La Corte costituzionale sanziona il Jobs Act e il decreto dignità sui licenziamenti… ma non basta

10 Novembre 2018
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Andrea Pubusa

Con la sentenza n. 194/2018  la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il criterio per determinare l’indennità di licenziamento nel contratto a tutele crescenti previsto dal c.d. “Jobs Act” e del decreto Dignità. Per il giudice delle leggi, non è il quantum delle soglie minima e massima entro cui stabilire l’indennità per il lavoratore ingiustamente licenziato a porre problemi di legittimità costituzionale, ma il meccanismo di determinazione dell’indennità enucleato dal Decreto legislativo n. 23/2015.
Il meccanismo di quantificazione - com’è noto - prevede un’indennità rigida, non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L’indennità assume, così, i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato. Ma - osserva la Corte - , in una vicenda che coinvolge il lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio; sono invece  molteplici i criteri rilevanti ai fini della prudente valutazione discrezionale del giudice chiamato a dirimere la controversia. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, secondo la Consulta, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, imposta dal principio di eguaglianza. Dev’esser, dunque, il giudice, valutati tutti gli elementi di prova, a stabilire l’entità del risarcimento come si fa in qualunque causa per risarcimento dei danni.
Quindi – conclude la Corte – l’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza e contrastare con il diritto e la tutela del lavoro, sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. La previsione legislativa in questione - dice la Corte - viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea: tale articolo prevede che, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».
E’, quindi, costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del D.L. 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella Legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
La sentenza è importante perché riassegna al giudice un potere che gli era stato irragionevolmente negato: il danno è quello che risulta dalle prove prodotte in giudizio e, dunque, non può essere forfettizzato in anticipo in misura fissa solo in relazione all’anzianità di servizio. Ma non è sufficiente. Occorre reintrodurre l’art. 18. Su questo articolo, data la sua rilevanza generale, voglio tornare per mettere in luce che l’eliminazione del reintegro ha violato e viola non solo la dignità dei lavoratori, ma anzitutto elementari principi di civiltà giuridica. E ancor prima violenta la logica e il senso di giustizia. Per capirci, stiamo parlando del licenziamento, per giusta causa (mancanze) o giustificato motivo (ragioni aziendali, es. diminuzione delle commesse). Volete spiegarmi perché, se risulta in giudizio che la mancanza contestata al dipendente non è stata commessa o non ci sono le addotte ragioni aziendali, il lavoratore - se lo chiede - non dev’essere reintegrato? Risponde a criteri logici una scelta contraria del legislatore? E risponde ad un senso elementare di giustizia?
Ma c’è di più e peggio. Esiste un principio generale del diritto, oltre che di civiltà, secondo cui se il giudice riconosce in capo ad un soggetto un diritto, questo dev’essere, se possibile, specificamente soddisfatto. Se Tizio deve restituire un quadro a Caio e il quadro non è andato distrutto, Caio ha diritto a riavere il suo quadro e non il valore equivalente in danaro (risarcimento). Insomma, l’effettività della tutela, che è principio costituzionale desumibile dall’art. 24 Cost., nel porre la garanzia giurisdizionale a tutela dei diritti e degli interessi legittimi, implica la reintegrazione in forma specifica e non per equivalente ogni qualvolta  questa sia possibile. La soppressione della reintegrazione nel posto di lavoro, quando il licenziamento risulti, davanti al Giudice (e non dinnanzi ad un soviet operaio), sfornito di una giusta causa o giustificato motivo, costituisce dunque una violazione del dettato costituzionale in un principio generale di grande rilevanza. Una legge che impedisca il reintegro infrange il principio di effettività della tutela  e si traduce in un’arrogante prevaricazione nei riguardi del cittadino-lavoratore. Viola l’art. 24 Cost. Favorisce in modo ingiustificato l’imprenditore che ridiviene così il padrone.
Da questo punto di vista, il PD si assunse, a suo tempo, una grave responsabilità abolendo l’art. 18, ma  il M5S e Di Maio, col decreto Dignità, non hanno avuto il coraggio di reintrodurlo. Sono ancora in tempo.

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