Andrea Pubusa
L’affaire Palabanda del 1812 è ricco di supposizioni e di misteri. Tante storie, tante supposizioni, racconti incredibili come quello dell’uomo mascherato presente alle riunioni. Questa nebulosità è aggravata dal fatto che chi si è occupato della vicenda ha tramandato queste storielle senza sottoporle a vaglio critico e senza confrontarle con le fonti. E’ merito di Federico Francioni aver tentato di squarciare questo velo per riportare gli avvenimenti nella loro reale sequenza. E lo ha fatto, fra l’altro, con la scoperta di due documenti eccezionali: due memoriali di Antioco Pabis del 1857, in cui, a quasi mezzo secolo dai fatti, questo dottore in legge, al tempo precettore nella casa di Giovanni Cadeddu, ricorda gli interrogatori a cui fu sottoposto dopo Palabanda. I due documenti fanno giustizia di due delle ipotesi principali su ciò che accade nella notte fra il 30 e il 31 ottobre 1812: la congiura e la rivolta. Il primo elemento che balza agli occhi è che gli inquirenti a due mesi dalla supposta ricolta non avevano in mano alcuna priova. Brancolavano nel buio. Anzi cercavano di costituire anche in modo scorreto prove su circostanze inesistenti. Si vedano in proposito le domande sui movimenti di Giovanni Cadeddu la notte del 30 ottobre 1812. O ancor i tentativi subdoli di incastrare Villahermosa ed altri nobili del suo entourage, il visconte di Flumini e il marchese di San Tomaso. Non ci fu rivolta nanche tentata perché nella notte del 30 ottobre non ci fu alcun movimento. Giovanni Cadeddu non si mosse di casa. Non c’è prova del contrario. Non ci fu congiura perché il tentativo di coinvolgimento del Marchese di Villahermosa è caduto proprio grazie alle deposizioni del Pabis e, a seguito di una pronuncia ufficiale, trasfusa in una carta reale che scagiona il nobile cagliaritano. Sul punto è significativa la modalità dello scagionamento del Villahermosa. E’ Villamarina a convocare e presidere il collegio per attestare l’estraneità del Villahermosa. Evidentemente è stato qust’ultimo a fare richiesta specifica di un’attestazione ufficiale e a volerer che a presiedere il collegio (con a latere il conte di Ruberent e il predidente Tiragallo) fosse proprio il suo rivale Villamarina. E’ lui che ha avviato la manivra ed è lui a doverla definire, sottoscrivendo la carta.
Pabis, oltre che testimoniare sull’estraneità del Villahermosa da casa Cadeddu e dalle riunioni di Palabanda, ci indica le ragioni politiche che escludono l’interesse di Villahermosa ai progetti di Palabanda. Le ipotesi che si agitavano nel club giacobino - dice Pabis - erano filofrancesi o filoinglesi, in ogni caso ostili ai piemontesi, e dunque del tutto al di fuori dalle possibili opzioni del Villahermosa, strettamente legato a Carlo Felice.
Pabis però nega anche la ipotesi della rivolta. Egli ci racconta lo stato del dibattito in senso al gruppo di Palabanda. C’era la speranza di supporto degli inglesi, ossia della replica in salsa sarda della Costituzione siciliana del 1812, imposta proprio dagli inglesi ai Borbone, relegati a Palermo. Non veniva scartata neanche la possibilità di un esito più radicale con l’appoggio francese, specie se Napoleone fosse riuscito a battere l’ultima potenza reazionaria continentale: la Russia.
C’erano però in campo anche altre ipotesi. Muroni, ad esempio, era per una soluzione meno impegnativa di una insurrezione. Questa era troppo costosa - osservava il sacerdote - e quelli di Palabanda non avevano fondi. Potevano permettersi solo di assoltare qualche sicario del Capo di Sopra per far fuori gli esponenti più reazionari dell’entourage dei Savoia. La posizione di Muroni e l’argomentazione posta alla base di essa, sono molto significative, perché ci dicono che nel 1812 quelli di Palabanda esaminavano le varie opzioni possibili, ma non avevano ancora deciso in favore di alcuna di esse, neanche per la insurrezione in quanto sprovvisti di mezzi. Pabis non parla mai di insurrezione in atto, ma addirittura offre elementi per concludere che non si era neppure nella fase del tentativo, ossia nella fase concreta ed univoca dell’organizzazione. La riferita posizionedi Muroni sotto questo profilo è decisiva e non lascia dubbi.
