Gianfranco Sabattini
Piovono da tutte le parti le critiche al reddito di cittadinanza; non del reddito di cittadinanza, non inteso come una delle “misure” del welfare esistente, ma come reddito universale e incondizionato, destinato ad offrire all’uomo-lavoratore una possibile libertà di scelta circa le modalità con cui esprimere il proprio contributo alla formazione del prodotto sociale.
Le critiche provengono da sinistra e da destra, sia pure secondo argomentazioni diverse, ma tutte fondate su una malintesa etica del lavoro; quelle provenienti da posizioni di destra riflettono normalmente valutazioni conservatrici, com’è, ad esempio, quella formulata da Luigino Bruni in “Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto”.
L’Autore non si limita a rifiutare la necessità che, in prospettiva, per le moderne società industriali sia gioco forza istituzionalizzare un “reddito garantito” da corrispondere a tutti i cittadini, a causa delle modalità di produzione proprie dei sistemi economici moderni (aumento continuo della produzione, associato ad una ugualmente continua contrazione dei posti di lavoro, causata quest’ultima da una crescita sempre maggiore della produttività, realizzata attraverso la robotizzazione del processi produttivi).
Con la sua critica conservatrice Bruni va ben oltre: da un lato, finalizzando l’etica del lavoro alla creazione di una “società civile” fortemente connotata in termini di società organica, in alternativa al tipo di società plasmata e trasfigurata dalla logica del profitto capitalistico; da un altro lato, negando, con la riproposizione, all’interno della società civile da lui ipotizzata, del ruolo capitalistico dell’etica del lavoro, col conseguente sacrificio della libertà di scelta del tipo di “attività” che ogni lavoratore titolare del reddito garantito dovrebbe poter scegliere liberalmente di svolgere, proprio per riscattare la propria esistenza dai vincoli restrittivi del “lavoro in fabbrica”.
In sostanza, Bruni analizza e discute la natura dello “spirito” dell’economia del nostro tempo, osservando che esso si è tradotto in un’ideologia, o meglio in una religione profana, prodotta nelle “business school di tutto il mondo”, secondo cui gli strumenti del management d’impresa “dovrebbero funzionare allo stesso modo per le multinazionali capitalistiche e per le comunità di suore, perché si dice, sono tutte aziende e, in quanto tali, sono tutte uguali”. In questo modo, a parere di Bruni, viene veicolata una visione della vita e del mondo, dell’individuo e delle relazioni sociali, plasmata da dogmi, il principale dei quali sarebbe la meritocrazia, che servirebbe a legittimare le disuguaglianze, da cui deriverebbe l’idea che i poveri sono poveri perché sarebbero “demeritevoli e quindi colpevoli, e, in quanto tali, la società non dovrebbe avvertire nessun obbligo morale di assisterli”. La religione del “business” sarebbe entrata nella politica, nella scuola e persino nelle chiese, avanzando “una visione striminzita e rimpicciolita della persona, depotenziata di virtù e motivazioni intrinseche”, facendo di tale visione il fondamento del capitalismo del nostro tempo.
Non casualmente, l’ideologia del capitalismo moderno sarebbe entrata in molti ambiti della vita sociale, riuscendo a riproporre “molti dei codici simbolici che la civiltà occidentale ha nei millenni associato alla vita buona e alla ricchezza, e, paradossalmente molte idee dei suoi critici”; in conseguenza di ciò sarebbe stato inevitabile che le relazioni tra gli individui che compongono la comunità fossero sempre più immerse e gestite secondo la logica delle “business school”, alla quale è stata subordinata la vita privata dei lavoratori. Nelle imprese tradizionali del primo capitalismo, secondo Bruni, ai lavoratori “veniva chiesto molto, ma non veniva chiesto troppo, e soprattutto non veniva chiesto tutto”, in quanto ad essi venivano lasciati determinati ambiti (famiglia, partito, religione, ecc.) nei quali i lavoratori potevano vivere esperienze non meno importanti di quelle vissute nel posto di lavoro.
