Baricco élites, ribellismo, lotta per la redistribuzione

20 Gennaio 2019
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Andrea Pubusa

Si è parlato molto nei giorni scorsi dell’articolo di Alessandro Baricco su la Repubblica dell’ 11 scorso dal titolo “Ed ora le élite si mettano in gioco“. Riassumendo: è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Non è proprio un’insurrezione, non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità. Ossessivamente, la gente continua a mandare - votando o scendendo in strada - un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare. Come diavolo è potuto succedere? Si chiede Baricco.
L’articolo è indubbiamente interessante e scritto con sintesi brillante. Ma, a ben vedere, non dice molto di nuovo a chi segue queste problematiche. Ad esempio su questo blog di questi temi si è occupato spesso Gianfranco Sabattini, che già in un articolo del 2008 dal titolo “Crisi finanziaria e crescita dell’ineguaglianza” delineava le cause del fonomeno. Poco dopo sempre in questo blog l’analisi veniva ribadita da una articolo redazionale dal titolo significativo “Rapacità dei top manager: il carro supercapitalista s’impantana?“, nel quale si mette in luce il punto di rottura, alla cui ricerca va ora Baricco. Quel distacco è riconducibile al momento in cui le élites hanno cessato di curare l’equa redistribuzione della ricchezza. Il solco fra élites e popolo è diventato sempre più profondo a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso cosicché nei primi anni del 2000 anche  in Italia il 68% dei lavoratori viveva con meno di 1.300 euro la mese, il 35% non arrivava neppure a 1.000.
Si dirà: i manager sono sempre stati rapaci, osservavamo in quel post. Ma è proprio così? Ecco la risposta che davamo allora e ripoduciamo pari pari oggi. “Un aspetto singolare del “capitalismo democratico”, quello, per intenderci, degli anni ’50 e 60’, prima che Reagan e la Thatcher gli sciogliessero le briglie, rendendolo di nuovo selvaggio, lo si registra proprio sul versante della dirigenza delle grandi aziende. Anzi, è un aspetto che esalta il contrasto col capitalismo animalesco che abbiamo di fronte oggi. Ben lo ha sottolineato Robert B. Reich nel suo bel libro sul “Supercapitalismo”, il quale osserva che in quegli anni “sul trono delle più grandi corporation americane sedevano persone che non si stancavano mai di ripetere (secondo l’ideale propugnato da Adolf Berle e Gardiner Means decenni addietro in Società per azioni e proprietà privata) che il loro compito era di trovare un equilibrio tra gli interessi di tutti coloro che subivano l’influenza delle corporation, inclusa la gente comune. «Il ruolo di un dirigente aziendale», disse nel 1951 Frank Abrams, presidente della Standard Od of New Jersey, rispecchiando quello che andavano affermando anche gli altri dirigenti, «è quello di mantenere un equilibrio giusto e funzionale tra i bisogni dei vari gruppi interessati: gli azionisti, i dipendenti, i clienti e la gente comune. «Fortune» esortava continuamente i dirigenti ad assumere nella loro professione una prospettiva di respiro nazionale, a diventare “statista industriale”, una veste in cui questi uomini si trovavano perfettamente a loro agio, avendo molti di loro svolto incarichi governativi di alto livello durante la seconda guerra mondiale e poi fatto parte di numerose commissioni, consigli e comitati pubblici (quando “Engine Charlie” Wilson portò con sé al Pentagono un plotone di dirigenti della General Motors, il democratico Adlai Stevenson disse scherzando che i rivenditori di automobili avevano preso  il posto dei politici del New Deal). Questi “statisti aziendali” autoeletti facevano spesso relazioni al Congresso; offrivano generosamente il loro tempo e le loro opinioni su ciò che era meglio per il paese. Sotto la guida di Paul Hoffman, al tempo presidente della Studebaker Corporation, di Bill Benton dell’agenzia pubblicitaria Benton & Bowles e di Marion Folsom della Eastman Kodak, si formò un Comitato che spinse per l’approvazione del Full Employment Act del 1946; un atto che poneva la piena occupazione tra gli obiettivi centrali della politica economica del Paese. Inoltre, si impegnò a favore del Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa e aiutò a farlo accettare al resto del paese (lo stesso Hoffman ne divenne il primo amministratore).
Ma – si dirà – erano altri tempi. Ed è vero. Tuttavia, la situazione attuale non è opera del destino cinico e baro né è insita nel capitalismo. Questo, se ben regolato, può essere un tantino più equilibrato se non proprio democratico. Anche perché, se dominano gli umori animaleschi, gli istinti predatori portano - come ha detto Max Gallo - a superare quelle soglie di diseguagilanza che rimettono in discussione il principio stesso di un sistema che si fonda sulle diseguaglianze. Che la foglia di fico, sistemata dalla Confindustria francese per nascondere la vergogna, non sia il segnale della fine della sfrontatezza se non ancora l’inizio di un’inversione di tendenza?  Beninteso: non per il bene dei lavoratori, ma perché - come ha paventato il ministro olandese delle finanze Wouter Bos - “se continua così, l’opinione pubblica abbandonerà gli imprenditori”.

E’ questo il pericolo che registra e paventa Baricco, il quale si lamenta della rozzezza della reazione della gente e dei suoi leaders. Non devono essere apparsi più garbati i rivoluzionari francesi nel ‘89 o quelli sovietici nel ‘17. La verità è che la gentilezza o la rozzezza della reazione è proporzionata ai caratteri dell’azione, e quella neoliberista non è stata di mano leggera per i lavoratori e i ceti deboli. E non basta - come dice Baricco - la pur necessaria lettura di libri e la cultura, se questa non si traduce nella ricerca e nel raggiungimento di equilibri ragionevoli. E per conseguire questi non basta la lettura di libri e la cultura, ci vuole la lotta (di classe, si può dire?), come ha scritto in particolare Mariana Mazzucato sempre su Repubblica. Costei ha anche osservato come Baricco si comporti allo stesso modo degli intellettuali che critica, banalizzando l’insofferenza delle persone comuni, e così semplifica, e dimentica che il miglioramento della vita di tutti è il risultato di battaglie dal basso e non, grazie a leadership avvedute e ispirate da valori sociali. In fondo, Salvini è l’omologo di Renzi. Con una somiglianza: sono entrambi rozzi nei modi. E una differenza: Renzi con la sua revisione voleva dare veste costituzionale alla preminenza delle élites, comprimendo la rappresentanza a livello centrale (ridimensionamento Senato) e locale (soppressione province), con una drastica restrizione delle autonomie regionali. Un disegno con una matrice ben nota di stampo iperliberista e un mentore “di sinistra”, Tony Blair. Salvini, per fortuna, proposte di revisione formale non ne ha ancora fatto, anche se incide negativamente sul piano della costituzione materiale. Ma - come si diceva - Salvini è l’altra faccia della medaglia di Renzi. Tolto il secondo, non solo nella persona, ma anche nella sostanza, scomparirà anche il primo. Ma, ahinoi!, non pare che questo sia il proposito delle élites ancora al comando in Italia e non solo. Come ha scritto il Fatto quotidiano sabato, c’è un diffuso pentimento, da Junker a Merkel a De Benedetti, da Veltroni e D’Alema a Bersani, da Letta jr. a Gad Lerner a Galli della Loggia. Ma finora senza fatti concreti. Lor Signori sembrano preoccupati di rimanere in sella, di non essere rozzamente disarcionati più che di tornare, se non a un “socialismo democratico”, a un “capitalimo democratico”.

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