Finisce l’era Mistretta: quale futuro per l’Università cagliaritana?

16 Marzo 2009
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Gianfranco Sabattini

Nell’Ateneo cagliaritano l’era Mistretta volge al termine. 18 lunghi anni, caratterizzati da una presenza “magnificamente” autocratica, in linea con gli umori generali di governance delle istituzioni pubbliche nel nostro Paese. Anche qui un uomo solo al comando, dunque, in contraddizione con la natura dell’Università, luogo della scienza e, dunque, si direbbe del dialogo e del progetto coinvolgente.
Ora, si apre un capitolo nuovo ed è auspicabile che, alla luce dei disastri istituzionali ormai evidenti a tutti i livelli, si torni a forme di governo collegiali e partecipate. In vista delle elezioni del Magnifico a maggio, occorre, dunque, avviare la riflessione e il dibattito. Anche perché, dopo la Regione, i due Atenei (Cagliari e Sassari) sono le istituzioni più importanti della Sardegna. La società della conoscenza ha qui il suo fulcro.
Pertanto, ospitiamo volentieri questo intervento del Prof. Gianfranco Sabattini, che offre interessanti spunti per un confronto sul tema.

Nel prossimo maggio tutto il personale avente diritto andrà alla urne per eleggere il successore di Pasquale Mistretta, da diciotto anni Rettore dell’Ateneo cagliaritano. L’occasione è certamente buona per avviare un’utile discussione pubblica sui mali che affliggono attualmente le singole facoltà e per valutare le risposte più convenienti da dare a questi mali. Diversi sono i candidati alla successione: Giovanni Melis (Economia), Raffaele Paci (Scienze politiche), Antonio Sassu (Scienze politiche), Maria Del Zompo (Neuroscienze) e Gavino Faa (Medicina). Tutti, da tempo, nei rispettivi siti elettronici, danno ampia prova di disponibilità ad aprirsi all’opinione pubblica, in particolare ai docenti ed agli studenti, per discutere le misure più urgenti da adottare per alleviare i disagi contingenti e più immediati. Su un punto, però, le loro aspirazioni evidenziano una carenza di fondo. Nessuno di essi, infatti, ha mai illustrato il “modello” di riforma dell’Università da ciascuno condiviso; fatto non trascurabile, che consentirebbe, tra l’altro, di valutare meglio le proposte contingenti di cui mostrano di voler essere i portatori.
Sarebbe, perciò, opportuno che su questo punto ognuno degli aspiranti alla successione di Pasquale Mistretta si “dichiarasse”, nella consapevolezza che il governo dell’università non può più costituire materia esclusiva di pochi eletti, come accadeva in passato e come, purtroppo, è sinora accaduto. L’università di oggi è un’istituzione la cui funzione pubblica non è più svolta soltanto in funzione del soddisfacimento diretto di alcune categorie di utenti; il suo referente oggi è l’intera società, non solo perché, in un’epoca di riforme istituzionali che prevedono l’attuazione di un generalizzato decentramento nell’organizzazione dello stato, l’università è destinata a divenire la sede del know how sociale chiamato a rispondere alla soluzione dei problemi del suo più immediato territorio di riferimento, ma anche perché già ora la sua attività ha ricadute su una pluralità di temi trasversali all’intero sistema sociale. Temi che investono, sia il benessere sociale che lo stato di salute ambientale.
I problemi attuali dell’Università cagliaritana sono ora attribuiti alla scarsità delle risorse disponibili e più ancora al loro pessimo uso, in quanto utilizzate per finalità estranee all’arruolamento di un qualificato e capace personale docente. Entrambe queste spiegazioni sono però insufficienti, in quanto mancano di indicare la vera fonte dell’attuale disagio dell’università italiana, in generale, e di quella di Cagliari, in particolare; una fonte riconducibile alle modalità con cui è stato realizzato il riordino dei corsi universitari, tradottosi nell’istituzionalizzazione della cosiddetta laurea-breve. Infatti, l’attuazione della riforma è stata demandata alle singole facoltà, che hanno provveduto a definire i nuovi percorsi didattici non in funzione delle aspirazioni degli studenti, riflettenti gli stati di bisogno sociali ed ambientali, ma in funzione degli interessi di quella parte di docenti che, maggioritaria all’interno delle singole facoltà, ha imposto le sue scelte, prescindendo da ogni reale esigenza riformatrice.
