In Italia il tema dirimente è la questione morale: il PD nella bufera, la Lega al bivio, il M5S incalza

22 Aprile 2019
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Andrea Pubusa

Le vicende nazionali mostrano che, gira gira, il tema dirimente è la questione morale. Si quella questione che Berlinguer sollevò con forza nell’illusione di indicare un terreno su cui si potesse fondare una vasta alleanza di rinnovameento e di sviluppo democratico. Ricordo che Lucio Magri, in un suo brillante intervento, tacciò il segretario comunista di ingenuità: “a livello politico - disse argutamente Magri - la questione morale riduce anziché allargare le alleanze“.  E i fatti di questi giorni mostrano quanto avesse ragione! Il governo giallo-verde resiste a tante tempeste su temi importanti, dai migranti all’economia, alla TAV - ma traballa sull’etica pubblica. Giustamente i pentastellati hanno fatto di questo argomento l’asse non negoziabile della loro azione politica, la Lega - col caso Siri e non solo (si ricordi l’affaire 49 milioni) - mostrano di non essere in fondo diversi dagli altri. Di Maio ha messo fuori De Vito un minuto dopo lo scoppio dello scandalo, Salvini, per depistare su Siri, s’inventa un caso Raggi, che semmai prova la correttezza della sindaca di Roma. Chiedeva verità sul bilancio per ö scongiurare premi di produzione milionari fondati su un bilancio non veritiero.
Ciò che emerge è che Salvini, per penetrare e mettere radici in Sicilia, segue il metodo Berlusconi (già di Andreotti), ossia il reclutamento di personaggi in odor di collateralismo con la mafia. E’ inutile ripetere mille volte l’ovvio: una cosa sono i processi penali, che si fanno in vigenza della presunzione di non colpevolezza, altra è l’etica pubblica, che richiede rigore ben oltre il codice penale, prima e a prescindere da condanne o assoluzioni. E il caso Siri, per quanto sta emergendo, pare inquadrarsi in questo contesto.
Se dunque fa bene Di Maio a tenere il punto, la questione morale, per altro verso, s’inserisce nella vicenda nazionale come ostacolo insormontabile ad un governo senza Salvini. Il PD è squassato dalla Calabria all’Umbria da scandali, che denotano non l’episodicità del malaffare ma il suo radicamaneto nel DNA di quel partito. La questione morale lo rende così non coalizzabile con una forza come il M5S, che del rigore etico fa la propria bandiera. Ha fatto approvare lo spazzacorrotti e ora rilancia con una proposta di legge sul conflitto di interessi.
Berlinguer sollevò la questione nel solco di una tradizione del Movimento Operaio fin dalle origini. La classe lavoratrice non aveva affari da difendere, chi li faceva erano lor signori, i padroni, quindi la pulizia morale era ed è rimasto per decenni il tratto distintivo del partiti della sinistra. Nel PCI si parlava ancora ai tempi di Berlinguer della “diversità” dei comunisti, legata all’essere cittadini e amministratori integerrimi. La breccia si è formata già vivo Berlinguer e si è manifestata nella stagione di “mani pulite”, anche se non nel modo pervasivo che colpì il PSI di Craxi, la DC e poi l’era Berlusconi.
Ora il PD è come il partito di Craxi. Al di là delle altre questioni di merito (è diventato anche liberista), chi lo può annoverare fra i possibili alleati, se si mette al centro la necessità di una profonda riforma morale?
Questo è il punto. Salvini su questo mostra il suo bluff. Ma i pentastellati fanno bene a mantenere dritta la schiena, costi quel che costi.

La questione morale di Enrico Berlinguer

Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981
A 35 anni dalla morte di Enrico Berlinguer, lo ricordiamo ripubblicando questa sua intervista ancora oggi attualissima.

«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia».

 

La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.

Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio…
…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.

 

3 commenti

  • 1 Aladin
    22 Aprile 2019 - 09:18

    Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=95923

  • 2 Gianfranco Sabattini
    22 Aprile 2019 - 15:02

    Caro Andrea ho letto con interesse il tuo articolo sulla questione morale e condivido anche la tua valutazione nel ritenere che essa sia fatto dirimente per il rafforzamento delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Sono però del parere che, nel corso del tempo, quanto Belinguer ebbe a dire nell’intervista concessa a Scalari nel 1981 sia stato travisato, anche da parte dello stesso intervistatore nella sua attività di fustigatore del costume politico Italiano.
    Nell’intervista, Berlinguer affermò che la “questione” era riconducibile al fatto che i partiti avessero occupato “lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo” ed avessero occupato anche “gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali”.
    Pensare quindi che la questione morale, stando alle parole di Belinguer, sia riconducibile unicamente ad un’attività di “distrazione” di risorse pubbliche, significherebbe ridurla a possibile attività di tutti i potenziali “mariuoli” che possono annidarsi all’interno dei partiti operanti in un Paese in un dato momento.
    Non è però cosi, perché, se così fosse, significherebbe confondere il sintomo (la “distrazione” di risorse pubbliche) con la causa (l’”occupazione” dello Stato e di tutti gli altri enti pubblici), lasciando nell’ombra la possibilità che, tacendo della causa reale della questione morale, questa possa darsi anche per merito di possibili “occupanti”.
    Tacendo della distinzione tra sintomo e causa, diventa possibile da parte di alcuni partiti accusare di “distrazione” per ragioni elettorali, i militanti dei partiti avversari, tacendo della probabilità che anche chi accusa, pur mancando di “distrarre”, può essere causa dell’occupazione, ad esclusivo vantaggio proprio, delle istituzioni pubbliche.
    Se si tiene conto della necessaria distinzione tra sintomo e causa della questione morale, si può essere sicuri che anche il partito di Belinguer sia del tutto estraneo all’origine della questione morale della quale tu giustamente denunci essere causa del cattivo comportamento del personale politico? Non è da eludere che anche il partito di chi ha posto per primo il problema della questione morale in Italia, ne sia responsabile; ciò, a causa del fatto che tale partito ha sempre fermamente condiviso il principio del primato della politica su ogni altri aspetto della vita pubblica del Paese; l’aver coltivato rigidamente questo principio ha, a mio parere, aperto la strada che ha portato al radicarsi nella morale pubblica degli italiani, della quasi irrilevanza della “questione”.

  • 3 nadmin
    22 Aprile 2019 - 21:47

    Andrea Pubusa

    Caro Gianfranco,
    grazie per la tua acuta notazione, che da’ pregnanza al pensiero di Berlinguer. In effetti, e’ l’autoreferenzialita’ , l’occupazione del potere la causa originaria del malaffare. Questo vizio rende vulnerabili anche coloro che combattono i “mariuoli”. Questo e’ il pericolo anche per i 5 Stelle, che pongono la questione morale, ma poi considerano le conquiste elettorali come loro privativa e non come un fatto sociale, da gestire in modo aperto.
    Bene la loro battaglia per la moralita’ pubblica, ma gli antidoti non possono essere solo le espulsioni.

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