Viene così confermata l’ipotesi che Palabanda fu una montatura e una provocazione. Non che il club di Palabanda non discutesse sulle potenzialità insurrezionali offerte dal quel fatidico 1812, a partire dal malcontento popolare e dagli avvenimenti internazionali. Può darsi anche che si sia ipotizzato un piano di sollevazione e conquista del Castello, ma non si giunse mai neppure alla fase operativa. Le riunioni di Palabanda furono assunte a pretesto, ingigantendone la portata pratica, per una repressione preventiva, orchestrata da Villamarina, e dagli ambienti più reazionari della Corona per far fuori l’ultimo gruppo di combattenti della c.d. Sarda Rivoluzione. A ben vedere era questo l’unico nucleo che poteva ancora ideare e mettere in atto una insurrezione per ottenere quantomeno un ordinamento costituzionale come accadeva in Sicilia o a Cadice proprio in quel 1812.
Infine, nel contesto di questa nostra rievocazione di Palabanda, è rilevante la parte del secondo memoriale, dove Pabis rievoca la latitanza di Salvatore Cadeddu nel Sulcis.
Anche su questo punto, in modo tralatizio e senza verifiche, si è parlato della latitanza in una proprietà sulcitana di Cadeddu. Circostanza, questa, incredibile. Nessun latitante si nasconde nella sua villa di campagna o al mare. Meglio sarebbe consegnarsi direttamente alla gendarmeria, Poi una proprietà lascia tracce documentali. E di una proprietà di Salvatore Cadeddu nel Sulcis non c’è mai stata né c’è traccia.
Altri hanno parlato genericamente di soggiorno del Cadeddu presso amici sulcitani. Pabis invece indica la località (furriadroxiu di Tattinu, oggi in agro di Nuxis), il nascondiglio (la grotta di Conch’e Cerbu), il custode (il capraro Luigi Impera). Circostanze agevolmente verificabili a 200 anni di distanza. Il furriadroxiu di Tattinu esiste ancora, è della famiglia Impera (salva qualche cessione recente), la grotta di Conch’è Cerbu è sempre lì ed è ben nota ai pastori e ai cacciatori del luogo. Non è stato così difficile individuarla e farne luogo sacro per la memoria dei sardi, inaugurando con una manifestazione popolare il “Cammino della Libertà”, che conduce da Nuxis e dal furriadroxiu fino a quella bellissima grotta.
Ecco ora i memoriali di Antioco Pabis, preceduti dalla presentazione di Federico Francioni che li ha scoperti e pubblicato on appendice al suo prezioso volume “Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, Condaghes, 1996.
IV. LETTERA DI ANTIOCO PABIS A FRANCESCO SULIS In questo documento Antioco Pabis, pedagogo in casa di Gio- vanni Cadeddu — condannato all’ergastolo per la congiura del 1812 — anticipa alcuni temi (fra cui le sue peripezie giudiziarie) che poi tratteràdiffusamente nel memoriale pubblicato più avanti. In particolare… risulta abbastanza fondato quanto egli afferma su Stefano Manca di Thiesi, marchese di Villahennosa. cui era stato attribuito un legame più o meno stretto con i cospiratori. In realtà l’aristocratico, come uomo di punta della reazione (così viene presentato da Pietro Martini), non poteva credibilmente inserirsi in uno schieramento all’interno del quale l’antipiemontcsisrno si intrecciava col filofrancesismo o con le simpatie per gli inglesi. La Francia rimaneva pur sempre la terra della rivoluzione e del giacobinismo; Napoleone, poi, era odiato dai Savoia come usurpatore. Quanto all’lnghilterra di allora, era sinonimo non solo di lotta a Bona- parte, ma anche di parlamentarismo e di costituzionalismo: tutto ciò era oggetto di mortale avversione nell’ambiente di Carlo F elice. cui il Villahermosa era strettamente legato. Da sottolineare anche quanto il Pabis scrive di Gavino Muroni : «era opposto» a tutti i partiti. Forse il sacerdote bonorvese, fratello di Francesco (parroco di Semestene e grande agitatore delle campagne sarde), intendeva andare oltre dibattiti e contrasti su una eventuale, futura partnership); della Sardegna con Francia 0 Inghilterra e preferiva insistere sulla discriminante antifeudale, che non doveva essere ben chiara a tutti i congiurati. Le parole della lettera (e del successivo memoriale) sottolineate con puntini dall’autore sono state riportate in corsivo.