Molte facoltà all’interno dell’Università di Cagliari hanno moltiplicato i corsi di laurea per l’attivazione dei quali si sono avvalse di un corpo docente assai ridotto, con la pretesa di conferire titoli professionali diversi sulla base di programmi didattici pressoché identici. Per fare fronte alla limitata disponibilità di docenti, le stesse facoltà si sono avvalse dei ricercatori anche se vincitori di recenti concorsi (spesso addomesticati) e di altri docenti arruolati a contratto. Tutti indistintamente sono stati gravati di una pluralità di incarichi di insegnamento, con la conseguenza che l’intensa attività didattica (soprattutto per i ricercatori) ha sottratto tempo allo studio ed alla ricerca. Questi sono i motivi per cui le risorse sono state male impiegate a detrimento della qualità della docenza e dell’intensità della ricerca, a favore di un allargamento immotivato del corpo docente, che altra funzione non ha avuto se non quella di concorrere ad ingrossare le schiere contrapposte all’interno dei consigli di facoltà. Il risultato, allo stato attuale, è una inevitabile mediocrità sia dei docenti, che degli studenti, con la responsabilità del degrado unicamente riconducibile ai primi.
Tutto ciò assume un peso ancor più rilevante se si considera che il mondo dell’università è ora in agitazione per i tagli che l’attuale governo, per esigenze di bilancio, ha apportato al suo funzionamento; tra i tagli previsti risaltano quelli destinati a colpire le fasce dei docenti più qualificati (ordinari e associati). La legge n. 180/2008 (che ha recepito sostanzialmente il “famigerato” disegno di legge Gelmini) stabilisce che il turnover di tutto il personale universitario (ovvero la copertura dei posti in organico “liberati” da coloro che vengono collocati a riposo per fine carriera) sia per il 50% non più coperto, che il 30% sia riservato ai ricercatori ed il restante 20% ad altre categorie (amministrativi inclusi) di personale. La situazione che, pertanto, si determinerà a livello di offerta didattica sarà sicuramente grave; tuttavia, nella prospettiva che a questa situazione di crisi del nostro Ateneo si debba necessariamente dare una soluzione in tempi brevi, sorge l’interrogativo su come attivare una procedura idonea allo scopo, senza che risulti condizionata dai molti “lacci e lacciuoli” di natura clientelare, nepotistica e corruttiva prevalsi sinora.
Agli aspiranti ad essere eletti nuovo Rettore non restano allora che alcuni modi per qualificare il loro “programma”. Innanzitutto, dovrebbero dichiarare quale “modello” di riforma dell’università in generale essi condividono; ciò consentirebbe a quanti nel maggio futuro saranno chiamati a votare per il nuovo Rettore un esercizio più responsabile del loro voto. In secondo luogo, dovrebbero dichiarare quali azioni, una volta eletti, intenderanno adottare per contrastare la situazione di crisi corrente dell’intero Ateneo; ciò consentirebbe di verificare in anticipo la coerenza delle azioni proposte con il “modello” di riforma generale condiviso. In terzo luogo, dovrebbero impegnarsi a “gestire” le risorse disponibili attraverso un controllo dei risultati e non più dei processi, ovvero delle modalità con cui le risorse sono utilizzate dalle singole facoltà. In quarto luogo, impegnarsi perché, a livello di Ateneo, sia istituzionalizzata una procedura idonea a consentire, da un lato, il controllo, sulla base di una precisa rendicontazione, dei risultati ottenuti dalle singole facoltà, rispetto agli obiettivi centralmente stabiliti e, dall’altro, a ripartire le risorse dell’Ateneo tra la facoltà in termini inversamente proporzionali allo scarto tra gli obiettivi stabiliti ed i risultati conseguiti. In quinto luogo, infine, anche se non ultimo, impegnarsi ad adottare, sempre a livello di Ateneo, un “codice etico” nel quale sia formulato l’obbligo per le singole facoltà a seguire regole di condotta coerenti con la loro funzione pubblica che le vuole al servizio dell’intero sistema sociale e non al servizio dei singoli docenti; sarebbe questo un modo per impegnare le stesse facoltà a rivedere i loro faraonici ed “interessati” corsi di laurea attraverso il miglioramento dell’offerta didattica fondato sul miglioramento della competenza e del merito del personale docente.

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