L’inganno delle moderne organizzazioni delle società capitalistiche sta, a parere di Bruni, nell’uso strumentale di simboli e motivazioni, snaturandoli però, delle fedi; il nuovo capitalismo, infatti, consapevole del fatto che in mancanza dell’attivazione delle motivazioni più profonde dell’uomo, i lavoratori (e tutte le persone in generale) non donerebbero liberamente la parte migliore di loro stessi, spinge le organizzazione d’impresa – afferma Bruni – a chiedere “molto (quasi) tutto ai loro neo-assunti”; ovvero, un impegno quasi totale “di tempo, priorità, passioni, emozioni”. Questa pretesa non potrebbe essere soddisfatta ricorrendo al solo contratto di lavoro e al salario corrisposto; nel tipo di relazione che si instaura tra le organizzazioni capitalistiche e i lavoratori viene chiesta piuttosto una subalternità, che può essere spiegata solo in base al principio religioso del “dono di sé”.
Per ottenere dal lavoratore la quasi totale disponibilità di sé, le organizzazioni capitalistiche, sulla base del contratto, usano lo strumento dell’”incentivo”, col quale controllano e gestiscono le motivazioni esistenziali del lavoratore, al fine di poterle conformare alle proprie finalità; così l’economia e le tecniche manageriali vengono ridotte a strumenti con cui le organizzazioni capitalistiche possono promettere ai lavoratori un “paradiso che non possono né vogliono dare”. Gli esseri umani, però, pur sensibili al miraggio di “incassare” l’incentivo salariale, rispondono prioritariamente “alla propria coscienza, all’onore, al rispetto alla dignità, anche nel mondo del lavoro”; ma, sin tanto che le organizzazioni produttive continueranno a “produrre visioni riduttive degli uomini”, non sarà possibile evitare il permanere di “luoghi del lavoro e del vivere troppo piccoli per quell’animale malato di infinito che si chiama homo sapiens”.
Bruni non ritiene possibile la realizzazione di una visione alternativa a quella offerta dal moderno capitalismo, se non si rivolge l’attenzione “al suo principale dispositivo: la distruzione di beni liberi non di mercato [quali sono quelli connessi al bisogno di comunità] che vengono sostituiti da merci”, con cui si continua ad alimentare, col loro consumo, la crescente penuria dei primi. Il PIL cresce - afferma Bruni – grazie al tentativo del capitalismo moderno di rispondere al “bisogno di comunità” generato dallo stesso mercato; motivo questo per cui, sempre per Bruni, le famiglie, al fine di rimediare alle solitudini generate dalla carenza di comunità, arrivano oggi a spendere in telefoni e canoni internet gran parte del proprio reddito. In questo modo, grazie a questa particolare forma di “distruzione creatrice” di shunpeteriana memoria, il capitalismo sarebbe riuscito a celebrare la grande innovazione sociale del nostro tempo.
Gli effetti più gravi di tale innovazione hanno investito principalmente la comunità e il senso di autenticità derivante dalla consapevolezza degli uomini di appartenervi; questo senso di autenticità, che l’ampliamento della cultura del mercato nel moderno capitalismo neoliberista ha concorso a compromettere, viene ora cercata nelle merci e nei servizi offerti, il cui consumo è diventato il nuovo elemento di costruzione della comunità, dove il rapporto tra le persone è divenuto solo “un effetto collaterale del rapporto di ciascuno con la cosa”. In tal modo, la natura idolatrica del capitalismo moderno avrebbe distrutto la religione, “grazie al consumo del territorio sacro che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo terreno liberato per gli scambi commerciali”; così, i mercati sarebbero “tornati nel tempio”, che starebbe tutt’intero “diventando mercato”, per cui anche il sancta sanctorum starebbe per essere “messo a reddito”.
La distruzione della religione – sostiene Bruni – prima ha comportato la compromissione della comunità e, successivamente, ha trasformato le persone in individui, negando loro di condividere e di custodire insieme qualcosa di importante, privandoli così del senso di appartenenza, ma riempiendoli, a compensazione, di tante cose. Questo svuotamento rappresenta il massimo sviluppo del capitalismo moderno, distruggendo il convincimento che l’accumulazione di beni tramite il lavoro fosse una “benedizione di Dio”. Come conseguenza di ciò, il lavoro avrebbe perso il suo originario significato; per cui i “predestinati” non sarebbero più coloro che “producono lavorando”, con la benedizione di Dio, ma quelli che, lavorando, dispongono dei mezzi per consumare. In questo modo, persino la spirito calvinista del “vecchio capitalismo”, centrato sulla produzione e sul lavoro sarebbe stato smarrito; il nuovo capitalismo, invece, spostando l’asse del sistema economico e sociale dal lavoro al consumo, ha determinato che la comunità lasciasse il posto all’individuo, trasformando sempre più il consumo in un atto individuale, che ha perso progressivamente la sua originaria dimensione sociale, per essere legata alla sfera dell’attività economica.
