Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti

14 Ottobre 2018
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Silvano Tagliagambe

Proseguiamo la pubblicazione dei contributi al Convegno indetto da Costat sul lavoro il 5 scorso con l’intervento di Silvano Tagliagambe. 

Il 5 ottobre è stato presentato il volume Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, curato da Fernando Codonesu, a un anno esatto dal Convegno tenutosi a Cagliari, di cui contiene gli Atti.
La discussione, avviata da un corposo intervento di Domenico De Masi, ha affrontato sotto traccia, grazie soprattutto alle stimolanti riflessioni di Antonio Dessì, il tema del destino del lavoro dell’uomo nell’era della crescente (e inarrestabile) digitalizzazione e globalizzazione. Le ragioni delle inquietudini suscitate da questo quadro generale sono ben note: sulla base di una ricognizione analitica, settore per settore, C.B. Frey e M.A. Osborne nel loro documentato articolo “The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?”, comparso l’anno scorso nel numero 114 della rivista Technological Forecasting and Social Change (pp. 254-280) stimano che circa il 47% dei compiti lavorativi in essere siano automatizzabili nel corso dei prossimi dieci o venti anni.
L’Indagine MGI-McKinsey Global Institute, del gennaio dello scorso anno, valuta il tempo-lavoro che le macchine intelligenti si prevede possano sostituire nell’economia degli Stati Uniti in condizioni di fattibilità tecnica “a tecnologie esistenti”. Il tasso medio di sostituzione del tempo-lavoro viene previsto, per l’intera economia, con un valore piuttosto elevato (49%). Ma, soprattutto, emergono forti differenze tra i diversi settori: la sostituzione prevista arriva fino all’81% del tempo lavoro nelle lavorazioni materiali codificate (in pratica nei lavori di fabbrica che si svolgono in modo programmato e in condizioni prevedibili), tra il 60 e il 70% nel campo dell’elaborazione e raccolta dati (una gran parte dei lavori di ufficio regolati da procedure burocratiche e amministrative). Una quota assai minore di sostituzione (26%) si ha invece per il lavoro di fabbrica poco programmato o che si svolge in condizioni poco prevedibili, e una quota ancora minore (intorno al 20%) per i lavori di relazione, creativi o dal forte contenuto decisionale. Minima (9%) è la sostituzione prevista per le attività di gestione delle persone.
In ogni caso il dato che emerge è che il lavoro delle macchine tende a sostituire sempre più il lavoro dell’uomo, con effetti ormai visibili a occhio nudo sulla possibilità di trovare un’occupazione, stabile o occasionale che sia, soprattutto (ma non solo) da parte dei giovani.
Le prospettive che emergono da questa situazione sono diverse a seconda delle lenti con le quali le si valuta. Gli ottimisti ritengono che le innovazioni digital driven, quelle che nascono dal saper cogliere in pieno le potenzialità della rivoluzione digitale in essere, in termini di riduzione dei costi e di aumento delle prestazioni direttamente connesse alla tecnologia applicata, non potranno subentrare in toto  alle innovazioni human driven, frutto di proposte e azioni derivanti dalla creatività e dall’intraprendenza umana, che genera valore immaginando nuovi usi (innovazioni d’uso), proponendo esperienze coinvolgenti o realizzando significativi processi di creazione di nuovo significato. A loro giudizio le esperienze riguardanti le relazioni, i legami, le emozioni, la bellezza, il gusto, la contemplazione, il desiderio, l’autenticità, la genuinità, la salubrità, la tradizione, il sogno, la libertà, la fiducia la ricerca della felicità sono di pertinenza esclusiva della creatività umano e disegnano un ampio territorio di produzione di beni materiali e immateriali in cui la macchina non potrà mai sostituirsi all’uomo.