[68r] Signor professore gentilissimo. L’oggetto principale dei miei interrogatori si era quello di far risultare la tentata insurrezione, io però nulla ne scrissi, perchè già s’intendeva che quello era il principale oggetto, e tutti ne deposero, ma per quanto Ella desidera saperne la renderò informata. Il mio interrogatorio o per meglio dire la mia esplorazione principiò la notte del 15 gennaio 1813, e durò per lo spazio di due o tre ore, ma nulla si scrisse; l’indimani fu ripresa l’operazione dalle ore otto circa della mattina, e durò circa al mezzo giorno. Attuaro era il notaio Giuseppe Maria Cara. e giudici erano Valentino Pilo, don Constantine Musio, don Giuseppe Gaffodio. ed intervenne pure l’ avvocato fiscale Garau. Mi si domandarono varie cose circa la tentata insurrezione, ed a tutto risposi negativamente, e dissi che io nulla sapevo, né potevo sapere, perchè vivevo separatamente dalla famiglia. Mi si dimandò se in casa Cadeddu dove io vivevo fossero soliti venire Massa Murroni, e dissi che non ci veniva mai, né mai lo viddi in Palabanda. si è come mai vidi venire in casa il visconte Asquer né il marchese di San Tommaso. Mi si dimandò se in casa veniva il professor Zedda, e risposi affermativamente. Mi si (limando qual fosse il motivo. per cui [68v] egli veniva, ed io risposi che il signor Giovanni Cadeddu era tesoriere dell’Università, e siccome i professori in quel tempo non erano pagati, veniva in casa per pregare il Cadeddu, acciò gli realizzasse il mandato. Mi si dimandò se conoscevo il reverendo Gavino Muroni. risposi affermativamente, che lo avevo visto, e parlato, con frequenza perché viveva in casa dell’avvocato Salvatore Cadeddu, e che era un ottimo uomo. Mi si dimandò se in casa ci venivano molte persone, chi queste fossero, e perche’ venivano. Risposi. che con troppa frequenza ci venivano degli studenti dell’Università per portare le loro matricole, perchè il Cadeddu faceva anche da segretaro nell’Università, e per fare i depositi per gli esami. Indi mi si dimandò se avevo visto venire a radunarsi in casa l’avvocato Salvatore Cadeddu, il reverendo Muroni, il professor Zedda e gli altri sopra nominati. Risposi che non c’erano mai venuti. Allora mi fu fatto carico dicendomi che io ero alzato al piano superiore, che avevo bussato la porta, e che non avendomi aperto avevo messo l’orecchio nel bucco della chiave, e che avevo inteso ciò che dicevano… Risposi che io in casa era maestro. e non spia. A questo mi ha detto: Signore sà una cosa, che lei oltre di non esser verace è anche incivile rispondendo… A ciò risposi che dicevo la verità, e la verità voleva essere detta con franchezza. Mi si fecero mille altri interrogatori, ed avendo io risposto a tutto negativamente, venni