Secondi Bruni, il culto del consumo, dopo aver prodotto l’impianto antropologico, sociale ed economico sul quale si regge il capitalismo neoliberista, sta lentamente entrando in crisi, per cui diventa importante considerare i cambiamenti indotti dalla fase che il moderno capitalismo sta attraversando, a causa delle “sazietà” del bisogno di consumare. Questa fase, sta infatti lasciando il posto ad un nuovo mercato, dove il l’individuo è destinato a cessare d’essere l’insostituibile protagonista; quello del futuro sarà un “mercato sociale” e non sarà possibile capire la natura dell’impianto antropologico ed economico che caratterizzerà se non si comprendono i cambiamenti che le strutture sociali ed economiche dovranno subire, in conseguenza della “sazietà” dal bisogno di merci, cui sono ora pervenuti tutti i consumatori.
Sociologi, filosofi e futurologi – afferma Bruni – sono giunti “a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno”, che nell’età della primazia della scienza, della tecnica e dell’intelligenza artificiale ci si dovrà rassegnare a “lasciar fuori dal lavoro” gran parte della popolazione in età lavorativa, perché saranno le macchine a lavorare per l’uomo, il quale potrà continuare a vivere grazie alla produttività dei robot, che consentiranno a “tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere”. Altri scenari, più gratificanti – continua Bruni – immaginano una futura organizzazione delle società basata sulla ridistribuzione del lavoro perché, lavorando tutti meno, ciascuno potrà lavorare in migliori condizioni. Per tutto questo, si è pertanto consolidato il convincimento che presto si potrà tornare ad una situazione che, per millenni, ha caratterizzato la vita dell’uomo prima dell’avvento del capitalismo.
Bruni ritiene che, se questa nuova organizzazione sociale fosse l’unica o soltanto quella più probabile, ci sarebbe poco da stare allegri; ma grazie a Dio – a suo parere – “sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello”. Innanzitutto, per conservarsi in una prospettiva meno cupa, gli uomini capiranno che il lavoro, così come si conosce oggi, non è il risultato di una evoluzione spontanea avvenuta nel tempo; esso è piuttosto un’”invenzione” prodotta da “una congiunzione astrale di molti elementi”, quali umanesimo, cattolicesimo sociale, Riforma protestante, movimento socialista, cooperazione, azione dei sindacati e ferite dei regimi autoritari e delle guerre. Grazie all’azione di tutti questi elementi, il lavoro degli uomini ha originato la “più grande cooperazione che la storia umana abbia mai conosciuto”; con la loro attività e “riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri”, i lavoratori hanno creato una rete sempre più vasta di relazioni sociali e produttive, rendendo possibile che le merci e i servizi prodotti per la loro vita fossero il frutto della cooperazione di milioni di persone.
Il mercato è l’invenzione che ha reso possibile lo svolgersi ordinato di questa grande cooperazione, permettendo di assistere anche coloro che, indipendentemente dalla propria volontà, non sono in grado di sopportare il “peso” del lavoro. E’ alla maturazione di questo grande disegno collaborativo che va ricondotto, per Bruni, il “grande e urgente tema delle varie forme di reddito di cittadinanza”. La questione più delicata sollevata da questo tema, però, riguarda il modo di “legare” il diritto-dovere al soccorso, tramite l’erogazione di un reddito garantito, con il diritto-dovere al lavoro, ed entrambi (soccorso e lavoro) alla cittadinanza; una decisione che investe, sostiene Bruni, “due culture che oggi si fronteggiano”.
Una cultura considera come rapporto primario quello che lega il “reddito” di sussistenza alla cittadinanza, mentre l’altra, condivisa da Bruni, considera primario il rapporto che lega il “lavoro” alla cittadinanza; il motivo di privilegiare l’uno o l’atro tipo di rapporto dipende dalla visone che sia ha del lavoro e del bisogno, nella consapevolezza che in “quest’algebra sociale”, se si cambia l’ordine dei fattori, il prodotto sociale cambierebbe moltissimo.
