Gianluca Scroccu
Una settimana fa la messa in onda della fiction “Pane e Libertà”, biografia della vita di Giuseppe Di Vittorio, ha avuto il riscontro di milioni di telespettatori. Una bella notizia, in tempi in cui il mezzo televisivo si distingue per la piattezza della proposta tanto delle reti Rai che di quelle Mediaset. Se il ruolo della televisione nell’unificazione linguistica è stato messo in evidenza da diversi studi, oggi sarebbe più giusto evidenziare la centralità del messaggio omologante televisivo che ha rappresentato uno dei canali fondamentali dell’affermazione del berlusconismo (su cui la sinistra è stata assolutamente deficitaria, essendosi limitata alla mera logica spartitoria). Ma torniamo a Di Vittorio. Certo nello sceneggiato non mancavano ingenuità ed errori anche evidenti: ad esempio perché, come ha ben messo in evidenza Carlo Loiodice su Carmillaonline, cambiare in Rubino il cognome dei principali avversari del grande sindacalista, quando invece il vero nome era quello di Giulio e Giuseppe Caradonna, latifondisti agrari di Cerignola e tra i più violenti esponenti fascisti? O ancora, perché far vedere la scena di un Togliatti che nel 1921 fa la tessera al Deputato Di Vittorio dentro Montecitorio? Resta il fatto che abbiamo assistito ad un evento veramente importante. Perché oggi molte più persone, e giovani, conosceranno la figura di un uomo così importante della sinistra italiana così ben interpretato da Pierfrancesco Favino.
Peppino, come lo chiamavano i compagni, aveva assaporato le ingiustizie tremende patite dai “cafoni” senza diritti, che si spaccavano la schiena lavorando nei campi dei latifondisti per un misero tozzo di pane con un goccio d’olio; aveva capito la centralità dello studio anche per i braccianti e gli operai, perché senza la conoscenza sarebbe stata sempre più forte la discriminazione di classe; aveva intuito la centralità dell’unità sindacale e della collaborazione tra lavoratori, social comunisti e cattolici, quale canale fondamentale di emancipazione. E tutto questo senza rinunciare alla propria autonomia anche rispetto al Partito Comunista, del quale non esitò a criticare le scelte come, ad esempio, quella tragica e totalmente sbagliata del 1956.
Pensiamo alla fierezza di Di Vittorio arrivato in Parlamento, lui, “cafone tra i cafoni”. Uno scranno che era tribuna da dove far risuonare più forte la voce dei lavoratori e di chi l’aveva votato, e non certo luogo dove crogiolarsi su cospicue indennità, come è prassi consolidata ai giorni nostri; tra l’altro, nella legislatura aperta dopo le elezioni del 1921, Di Vittorio, più che crogiolarsi nel Transatlantico di Montecitorio, fu spesso assente dalla Camera perché impegnato in prima persona con i suoi compagni a difendere le leghe e le case del popolo assalite dai fascisti. I partiti che si opposero al fascismo e che poi contribuirono alla nascita della Repubblica rappresentavano realmente interessi collettivi; oggi invece assistiamo, anche a sinistra, alla vittoria della logica berlusconiana della politica quale affermazione personale. Personalizzazione e presidenzialismo sono diventati il veicolo principali della decadenza della nostra politica. Ed è per questo che non bisogna chiedersi perché i ceti più deboli che stanno subendo maggiormente la crisi economica votino per la destra. E’ nella natura delle cose quando si assiste ad una politica di sinistra che risulta mera affermazione personale, slegata completamente da un disegno generale. Oggi domina la vendita del candidato come prodotto (estetico o clientelare) che deve essere acquistato, al di là del suo effettivo valore o delle competenze, dall’elettore consumatore. Eletti che non possono uscire dalla giostra e quindi devono preoccuparsi prima di tutto di assumere atteggiamenti che non li facciano andare contro il senso comune imposto dai media. Di Vittorio, oggi, non si sarebbe curato di compiacere certi editorialisti avallando le logiche di quel capitalismo senza regole che ha generato la crisi mondiale; non avrebbe aspettato il 2009 per dire che questa flessibilità introdotta in Italia non poteva funzionare nella completa assenza di un welfare diffuso, intuendo da subito il rischio della nuova declinazione del lavoro e del lavoratore come semplice merce, senza diritti e totalmente assoggettato alle logiche della precarietà.
Ricostruire le forze progressiste oggi è terribilmente difficile perché mancano sia una cultura politica che l’impegno continuo nel quotidiano per cambiare le cose. La vita di Di Vittorio, e la sua voglia di riscatto da situazioni di assoluta ingiustizia sociale, possono però fornirci almeno quell’invito all’impegno per cercare di cambiare le cose.
2 commenti
1 Ni.Imbimbo
25 Marzo 2009 - 21:07
E’ un bel “commento” sia alla fiction, ai suoi pregi e difetti. Ed è da “storico”, giustamente schierato, la ricostruzione della figura di Di Vittorio.
Ma, non solo per evitare sospetti di piaggeria, approfitto del commento all’articolo per esprimere qualche critica a Gianluca (preso in questo caso come affettuoso capro espiatorio): comincio a provare un certo disagio per le critiche (meritate ovviamente) che noi di sinistra facciamo alla sinistra. Ce l’abbiamo nel DNA e io non credo di esserne mai stato esente: ed è ovviamente un elemento di vitalità democratica la critica e l’autocritica. Tuttavia in un’epoca di trionfo egemonico della destra e non avendo idea, come giustamente rileva Gialuca, di come risollevare il ruolo delle forze “progressiste” ( c’è un certa difficoltà a pronunciare la parola non solo comunista o socialista ma neanche sinistra?) mi sembra un inutile e dannoso esercizio infierire sui difetti del mondo politico a cui facciamo riferimento.
2 Gianluca Scroccu
26 Marzo 2009 - 00:47
Caro Nicola,
la tua critica è sensata perchè patrimonio di molti. Ma forse, proprio di fronte allo sfascio che è sotto i nostri occhi e in relazione a quello che sta accadendo nel mondo con la crisi economica, non è il caso di essere spietati per evitare gli errori passati? Se non invertiremo la marcia, se non saremo in grado di comprendere che è in tempi come questi che dobbiamo avere il coraggio di riscrivere radicalmente l’alfabeto delle forze progressiste, lasciandoci veramente alle spalle la politica fallimentare che ha dominato in questi anni, non miglioreremo nulla
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