minacciato nel modo seguente: Signore sa che in questi delitti chi tace si fa reo; risposi [69r] nel modo seguente: Signori tutto questo lo so e l’ho studiato nel presente anno ma io non taccio anzi dico troppo. Dopo che mi aveano incalzato da ogni parte, mi fecero eccitamento dicendomi: Prima è Dio dopo il re ed io risposi troncatamente: Prima è Dio. dopo io. dopo i! re. E come, mi dissero subito. Cosa vuol dir questo? Ed io in spiegazione soggiunsi: Prima è Dio, dopo la mia coscienza e dopo il re. Venni interrogato se sapevo. che il Cadeddu era sortito armato di notte tempo, e che era andato verso i Cappuccini e verso il Carmine: risposi che avevo inteso che alcuni lo videro di notte tempo o verso i Cappuccini, o verso il Carmine, ma che io non credevo nulla. L’attuaro in vece di o scrisse e come se lo avessero visto in uno ed altro luogo, quando io parlai disgiuntivamente, e non eongiuntivamente, e in questo punto abbiamo fatto na disputa non indifferente. Finalmente dopo che risposi negativamente, ed alle risposte affermative aggiungevo il mezzo conciliativo, mi mandarono in San Pancrazio. Mi fu ancora soggiunto, che io avevo visto tutto, e che andavo a perdermi: risposi, che coi miei occhi vedevo io solo, non però gli altri. Il marchese di Villahermosa non vi ebbe parte alcuna è tutto fu una impostura. I dissidi erano se riuscendo l’affare si dovevano dare agl’inglesi ed ai francesi, ed il marchese di Villahermosa non era sciocco da intromettersi in questi partiti: altri volevano mandar via i piemontesi, né anche per questo partito potrebbe egli ingerirsi in tal’affare. A tutti i partiti era opposto il reverendo Muroni: diceva, che per l’insurrezione vi volevano danari, e loro non ne avevano, e sempre era una cosa pericolosa. Egli propose di far venire sicari dal Capo di Sopra, e togliere di vita per esempio il Roburent, il Botta, ed altri, e così se ne sarebbero andati soli, ed il governo avrebbe processato alcuno dei signori di Castello. [69v] Questo era veramente pensare da teologo. Ed aveva egli ragione perchè, diceva, in noi non ci pensano, o credendo che sia tutt’altra persona dei grandi, si procederà contro qualcheduno dei grandi signori… Stando le cose in questi termini, vede bene, che nulla vi aveva da fare il marchese di Villahermosa. Di questo signore non occorre fame menzione alcuna, perchè la famiglia tiene la Carta Reale, colla quale fin da quell’epoca il marchese predetto fu dichiarato innocente. Se desidera qualche altra nozione. di cui possa ricordarmi me ne faccia eccitamento. Sono per anco indisposto: sono oppresso da una fortissima flussione di denti ultimo sfogo, come io credo, della malattia. Mi comandi, e mi creda. Di vostra signoria illustrissima.