Se si legasse il reddito di sussistenza alla cittadinanza, il lavoro sarebbe ridotto a “mezzo per ottenere un reddito”; al contrario, legare il reddito al lavoro rende più solidale l’intera organizzazione sociale. Ciò perché il lavoro non è solo un mezzo per avere un reddito da consumare, esso è anche cemento della grande cooperazione che. attraverso la società civile, diventa motivo di identità; il lavoro è il veicolo attraverso il quale chi lo compie comunica a tutti chi sia realmente ed è inoltre anche strumento che lega il reddito alla reciprocità, nel senso che la sua fruizione è la gratifica per aver dato in cambio qualcosa da altri desiderata.
Infine, conclude Bruni, legare il reddito al lavoro significa curare la società attuale dalla “malattia” dell’individualismo, attraverso il supporto della società civile chiamata a sviluppare la cooperazione sociale, favorendo la nascita di una nuova stagione in cui oggetto del lavoro cooperativo sia la cura dei beni pubblici, quali possono essere, ad esempio, i beni culturali, artistici, religiosi, turistici e altri ancora, oggi considerati tutti al di sotto della loro “capacità” produttiva.
In conclusione, secondo Bruni, non è vero che il lavoro sia destinato a finire; chi lo afferma, egli dice, sottovaluta l’intelligenza e la creatività degli uomini. Questi, al contrario, nella società post-capitalistica, saranno impegnati a produrre molti più servizi che in passato e, in presenza di un minor numero di catene di montaggio, a volersi bene lavorando in strutture cooperative. Finché ci sarà qualcuno disposto a lavorare per soddisfare i bisogni degli altri, finché la società civile inventerà e sosterrà lo svolgimento di attività per soddisfare i bisogni dell’intera società, il lavoro non cesserà. In questa fase di transizione epocale, sono in molti a predire la fine del lavoro e quindi ad immaginare l’economia funzionante solo attraverso le macchine; ma chi ama oggi il lavoro umano, “non può smettere di parlar bene del lavoro, di dire parole buone, di bene-dirlo”.
Nessuno può erigersi a giudice del modo in cui, in questa fase di transizione, ogni singolo componente della società capitalistica può valutare la natura e la funzione del lavoro dal punto di vista della propria prospettiva valoriale nella società del futuro; ma quanto sostiene Bruni circa il possibile superamento delle crescenti difficoltà del capitalismo moderno (per via della crescente robotizzazione del processo produttivo) attraverso l’erogazione di un reddito di sussistenza ad ogni lavoratore “espulso” dal processo produttivo, non in quanto “cittadino”, ma in quanto “lavoratore”, sembra essere un gioco di prestigio verbale, piuttosto che un’analisi di sostanza riguardo al ruolo e alla funzione che dovrebbero essere assegnati al reddito di sussistenza.
A parte i limiti di un progetto di futuro economico, in alternativa al tradizionale modo di funzionare del capitalismo moderno e legato alla valorizzazione di comparti produttivi marginali (non residuali) quali quelli indicati da Bruni, se il reddito di sussistenza non avrà i caratteri della universalità e dell’incondizionalità, esso non potrà svolgere la funzione (assegnata invece al reddito di cittadinanza correttamente inteso) di consentire il riscatto della libertà di scelta del lavoratore dai vincoli della logica produttiva del primo e del moderno capitalismo; sacrificare questo riscatto. con l’idea di dover ad ogni costo giustificare il ricevimento del reddito di sussistenza con un’attività lavorativa eterodiretta (sia pure di natura cooperativa), è inevitabile la riproposizione di quella condizione che, con l’affermazione del capitalismo, l’etica del lavoro è valsa a giustificare ai danni del lavoratore: ovvero la sua subordinazione alla fabbrica, causa dello smarrimento della sua dignità e della sua identità.
Questa conclusione può sembrare stridente, se correlata alle condizioni economiche e sociali che ancora risultano prevalenti nel mondo di oggi; se però viene giudicata in prospettiva, in funzione del trend proprio del capitalismo attuale, essa diventa uno dei punti di riflessione dirimenti, ai fini di un progetto di società futura che intenda assicurare all’uomo la più ampia libertà di condurre e realizzare autonomamente la propria vita.
1 commento
1 Aladin
11 Dicembre 2018 - 09:55
Anche su AladinNews: http://www.aladinpensiero.it/?p=90976.
Ulteriore riferimento per il dibattito su AladiNews: http://www.aladinpensiero.it/?p=90968
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