Massimo Marini
Quando Gheddafi, dalle colonne del NYT, ha affermato che “non ha più senso parlare di due Stati, uno palestinese e uno israeliano, in pace l’uno accanto all’altro”, la maggior parte dei commentatori politici, progressisti anche, ha liquidato l’uscita come irrispettosa boutade antisionista. Ma la verità è che quanto detto dal leader libico, riporta a galla una soluzione rimasta latente, dimenticata, volutamente insabbiata e accantonata per parecchio tempo ma che ora comincia a riemergere non solo tra gli intellettuali palestinesi, ma anche in una certa fetta di ebrei dentro e fuori Israele: la soluzione dell’unico Stato bi-nazionale. Rimane ovvio che la soluzione ottimale sarebbe rappresentata dalla formazione di due Stati sovrani e indipendenti, con il ritiro di Israele dai territori occupati dal ‘67, soluzione che però con il passare degli anni appare sempre più concretamente irrealizzabile per via del progressivo ampliamento delle colonie israeliane in terra di Palestina, che hanno ridotto la Cisgiordania a una serie di cantoni isolati gli uni dagli alti. Il processo di Oslo appare oggi più che mai, all’indomani di “Piombo fuso”, morto e sepolto. Appare evidente oramai anche all’osservatore meno competente e smaliziato, che Israele da una parte finge di negoziare un accordo di pace definitivo con i Palestinesi, e dall’altra continua a costruire all’interno della West Bank - fatto questo evidenziato in modo inquietante da PeaceNow che ha denunciato nel suo “Eliminating the Green Line” come all’indomani di ogni incontro “di pace e di negoziati” tra le due fazioni, aumentino in modo esponenziale le concessioni israeliane di costruzione nelle colonie o nella stessa Gerusalemme Est, individuata come eventuale capitale di uno Stato sovrano Palestinese.
Il progetto dunque di porre fine al conflitto mediante l’istituzione di due entità nazionali confederate, riprende sempre più quota in quanto al suo interno prevede implicitamente il riconoscimento dei diritti nazionali di entrambi gli attori del conflitto, ma allo stesso tempo garantisce quel carattere di democraticità, pace e garanzia dei servizi e dei diritti primari che ad esempio uno Stato palestinese totalmente indipendente non sarebbe in grado di soddisfare. E soprattutto contribuirebbe a dipanare in modo pacifico i nodi di stampo geopolitico, come l’approvvigionamento delle risorse idriche, che rappresentano l’altra faccia del conflitto. Il sottile filo diplomatico sul quale cammina oramai da troppi anni Israele comincia a logorarsi e la comunità internazionale, al di là degli Stati Uniti che continuano a sostenere anche con Obama l’ambigua politica israeliana fatta di vane parole e buoni propositi, comincia a chiedersi con sempre più insistenza “cosa vuole diventare” Israele: uno Stato ebraico su base etnica (sionista appunto), inteso come Stato quanto più demograficamente ebraico possibile, con tuttociò che una posizione di questo tipo determina, ovvero un sostanziale appartheid laddove, nelle colonie, la popolazione israeliana è una minoranza; oppure uno Stato democratico che comprenda anche i territori delle colonie in Cisgiordania, estendendo in questo caso i fondamentali diritti democratici a tutti i cittadini, anche arabi. Ed è proprio la paura che quest’ultima opzione si verifichi più o meno volutamente, addirittura sul campo in modo naturale come sostengono alcuni osservatori internazionali - mediante la progressiva modifica delle rivendicazioni palestinesi, da lotta indipendentista di stampo irlandese a rivendicazione dei diritti civili elementari di tipo sudafricano - a far muovere le segrete stanze della destra israeliana al potere. Perché paradossalmente l’opzione che Israele tutta, dalla destra al governo ai cittadini ebrei, teme più dell’ingombrante vicinanza di uno Stato sovrano arabo palestinese, è la creazione di un unico Stato democratico, la Grande Israele, obbligato a garantire eguali diritti a tutti i propri cittadini. Difatti, stante l’evidente supremazia demografica araba dei territori, in pochi anni (una decina secondo gli studiosi) gli ebrei verrebbero spodestati dai posti di comando amministrativo nella regione. Un incubo da scongiurare con tutti i mezzi, e “Piombo fuso” ce lo ha ricordato. Dunque ci sarebbe da chiedersi se, anche dal lato delle organizzazioni non governative che premono in modo politico dal basso per una soluzione del conflitto, non sia il caso di iniziare a considerare soluzioni praticamente e concretamente realizzabili, come sostiene lo stesso Vittorio Arrigoni - unico giornalista occidentale presente a Gaza durante l’ultima aggressione israeliana - accantonando definitivamente soluzioni non più fattibili come il “due popoli, due Stati” utili solo per dare buona coscienza.
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