Per questi apologeti della rivoluzione digitale, pertanto, il futuro, prossimo e remoto ci proporrà soluzioni di crescente interazione e collaborazione tra l’innovazione human driven, la quale crea soluzioni di valore unitario più elevato, incorporando nei prodotti e nei servizi elementi intangibili quali design, unicità, emozione ecc., e  la tecnologia digital driven, che svolge il suo ruolo di “moltiplicatore”, perché consente la circolazione e il confronto delle buone idee e delle informazioni utili ad alimentare i processi di creazione del nuovo e di sperimentazione del possibile, utilizzando le conoscenze di un vasto circuito sociale ed economico, messo in rete dalla comunicazione digitale. In questa funzione, il digitale rende conveniente la scelta della open innovation, rivolta ad utilizzare al massimo le conoscenze in possesso di altri, riducendo i costi e aumentando il valore della creazione e sperimentazione dei nuovi prodotti e dei nuovi processi. Da questa interazione scaturiranno una fusione di “menti” e “strumenti” e l’incremento di interconnessioni tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale destinato non solo a retroagire – tramite un ciclo virtuoso di auto-rinforzo – sulla creazione stessa del valore, ma anche e soprattutto a fungere da amplificatore delle stesse capacità umane, con conseguente aumento (e non decremento) dei processi di innovazione human driven.
Se le cose stessero effettivamente così ciò che si può ragionevolmente ipotizzare è il crescente spostamento del lavoro umano dai mestieri puramente esecutivi, che abbiamo in gran numero ereditato dalla stagione della meccanizzazione rigida, durante la prima modernità, a forme di occupazione sempre più creative, che saranno protagoniste del futuro nel mondo del lavoro e richiederanno nuove forme di apprendimento, che consentano alle persone di usare in modo creativo i linguaggi formali della scienza e delle macchine per generare valore nel mondo reale e siano ancorate ad una visione convinta e condivisa del porto di arrivo verso il quale indirizzare la navigazione. Infatti, come osserva Enzo Rullani nel suo contributo introduttivo a un libro che considero di fondamentale importanza per comprendere i processi in corso e quelli a venire, curato in collaborazione con Alberto F. De Toni (Uomini 4.0: Ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità), pubblicato quest’anno da Franco Angeli, nel mare della complessità e dell’innovazione, contrariamente a quello che a volte si crede, non si può navigare a vista. Se manca la mappa, per tracciare la rotta serve almeno avere un porto di arrivo ideale, una meta che consenta di distinguere, in ogni momento del presente, i venti favorevoli da quelli contrari, in modo da alzare le vele quando le contingenze ci mettono di fronte ai primi, e da fermarsi e resistere quando, invece, arrivano i secondi. Andando così avanti, passo per passo, e con tutti gli adattamenti tattici del caso, lungo un percorso dotato di senso, che punta verso il porto prescelto. Lo scriveva già Seneca: “Non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto”.
De Masi invece, sia nel Convegno dell’anno scorso, rispondendo alle acute domande di Fernando Codonesu, sia nella presentazione degli Atti di quest’anno, è molto meno ottimista riguardo a questa possibile coesistenza di innovazione human driven e digital driven. A suo modo di vedere quest’ultima finirà col subentrare totalmente alla prima, per cui l’umanità è fatalmente destinata ad avviarsi verso una condizione di non-lavoro, che secondo lui va però vista non come una minaccia, bensì come una opportunità che lascia all’uomo uno spazio crescente, da impiegare sia per attività di formazione (che, specialmente in Italia, hanno bisogno di essere accresciute e qualificate), sia per sviluppare condizioni di vita e di cultura sociale che riservino uno spazio sempre maggiore all’«ozio creativo». Come del resto avveniva, a suo giudizio, nella Grecia antica, che ci ha lasciato un patrimonio di cultura sul quale l’umanità sta tuttora prosperando.  Un concetto, questo, su cui De Masi insiste da tempo, prefigurando una liberazione (positiva) dallo stato di necessità a cui l’uomo lavoratore è sempre stato vincolato nella storia passata, che va ovviamente accompagnato da misure di equa distribuzione della ricchezza prodotta dall’automazione digitale, nel presente e soprattutto in prospettiva, usando in modo appropriato il surplus che ne deriva.
