello sviluppo”: la prima, per aver consentito l’allargamento crescente dello Stato sociale, e il secondo, per aver favorito il miglioramento delle condizioni di vita dei singoli popoli. Nel corso degli anni Settanta, la stabilità politica e il miglioramento delle condizioni di vita sono progressivamente venuti meno, a causa degli shock petroliferi e monetari; con ciò la piena occupazione e le condizioni di un crescente benessere, perseguite durante i “gloriosi trent’anni” postbellici, sono divenute un ricordo del passato.
Nonostante l’aumento della disoccupazione e l’incertezza economica, non vi è stato, però, alcun ritorno agli anni Trenta; ciò perché il “ricostruito ordine democratico” è ha consentito di contrastare con successo i motivi di crisi, per via del fatto che i regimi previdenziali hanno protetto le società dall’insicurezza. Il nuovo contratto sociale, quindi, nato dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nonostante la crisi, non è stato distrutto; gli Stati dell’Europa occidentale, impegnati a realizzare il “progetto europeo”, dopo aver rilevato i limiti del proprio potere, se avessero continuato ad esercitarlo singolarmente, hanno acceduto all’idea di poter difendere meglio le loro condizioni di vita attraverso l’istituzione, nel 1992, del mercato unico europeo. Attraverso questo, all’insegna della sopraggiunta ideologia neoliberista, gli Stati comunitari hanno operato una deregolamentazione dei mercati finanziari e ridotto l’area della presenza pubblica nell’economia, nella prospettiva di poter meglio affrontare, non solo la competizione sul mercato globale, ma anche di poter ridurre il forte debito pubblico consolidato, formatosi con il potenziamento dello Stato sociale, e rilanciare la crescita e la stabilità politica.
Il ricorso degli Stati nazionali all’opzione europea, per riuscire a resistere meglio alle sfide del capitalismo globalizzato, è avvenuto però sulla base di valutazioni politiche diverse. Le forze di destra (conservatrici) hanno rinvenuto nell’istituzione del mercato unico uno strumento per creare “industrie leader su scala europea”, razionalizzare l’eccessiva competizione nazionale e offrire riparo alla competizione globale”; le forze socialdemocratiche, per contro, hanno trovato nel mercato unico “un organo che costituisse o sostenesse lo Stato nazionale in quanto garante del welfare e della solidarietà sociale”. Ciò che ha reso difficile conciliare le due diverse valutazioni politiche riguardanti l’opzione europea è stata, a parere di Mazower, la decisione di completare il mercato interno con l’adozione di una moneta unica, secondo modalità che avrebbero obbligato a “pesanti restrizioni di bilancio” alcuni Stati membri, le cui funzioni di governo sono state, di fatto, “severamente ridotte, ponendo una sfida senza precedenti all’indipendenza nazionale”; ciò perché tali restrizioni hanno causato, per gran parte dei Paesi comunitari che avevano accettato di adottare la moneta unica, il trasferimento del controllo della loro politica economica dai governi nazionali ai funzionari, “non democraticamente eletti”, della Banca centrale tedesca.
Poiché, secondo Mazower, l’economia non è tutto, per resistere alla sfide della globalizzazione, l’istituzione del mercato unico interno non doveva significare che gli Stati nazionali sparissero dall’Europa, né che l’”Europa di sovranità sovrapposte” potesse essere confusa con una in cui gli Stati nazionali confluissero in un’entità più ampia. E’ vero che l’epoca delle autonomie dei singoli Stati era tramontata e che la globalizzazione delle loro economie costringeva ad abbandonare il controllo esclusivo di alcune aree decisionali proprie dei governi nazionali; ma l’abbandono da parte degli Stati europei dell’obiettivo di trovare un’unica definizione di se stessi, con la creazione di un’unica Patria europea, non poteva servire a risolvere i problemi dell’Unione, sin tanto che non fosse stato rimosso quanto di “negativo” gli Stati che la componevano avessero ancora conservato nella loro coscienza storica la nostalgia del passato. Ciò significa che doveva essere eliminato, ad esempio, la pretesa di quegli Stati che aspiravano a conservare la loro “grandeur” del passato; oppure, l’aspirazione di altri ad evitare di perdere le loro posizioni egemoniche a livello mondiale in alcuni settori dell’attività economica; infine, la ferma volontà di altri Stati ancora a conservare la rigidità delle regole poste a fondamento della circolazione della moneta unica, unicamente per tornare ad essere “grandi tra i grandi” del mondo.
Solo abbandonando questi “disperati desideri” (come li chiama Mazower), che ancora alimentano la volontà politica degli Stati membri dell’Unione Europea, potranno essere perseguiti gli obiettivi fissati dai Trattati comunitari originari, conciliando il raggiungimento di tali obiettivi con la diversità delle culture e delle tradizioni che caratterizzano i diversi attori che la compongono.
1 commento
1 Aladin
30 Aprile 2019 - 08:42
Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=96265
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