Cagliari 30 marzo 1857 Divotissimo servitore ed amico Antioco Pabis
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È un documento senza data e senza firma, ma la grafia è la stessa della lettera precedente. Questa fonte (che abbiamo utilizzato nel terzo saggio di questo volume) offre uno spaccato davvero notevole del sistema inquisitorio e dei meccanismi polizieschi e spionistici che furono messi in moto per colpire i responsabili (veri e presunti) della congiura del 1812. Sono di rilievo innanzitutto gli sprazzi della vita carceraria che si menava nella torre di San Pancrazio, vera Bastiglia sarda (come l’abbiamo definita in un altro nostro lavoro): qui venivano reclusi senza processo (per anni e anni e forse per il resto della loro vita) i cosiddetti “prigionieri di Stato”. «Cadaveri ambulanti»: cosi vengono definiti i detenuti che il Pabis incontra nella cella chiamata la Siziata vecchia (il nome derivava da quelle particolari adunanze, regolate talvolta da un solenne cerimoniale, in cui il viceré visitava San Pancrazio e concedeva la grazia a qualche carcerato). Si vedano anche le pagine in cui viene descritto il tentativo posto in atto dal custode Vincenzo Addis per spingere il Pabis a menzionare il visconte di Flumini, il marchese di San Tommaso e specialmente il marchese di Villahermosa (odiato dal Villamarina): il memoriale stabilisce inequivocabilmente un legame diretto fra questa manovra e l’attività della Regia Delegazione, della quale abbiamo già parlato: essa era composta da Giuseppe Gaffodio, Raffaele Valentino Pilo (nipote del carnefice degli angioiani) e dal relatore Costantino Musio, già accusatore del Sulis. In realtà sappiamo che l’Addis, propriamente, era una creatura del Villamarina. Dal memoriale sembra emergere comunque che gli inquirenti avrebbero fatto di tutto per coinvolgere nell’istruttoria il marchese di Villahermosa. Effetto di un accordo con il Villamarina che voleva cogliere l’occasione al fine di rovinare— e per sempre — il suo rivale? In quel singolare teatro che era la Cagliari dei primi anni dell’Ottocento, percorsa da principi e cortigiani, da nobili e da “mastri” dei gremi, da ricchi negozianti e da torme di affamati, da aguzzini e da vittime, da patrioti e da audaci cospiratori (che non si rassegnavano allo spettacolo di squallido e deprimente servilismo offerto dal ceto dirigente locale), c’era spazio anche per gli atteggiamenti paternalistici: si veda la narrazione dell’incontro fra il Pabis ed il feudatario che gli porge conforto.
Richiamiamo infine l’attenzione sulle pagine che descrivono il calvario di Salvatore Cadeddu, dalla latitanza fino alla cattura e alla pena capitale. [70r]
Dovendo rendere appagati i desideri dell’amico, che me ne ha fatto specialmente richiesta, mi farò un pregio di rif’erirgli come andarono gli affari sulla tentata, o supposta insurrezione del 1812. La notte del 13 Dicembre 1812 così alla mezza notte venne arrestato il fu Giovanni Cadeddu tesoriere era della Regia Università e dopo d’essersi i soldati impossessati della di lui persona vennero a perquisire le stanze, che erano da me abitate in qualità di maestro dei due figli Antonio ora defunto, e Fedele oggi consigliere d’lntendenza giubilato col titolo d’intendente. Prima però d’essere venuti nella casa del detto Cadeddu in cui io vivevo, i soldati fecero perquisizione nella casa del di lui fratello l’avvocato Salvatore Cadeddu [70v] segretaro era della Regia Università e contadore in città, di cui pure si era ordinato l’arresto, e non avendolo trovato in casa perché si era già scappato e messo in salvo, dopo praticato l’arresto del fratello Giovanni fecero una rigorosissima perquisizione della casa sul supposto che ivi si tenessero nascosti il predetto avvocato ed il figlio Gaetano che era delegato di giustizia nella curia di Quarto. Essendo però andati a vuoto tutti gli sforzi e desideri di quei soldati e di quanti altri gli tenevano compagnia se ne andarono portando seco loro arrestato quell’ottimo capo di famiglia