Cinque Stelle, il mandato imperativo, la rappresentanza e il trasformismo

18 Novembre 2018
3 Commenti


 

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Massimo Villone, eminente costituzionalista e presidente del nostro Comitato per la democrazia costituzionale, critica - come già ha fatto il suo vice, Alfiero Grandi - il proposito dei 5 Stelle di modificare l’art. 67 Cost. («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») che sancisce il divieto di vincolo di mandato, introducendo qualche forma di temperamento. E’ un dibattito affascinante che attraversa tutto il costituzionalismo moderno ed ha antesignani illustri. Si potrebbe citare Rousseau, ma per venire più vicino a noi si può ricordare che in La guerra civile in Francia Karl Marx salutò la Comune di Parigi del 1871 come l’«araldo glorioso di una nuova società», la forma istituzionale, finalmente rivelata dalla Storia, per una società fondata sul lavoro e sui lavoratori. «La Comune», spiegava Marx, «fu composta dei consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento». Il mandato imperativo era dunque elemento fondamentale della “democrazia socialista”. Non mancava nemmeno una indicazione sullo “stipendio dei parlamentari”: «Dai membri della Comune in giù», sono sempre le parole di Marx, «il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale».
Insomma, Grillo non ha inventato nulla. Sono più di duecento anni che questi temi sono oggetto di riflessione e di battaglia politica.
Detto questo, il vincolo di mandato attualmente è previsto in pochi ordinamenti e in Europa solo in Portogallo. La ratio dell’assenza di vincolo di mandato è molto semplice. «L’articolo 67 della Costituzione non è una copertura al trasformismo politico», ha spiegato a suo tempo l’ex presidente della Corte costituzionale Cesare Mirabelli. «La Carta consente ad ogni parlamentare di ragionare con la propria testa, sempre in nome dell’interesse della collettività. Non vedo come non possa essere lasciata al parlamentare la libertà di scelta personale. Pensiamo agli argomenti etici o alle decisioni sugli eventi bellici. I comportamenti trasformisti non sono legittimati dalla Costituzione, però devono essere le forze politiche a sanzionarli o in ultima analisi gli elettori». Tuttavia, è indubitabile che molti si fanno eleggere e poi disattendono il programma sul quale sono stati eletti. Si consideri che una legislatura, per chi metta nel proprio conto l’intera indennità, consente di sistemare molte cose della propria esistenza. Quindi l’aspetto economico in un movimento che limita i mandati e l’incasso dell’intera indennità è un elemento rilevante, che può indurre in tentazione.
Villone critica il vincolo di mandato perché  “arriva a comprendere l’obbligo dell’eletto di attenersi alle indicazioni o richieste che gli pervengano da soggetti terzi. È questo appunto il nuncius, voce obbediente della volontà di altri”. Tuttavia - osservo - che i “terzi” o “gli altri” sono i dirigenti del gruppo o del movimento nelle cui liste il parlamentare è stato eletto, accettandone evidentemente la disciplina. Ho sempre pensato e penso che - come dice anche Mirabelli - “gli argomenti etici” o le decisioni supreme, come, ad esempio, quelle “sugli eventi bellici” giustifichino il dissenso nel voto. Negli altri casi, benché importanti, credo che la lealtà politica consenta una manifestazione di dissenso, che può essere ferma, senza però tradursi nel voto.
Insomma, anche su questo punto i pentastellatti pongono problemi reali. Si dice che il PCI negli anni ‘50 facesse firmare ai parlamentari delle dimissioni in bianco da depositare in caso di dissenso. E’ una materia delicata, ma combattere il trasformismo opportunistico non è un male. Penso tuttavia che, se si può, si intervenga con ragionevolezza su regolamenti, per esempio lavorando sull’idea di Gustavo Zagrelsky. L’ex presidente della Consulta distingueva fra il cambio di casacca entro i gruppi della maggioranza e quelli addirittura di schieramento, sanzionando la perdita del seggio solo nel secondo caso. Con queste lune, però, non sono favorevole ad alcun ritocco della Costituzione. Tutti quelli fatti finora l’hanno peggiorata nella forma e nel contenuto. Oggi poi ci sono in giro umori per nulla rassicuranti. (A.P). Ecco ora l’articolo di Massimo Villone.

