Carlo Dore jr.
Abbiamo pubblicato ieri tre articoli che ruotano intorno alla preoccupazione di suscitare attenzione e mobilitazione sulla difesa dell’impianto costituzionale dallo svuotamento che avviene in via di fatto, con le condotte degli organi costituzionali. La situazione è contraddittoria. Ci sono i negativi effetti di un’azione del Ministro Salvini, che alimenta umori incivili e razzisti, contrastanti con lo spirito e la lettera della Costituzione. E ci sono fatti rassicuranti: l’esclusione da parte di Conte d’iniziative governative di revisione costituzionale, le dichiarazioni del Presidente Fico sulla necessità di rilanciare la centralità del Parlamento e la disobbedienza di molti sindaci alla parte più inquietante della Legge Sicurezza.
Ora, la neutralizzazione di Salvini è rimessa anzitutto a scelte politiche generali che consentano esecutivi senza Lega e destre, ma a tal fine è decisiva anche la mobilitazione popolare, che, tuttavia, per essere credibile non deve fare di tutta l’erba un fascio. Per capirci, le impostazioni che riecheggiano la vecchia tesi del socialfascismo non portano da nessuna parte. Occorre sparigliare gli attuali equilibri di governo per crearne nuovi limpidamente democratici. In mancanza, il male che vogliamo eliminare risulterà minore di quello che verrà.
In questo dibattito complesso, con l’articolo che segue, interviene Carlo Dore jr., il quale mette in guardia dall’erosione silenziosa della Costituzione e chiama alla mobilitazione generale.
Le riflessioni contenute nel recente editoriale di Gustavo Zagrebelsky – relative alla vena di “tribalismo” che, insinuandosi nelle viscere della società italiana, ha finito col mettere in discussione il modello di democrazia delineato dalla Carta Fondamentale – acquistano ulteriore attualità alla luce delle modalità di approvazione della legge di bilancio, con il Parlamento costretto ad approvare “a scatola chiusa” l’atto normativo innervante le linee della politica economica del Paese, e le opposizioni (in gran parte identificabili nelle stesse forze impegnate, solo due anni or sono, a segnalare l’incompatibilità tra i tempi lunghi delle dinamiche parlamentari e l’efficientismo delle democrazie decidenti) chiamate a denunciare la lesione delle prerogative delle Camere.
Una nuova attualità, figlia illegittima di un interrogativo proposto con forza da quei settori dell’area democratica che tuttora individuano nella Costituzione la via maestra del proprio agire: lo “strato” della Carta, i principi in essa contenuti e gli apparati preposti a garantirne l’attuazione trovano ancora un riscontro nei valori condivisi dal substrato sociale su cui la Carta stessa si innesta?
Ad una prima analisi, la risposta al quesito appena formulato non può che essere positiva: negli ultimi dodici anni, sono stati proposti due progetti di revisione costituzionale di fatto qualificabili alla stregua di attacchi frontali all’impianto complessivo della Costituzione, ad opera di maggioranze di diverso orientamento le quali, animate dalla stessa idiosincrasia verso il sistema di garanzie in esso contenuto, di fatto proponevano il superamento della democrazia parlamentare a favore di una sorta di una sorta di autoritarismo a bassa intensità, imperniato sullo svuotamento delle prerogativa del Parlamento e la consacrazione a livello normativo della figura del primus supra pares.
In entrambe le occasioni, gli attacchi frontali a cui si è fatto cenno non hanno superato le colonne d’Ercole del referendum oppositivo, con i cittadini mobilitati per riaffermare l’attualità del compromesso alto raggiunto nel 1948 dai protagonisti della Lotta di Liberazione. Ma se l’esito delle consultazioni referendarie ha messo in sicurezza la Carta dagli attacchi frontali di cui sopra, esso non sembra idoneo a fungere da rete di protezione contro un diverso, ma non meno inquietante, fenomeno: quello dell’erosione silenziosa dei principi costituzionali da parte di forze politiche che – espressione del tribalismo denunciato da Zagrebelsky, e appunto identificabile nell’esaltazione dell’incompetenza, nell’affermazione costante nella cultura del nemico (individuato, a seconda delle convenienze del momento, negli immigrati, nelle istituzioni comunitarie, negli organi di stampa, nei tecnici dei ministeri), nel pervicace ricorso ad un linguaggio aggressivo, utile a solleticare gli istinti più bassi di un Paese in sofferenza – declinano nei fatti una cultura del potere incompatibile con quella a cui sono ispirate le scelte del Costituente.
In questo senso, la ventilata richiesta di impeachment del Capo dello Stato – reo di avere, in occasione della formazione dell’Esecutivo in carica, rivendicato il potere di nomina dei ministri assegnatogli dall’art. 92 – era stato un primo segnale di scollamento tra dato normativo e concreta azione istituzionale; il decreto sicurezza, le vicende della nave Diciotti e le già richiamate modalità di approvazione della legge di bilancio confermano l’erosione in atto: senza mettere (almeno per ora) in discussione l’involucro formale della norma costituzionale, lo strapotere della maggioranza politica contingente sta trasformando la Carta in un simulacro vuoto; lo strato costituzionale, in altri termini, viene silenziosamente eroso dal tribalismo che esonda da certi ambiti del substrato sociale.
L’interrogativo di partenza assuma allora un ulteriore, e più specifico rilievo: di quali mezzi dispone l’area democratica, per riaffermare ancora una volta l’attualità dei principi della Costituzione? In cosa può risolversi quella “resistenza civile” a cui fa appello l’editoriale di Zagrebelsky? La risposta non può che dipanarsi su due diversi piani: da un lato, questa resistenza civile deve tradursi in una rinnovata fiducia in quelle istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Magistratura), le quali hanno dimostrato di saper preservare la loro indipendenza anche dinanzi ai desiderata dei depositari diretti o indiretti del potere politico in questa delicata congiuntura storica. D’altro lato, questa esigenza di reazione non può che essere canalizzata in una nuova mobilitazione, analoga a quella che ha ispirato il voto del 2016, a difesa del modello di democrazia delineato dalla Carta, nella consapevolezza del fatto che l’erosione silenziosa perpetrata dalle forze espressione del tribalismo sociale non è meno pericolosa, per la sopravvivenza di quel modello, degli attacchi frontali di cui lo stesso è stato oggetto nel recente passato.
2 commenti
1 Aladin
4 Gennaio 2019 - 10:03
Anche su AladinpensieroNews: http://www.aladinpensiero.it/?p=91733
2 Mattia Argiolas
4 Gennaio 2019 - 13:22
Riflessione del dott. Dore Jr. incontestabile su un piano giuridico. Non si può tuttavia prescindere da una variabile determinante che è il potere mediatico.
Da un lato è pur vero che i tradizionali poteri e i meccanismi di revisione costituzionale sino ad ora sono stati idonei a tutelare le basi fondamentali su cui poggia la carta, tuttavia se i referendum hanno svolto con successo il ruolo di filtro alle iniziative di revisione ritengo sia soltanto per motivi politici, ossia l’opposizione diretta a chi quelle modifiche aveva proposto.
In una fase in cui il governo invece ha un forte consenso popolare e il potere mediatico sostiene di fatto (intenzionalmente o non) quel tipo di politiche con messaggi di sostegno diretto o indiretto, delegittima davanti agli utenti gli altri poteri dello stato, aiutando a confermare quel consenso politico, il rischio di un colpo duro e radicale alla carta costituzionale credo sia ben più probabile di quando non si immagini.
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