compianto da tutti, e sopra tutto dalla gioventù studiosa, perché supplendo da segretaro per il fratello trattava tutti gli studenti senza alcuna distinzione e come propri figli. Allo stesso tempo vennero arrestati l’avvocato Massa Murroni consultore era del feudo [7lr] di Flumini Maggiore, l’avvocato Luigi Cadeddu [figlio] dell’avvocato Salvatore, mastro Pasquale Fanni, il signor Antonio Ciloeco, mastro Potito Marcialis, mastro Salvatore Marras, il di lui genero mastro Agostino Caria ed altri. E qui è da notare, che all’arresto di Giovanni Cadeddu non si procedette, che sino a tanto che non seguì l‘esame dell’avvocato Francesco Garau nativo di San Gavino e domiciliato in Cagliari. Questo signor avvocato si era già assentato unitamente all’avvocato Giuseppe Zedda, e credendo di potergli venire accordata l’impunità, dimandò l’affidamento, e recatosi di nuovo in questa capitale fu esaminato dai tre giudici della Sala di Supplicazione don Constantino Musio, don Raffaele Valentino, don Giuseppe Gaffodio componenti la speciale delegazione; e dopo seguito il suo lungo esame, fu nuovamente spedito con essergli stato prefisso un termine [7lv] per mettersi in salvo, e non gli fu poscia accordata l’impunità, che avea creduto di procurarsi con danno, e colla rovina altrui. Partito nuovamente da questa capitale andò a riunirsi coll’avvocato Zedda per indi procurarsi imbarco dalla parte di Tempio e da nissuno potè sapersi per qual via fossero passati perché ad ambi interessava che non fossero scoperti, per non venire arrestati stante il premio che si era offerto dal governo, per quegli che ne avessero procurato l’arresto. Non ostante ciò fosse stato difficile per gli altri. non lo fu per il nominato Giuseppe Zedda di Genoni, il quale messosi per tal’oggetto in viaggio riusci a ritrovare il suo stretto parente avvocato Giuseppe Zedda unitamente all’avvocato Garau in Mamojada in casa di un rettore, o curato, dove erano arrivati incogniti, o sotto la finta qualità di capi mastri od ingegneri. Appena il professore Giuseppe Zedda [72r] ebbe a sentire che in cerca dei due ospiti si era affacciato il notaio Giuseppe Zedda suo parente, col quale era in grave scissura per affari di famiglia, principiò a temere gravemente, che non fosse ivi andato per arrestarlo. Entrato per tanto nella stanza in cui si trovava lo spasimante professore, ed avendo visto che era tutto smunto, e quasi tremante, gli disse, che deponesse i timori, che le dissensioni di Famiglia per atîare d’interessi non avevano in lui fatto cambiare i vincoli del sangue e che perciò facesse coraggio, mentre lui era andato per salvarlo, e che non lo avrebbe abbandonato fino a tanto, che non lo avesse messo in salvo. Dopo di averlo così incoraggiato si fece fare tutto il racconto del modo, in cui aveva fatto il viaggio, e come avesse l’atto & poter essere ivi giunto salvo stante la ricerca che se ne faceva‘”. [73r] Restò in quella notte il notaio Giuseppe Zedda a dormire nella stessa casa, e l‘indimani i due ospiti dopo di aver ringraziato distintamente il padrone della casa, che gli avea fatto tanta buona accoglienza se ne partirono col notaio Giuseppe Zedda, il quale in compagnia di alcuni suoi servitori gli menò per diverse vie finché giunsero alle montagne di Ovodda. Essendo ivi giunti, il notaio Zedda fece un certo fischio. e subito comparvero tre o quattro uomini armati, ed avendolo visto e conosciuto subito gridarono con ammirazione e gioia: Compare Peppe e che cosa ci avete portato? Un contrabbando rispose il Zedda, e questi sorridendo soggiunsero unu contrabbandu ‘e perta, cioè un contrabbando di carne? Scesero tutti dai cavalli, in cui erano montati, si fecero degli scambievoli complimenti, e si trattennero per qualche [73v] giorno, indi partirono per la volta degli stazi di Tempio, ed ivi guidati (la persona maestra e pratica dei luoghi giunsero sino a certo punto, da cui con facilità e sicurezza poterono essere trasportati a Corsica. Fecero al solito il segnale con una fumata, e subito venne una