Ne scaturiscono due opposte valutazioni del lavoro, che per De Masi è un fardello dal quale possiamo liberarci senza troppi rimpianti, anzi con prospettive sicuramente allettanti per il futuro dell’umanità, che ci ricollegano ai momenti più felici della sua storia, come quello dell’antica Grecia appunto, mentre per i fautori della valorizzazione dell’innovazione human driven si tratta di un processo che, a patto di sapersi trasformare in modo da fornire una gestione efficace della maggiore complessità e di trarne positivamente le enormi potenzialità, non va considerato un semplice fattore di costo, da ridurre al minimo, ma diventa al contrario una risorsa trainante, che accresce non solo la quantità, ma soprattutto la qualità delle prestazioni richieste, innalzando il livello dell’intelligenza umana, individuale e collettiva. Il lavoro come valore, quindi, che nel futuro, prossimo e remoto, se ben indirizzato potrà rendere le persone sempre più capaci non solo di rispondere in modo flessibile alle domande e alle sfide che si presentano loro di volta in volta, ma anche di immaginare e identificare nuove soluzioni, di elaborare progetti innovativi, di alimentare significati e relazioni coinvolgenti, di organizzare esperienze emotivamente ricche, di creare identità partecipate e comunità di senso corrispondenti. Il lavoro, dunque, come strumento per creare valore, esplorando livelli di complessità (varietà, variabilità, interdipendenza, indeterminazione) sempre maggiori.
Ciascuno è libero, ovviamente, di optare per l’una o l’altra soluzione. Ci sono però una constatazione e una domanda, quella che appunto affiorava dal citato intervento di Antonio Dessì, che è impossibile evitare di porsi. Un futuro come quello prospettato da De Masi presuppone una rivoluzione che non è solo economica e sociologica, ma antropologica. La domanda che ne consegue è la seguente: l’uomo è predisposto per una vita puramente contemplativa, fatta di ozio creativo e null’altro? Che nel passato si sia effettivamente data una condizione di questo genere è opinabile (l’interpretazione della vita dell’antica Atene, interamente concentrata nell’agorà, il luogo delle adunanze, il centro politico, religioso, amministrativo e commerciale della città, in cui tutti gli uomini liberi si ritrovavano per prendere decisioni politiche importanti e concludere affari, e totalmente assorbita da essa, è suggestiva ma controversa e messa fortemente in discussione). Il problema però è un altro: le neuroscienze ci stanno dicendo, in maniera difficilmente contestabile, che il motore principale del nostro cervello, ciò che è alla base del suo mirabile funzionamento, non è costituito dalla percezione, come si credeva fino a poco tempo fa, né dal semplice movimento, ma dall’azione, caratterizzata dalla presenza di un progetto e di uno scopo. I processi cerebrali non appaiono, pertanto, semplici artefici di sensazioni e controllori di movimenti: alla base della loro organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di scopo.
Questi risultati hanno condotto a una riformulazione della risposta alla domanda: «a cosa serve il sistema motorio?» Per molti anni la risposta è stata: per produrre movimenti. Oggi sappiamo che questa risposta è errata, o quantomeno parziale. Il sistema motorio non produce solo movimenti ma atti motori e azioni, cioè movimenti dotati di uno scopo, come afferrare un oggetto, o sequenze di movimenti atte a conseguire uno scopo più distale, come afferrare un bicchiere e portarlo alla bocca per bere. Un movimento è una semplice dislocazione di parti corporee, come flettere o estendere le dita di una mano. Un atto motorio consiste invece nell’utilizzare quegli stessi movimenti per conseguire uno scopo motorio, per esempio afferrare un oggetto, manipolarlo, romperlo, posizionarlo, tenerlo ecc.
L’uomo, dunque, sembra fatto per progettare e agire. Quale sarà allora il suo destino se lo si costringe esclusivamente a contemplare e a oziare? Non c’è il rischio che l’ozio prolungato e forzato, anziché sfociare in opere creative e formative edificanti, conduca ad agitazioni insensate, che proprio perché non più progettate e indirizzate verso uno scopo, non più controllate razionalmente e frutto invece della prevalenza del puro istinto e delle passioni, rischiano di avere conseguenze opposte rispetto a quelle desiderabili che ci vengono prospettate? Questo sì è già successo e continua purtroppo a succedere nella storia dell’umanità. E non è davvero desiderabile.

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