Infuria la tempesta sui dissidenti M5S in Senato. Un comportamento gravissimo, ha tuonato Di Maio. Il condono per Ischia, difficile da camuffare come coda di un passato da addebitare ad altri, ha provocato malesseri profondi. Sono insistenti le voci su espulsioni o dimissioni volontarie con passaggio al gruppo misto. La disciplina di gruppo o di partito è stata sempre un punto di difficile equilibrio nelle assemblee rappresentative.
Ove mancasse del tutto, si aprirebbe una facile via a fenomeni di degenerazione notabilare. Per contro, il dissenso è spesso la chiave evolutiva di un partito o movimento. Ingessare il dissenso può impedire l’aderenza a una realtà mutevole. Paradossalmente, per un soggetto votato al cambiamento negare il dissenso può tradursi in conservazione. Non è un caso che M5S definisca l’eletto un «portavoce». Tale è il nuncius, che è portatore di una esatta volontà del mandante, senza alcun intervento proprio. I giuristi direbbero appunto: una rappresentanza di volontà, non una rappresentanza di interessi. Si potrebbe pensare che è solo un’immagine, mentre rimane da vedere cosa si traduce nella pratica concreta. Ma intanto la troviamo scritta nel contratto di governo, in cui leggiamo al punto 20 che «occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo».
La formula del contratto è ambigua, perché di trasformismo si parla di solito in relazione ai cambi di casacca da parte dell’eletto. Su questo punto, l’ultima modifica del regolamento senato ha già introdotto limiti, anche se degli effetti concreti si può dubitare. Ma quel che conta è che il concetto di vincolo di mandato va ben oltre, e arriva a comprendere l’obbligo dell’eletto di attenersi alle indicazioni o richieste che gli pervengano da soggetti terzi. È questo appunto il nuncius, voce obbediente della volontà di altri.
Bisogna essere chiari su un punto. Questa concezione collide frontalmente con l’art. 67 Cost., che pone il divieto di mandato imperativo. E non si tratta del contrasto con una qualsiasi normetta. In realtà il mandato imperativo nega l’essenza stessa della democrazia rappresentativa, e del concetto di rappresentanza politica che ne è fondamento. Che è appunto rappresentanza di interessi, e non di volontà. Un parlamento non è un’assemblea di condominio, dove i delegati portano il volere dei privati proprietari. È un interprete della sovranità popolare.
Si potrebbe dire che è solo un punto del contratto, e dunque si vedrà. Ma M5S ne ha già introdotto elementi nell’esperienza parlamentare. L’art. 21, co. 2, del regolamento del gruppo senato prevede che sia possibile «sulla base della gravità dell’atto o del fatto, il richiamo, la sospensione temporanea o l’espulsione dal Gruppo di un componente» nel caso di «d) mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli iscritti con le votazioni in rete; e) mancato rispetto delle decisioni assunte dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle». Lo statuto del gruppo camera contiene una analoga norma.
È dunque chiaro che si afferma, in principio, l’obbligo del parlamentare di prendere ordini da un soggetto esterno all’ordinamento della camera di appartenenza. Altra cosa è irrogare una sanzione per aver disatteso la decisione maggioritaria del gruppo stesso. Qui il fine è la funzionalità del gruppo, e non l’obbedienza verso una volontà altrui. E che non sia un mero flatus vocis è provato dalla sanzione di €100000 per «Il senatore che abbandona il Gruppo Parlamentare a causa di espulsione, ovvero abbandono volontario, ovvero dimissioni determinate da dissenso politico». Per fortuna, la norma non deve preoccupare nessuno, neanche chi avesse firmato un’accettazione. Sarebbe infatti un contratto privatistico, nullo per il contrasto a norme imperative e di ordine pubblico, come certamente è l’art. 67 della Costituzione.
Non sono queste regole che potranno accrescere l’appeal di M5S. È bene che le riforme fin qui presentate da Fraccaro non ne facciano cenno. E sarebbe opportuno che per i dissidenti si preferisse la mediazione politica alle soluzioni traumatiche. Non vogliamo parlamentari posti nelle condizioni delle tre scimmiette, che non vedono, non sentono e non parlano. E però votano.