barca, ed avendo sentito che due dei compagni di barca erano figli del patrone, sul timore, che i due fuggitivi non venissero consegnati a qualche altro bastimento in mezzo al canale, sborsarono la somma convenuta per il trasporto, il notaio Giuseppe Zedda però fece restare in ostaggio uno di detti due figli, da non lasciarsi andare in libertà, se non quando collo stesso barco si sarebbe avuta loro risposta essere già stati messi in salvo. Partirono pertanto in quel momento dalla terra natia, che tanto gli perseguitava, e dopo arrivati a Corsica collo stesso patrone che gli avea trasportati [74r] scrissero d’essere già in salvo, e portata questa lettera al notaio Zedda, questi lasciò andare in libertà, e restituì: al genitore il figlio, che avea ritenuto in ostaggio, e cosi furono messi in salvo, ed il notaio Zedda se ne restituì alla sua patria. E una cosa propriamente d’ammirare, e che allo stesso tempo sorprende, [il vedere come il nemico che più accanito aveva in famiglia, il professor Zedda, sia stato quello, che in modo il più straordinario abbia pensato a [levarlo dalla massima delle afflizioni… Di tutto ciò me ne informò in parte lo stesso notaio Zedda, che mi era confidente ed amico, e la massima parte risulta dagli atti criminali costrutti per delegazione dal Magistrato del Regio Consiglio contro il Zedda dietro a ricorso dei fratelli Cotza di Setzu, i quali gli fecero un capo d’accusa perché avea accompagnato e salvato il professor Zedda, [74v] di qual capo d’accusa il Regio Consiglio d0po vista la piena risultanza non ne fece caso alcuno, quando stante l’inimicizia accanita che passava tra di loro, sarebbe stato più tosto da lodare. Nel mentre che tutte queste cose passavano fuori di Cagliari, e che venne arrestato il Cadeddu, vedendo totalmente cambiate le circostanze della sua famiglia, me ne andai in Iglesias e nel 13 gennaio 1813 dal signor comandante don Giuseppe Porcile mi fu notificato un ordine spedito dal ministro Rossi di dover comparire nella Regia Segreteria di Stato. Nell’immediato giorno 14, momenti prima di suonare il mezzo giorno sono partito da Iglesias in compagnia di Giovanni Antonio Calvia per anco vivente, e dall’oggi defunto mastro Pietro Fenu [75r] e perché il tempo era troppo rigido, ed ingrossati i fiumi, non ci fu fattibile di avvanzare oltre il villaggio di Siliqua, dove in quella notte abbiamo riposato. L’indimani al dopo pranzo siamo arrivati a Cagliari, ed alla sera essendomi presentato in Segreteria fui mandato al signor avvocato fiscale regio: da quello fui rimandato a casa del signor giudice don Raffaele Valentino Pilo, dove insieme a lui trovai i signori giudici don Constantino Musio, e don Giuseppe Gaffodio, e poscia concorse ancora l’avvocato fiscale regio. Si principio la stessa sera la mia esplorazione, e dopo di avermi trattenuto per più d’un’ora e mezzo, mi licenziarono imponendomi l’obbligo di dover comparire alle ore otto di mattina del seguente giorno sedici. Mi presentai all’ora fissatami, si principiò subito il mio esame senza giuramento, che durò sino a mezzo giorno, ed a [75v] quell’ora si sospese l’esame e mi mandarono in carcere in San Pancrazio come testimonio renitente a dire la verità. Nel mandarmi arrestato mi fu detto se volevo andar solo, od accompagnato da ordinanza, dissi che già andavo solo come di fatti fu da me eseguito, e riconobbi che quei signori giudici mi usarono questo particolare riguardo almeno per la mia qualità di pro dottore in leggi e per anco studente nell’Università per compiere il corso di laurea. Arrivato in San Pancrazio fui trattenuto in una delle stanze dal custode sino a tanto, che mi fosse destinata la stanza segreta in cui collocarmi, e fui lasciato solo con un certo ‘che disse di chiamarsi Efisio Cossu condannato ad anni cinque di galera, e poi graziato per anni cinque di carcere perché sapeva la febo-tomia, a cui attendeva essendo in carcere, e fu condannato perché essendo egli nel [76r] Corpo dei dragoni con un colpo di squadrone ne tagliò la mano