 

 

 

3 commenti

  • 1 Aladinews
    18 Novembre 2018 - 09:26

    Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=90021

  • 2 Tonino Dessì
    18 Novembre 2018 - 10:24

    Facciamo, Andrea, che per questa tornata (almeno per l’intera legislatura corrente), proclamiamo una moratoria di ogni ipotesi di modifica della Costituzione? La macchina costituzionale sta funzionando più o meno regolarmente. Semmai i problemi sono un Consiglio dei Ministri (col suo stesso Presidente) sostanzialmente svuotato delle sue funzioni istituzionali collegiali a favore di un duumvirato e un Parlamento praticamente inerte, in cui, dati i numeri, fatta salva qualche limitata frizione interna all’uno o all’altro gruppo di maggioranza, non si manifesta alcuna dinamica dialettica vivace e creativa, ridotto com’è a mera cinghia di trasmissione di centrali politiche esterne. Ancora una volta, il timore che avanzo da tempo rischia di ripresentarsi nella sua concretezza. La politica conosce sempre di più la frustrazione di non riuscire (per ragioni oggettive, non solo per limiti soggettivi) a incidere realmente su processi economici e sociali la cui materialità risponde a processi interni ed esterni ai singoli Paesi sempre meno dipendenti dalle decisioni pubbliche. Ho persino idea che tutta la saggistica contemporanea in materia non riesca a dar conto adeguatamente del come ciò stia accadendo. Ma resta il fatto che in Italia ogni volta che questa frustrazione emerge, la politica stessa finisca per ripiegare accanendosi sull’unico oggetto che sembra a portata di mano: i meccanismi costituzionali della democrazia. E non per ampliarli, bensì per restringerli. È una sorta di malattia autoimmunitaria. La democrazia impotente attacca se stessa, minando parti dei suoi stessi tessuti. Perciò, non scomodiamo il Marx della Comune. In quel momento il suffragio universale e persino il mandato imperativo erano sia pur non senza ingenuità i punti innovativi di una tematica democratica radicale all’interno di un momento storico rivoluzionario (che però fu sconfitto). Nemmeno Marx fece del secondo punto un obiettivo universale. Del primo invece si, proprio ne Il Manifesto del partito comunista. Ma anche quella era una visione ingenua, o almeno incompiuta. La conquista della maggioranza parlamentare non è affatto, da sola, condizione della rivoluzione socialista. Il perché non riuscì a spiegarlo Lenin nemmeno in Stato e Rivoluzione, che pose l’obiettivo di consentire anche alla cuoca di far parte del governo di un Paese, ma ripiegó, per conseguire quell’obiettivo, sulla strategia del golpe giacobino. Fu Gramsci, invece, a intuire e a spiegare il concetto di egemonia. Ma chiaramente si entrava con lui in una consapevolezza della complessità che non poteva esser più quella della Comune di Parigi. Lasciamo perciò in pace il divieto di mandato imperativo e preoccupiamoci che eccessi di semplificazione non concorrano a spostare sempre più la decisione politica in sedi non trasparenti e non democratiche.

  • 3 aldo lobina
    18 Novembre 2018 - 11:56

    L’art. 67 della Costituzione sottende un Parlamento costituito da teste pensanti e non da burattini. La partitocrazia imperante si è già presa molti spazi democratici con una legge elettorale ancora porcellina e con privilegi inauditi della classe politica, che ne dipende. Quando il cittadino non sceglie direttamente il suo deputato, ma questo viene eletto a seconda della posizione in lista, decisa nelle segreterie, il Parlamento diventa un simulacro di se stesso. Il sistema inglese, uninominale, almeno obbliga i partiti a scegliere bene chi deve contendersi il seggio in una determinata circoscrizione. Esiste una bella relazione tra il rappresentante e i rappresentati nel collegio. Un contatto reale tra deputato e popolo, che manca da noi. La nostra Costituzione, pur riconoscendo ai partiti un ruolo fondamentale nella regolazione della vita democratica, ragionevolmente ha salvaguardato la libertà di ogni singolo delegato, identificato come portatore e interprete di istanze sociali condivise, il cui tradimento eventualmente avrebbe portato alla mancata riproposizione di una sua candidatura da parte dei partiti.
    Se il nostro sistema elettorale dipendesse da una fase preparatoria in cui si misurano i programmi e le persone capaci di attuarli, esso ci restituirebbe qualità che abbiamo perso nel tempo. Ho un’idea della politica, che male si accorda con la democrazia diretta pentastellata, sotto l’egida di piattaforme private, che ne sfornano i risultati: vengono candidati con pochi voti di preferenza ed eletti personaggi che non riuscirebbero a diventare delegati nel loro stesso condominio. Non riconosco neppure utilità di iniziative stile manincheddas (leggi primarias) se non quelle meramente propagandistiche di un partito che tenta di farsi spazio tra i tanti partiti che coltivano l’idea di nazione sarda. Ma queste sono altre storie e devo stare alle regole di un commento sulla questione principale del vincolo del mandato.

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