ad altro dragone. Questo signore, che per altro al tratto mi parea anche gentile, mi diman- dò chi ero e qual era la causa del mio arresto ed io gli risposi che ero il pro dottor Pabis arrestato in qualità di testimonio renitente e ciò per la causa d’insurrezione allora corrente. Al sentir queste parole mi disse, che gli doleva la mia situazione, ma che per mia regola mi preveniva, che il custode Vincenzo Addis era un birbo, uno scelerato, che teneva una spia in ogni camerone, e segnatamente nei due cameroni designati col nome de Turri de mesu e de Turri de basciu vi teneva un certo Boboi Podda, ed un certo Simone Busa, dei quali si serviva per subornare i testimoni, ed assassinare le famiglie di quei disgraziati, che venivano complicati, o per poco nominati in quella causa, e che perciò fossi cauto, [76v] e se volevo fidarmi con alcuno, avessi ciò fatto coi soli Efisio Frau, che si trovava arrestato per la stessa causa, e Tommasico Bartolo, che si trovava arrestato già da sedici e più anni senza che gli fosse stato fatto processo alcuno. Lo ringraziai per simili avvertenze, e nel mentre, essendo venuto il custode Addis, fui per ordine del medesimo traslocato alla stanza la più orrida delle segrete denominata Sa Pappa, dove una volta vi si era ammazzato il boja, come mi fu nel momento significato, e nelle mura vi si vedevano per anco alcune macchie di sangue, che non vennero cancellate forse per farne ricordare l’infame memoria, ed intimidire così quei poveri disgraziati, che colà s’introducevano o per rei, o per testimoni. Come di fatti credo siasi ciò anche fatto per mè, per mettermi in timore, e per l’orrore del carcere, e dei patimenti indurmi a deporre quello che non mi constava, ed aggra [77r] vare innocenti famiglie. In quella segreta vi fu con me rinchiuso ancora un certo Fedele Piciau di Pirri, non reo di grave delitto, e che perciò credo che fosse stato ivi rinchiuso per farmi la spia. Venni per tanto rinchiuso in quell’orrida stanza, dove fui tratenuto per l’intiero spazio di giorni trenta alla sola razione di quattordici oncie di pane ed un poco d’acqua né altro mi fu permesso di portarmi che un piccolo strapuntino ed un capezzale per riposarmi alla notte, ed anche di giorno, perché non avendomi portato alcuna sedia, ero costretto a riposarmi alla meglio che potevo, e tutta la comodità, che potevo avere si era quella di sedermi in alcuni gradini di una scala di pietra per cui si saliva all’ultimo terrazzo della torre di San Pancrazio. A tutti gli incomodi che vi tenevo si aggiungeva la spuzza del barrile comune, non essendovi [77v] comodo alcuno che spargesse fuori delle mura della torre. E tanto per i lunghi patimenti, che per la fame, che mi si fece soffrire sarei già morto, se una provvida, e caritatevole mano non mi avesse sollevato. Non mi si lasciò portare cosa alcuna da mangiare, anzi dopo rilasciato seppi, che il signor Giovanni Cadeddu divideva con me il pranzo. e che qualche amico mi mandò per più volte da mangiare, ma io nulla ricevetti, il che credo d’essermi stato fatto a bell’apposta, perché non volli arrendermi alle pessime insinuazioni del custode. Nei primi giorni che mi trovavo in carcere, e segnatamente nella notte del primo venerdi ad ora un poco avvanzata si presentò il custode Addis, mi fece estrarre dalla stanza segreta, ed in un piccolo ripiano, che vi era, principiò a volermi [78r] ingarbugliare, per indunni a deporre quello che era di suo piacimento. Principiò a dirmi, che io ero un bravo giovine (quando per altro non mi aveva mai parlato, né visto}, e che gli dispiaceva che avessi sofferto tanto. e che il mio patimento sarebbe subito terminato, se io avessi voluto. Io capivo già dove tendessero le sue mire, e facendo il sempliciotto, ed anche il sordo, per cosi fargli alzare la voce, e poter sentire anche Fedele Piciau ciò che mi si diceva, e quelle che io rispondevo, a voce alta gli dicevo, che mi spiegasse bene cosa voleva che io avessi fatto e detto. Mi eccitò ad abbassare la voce, e mi suggerì, e consigliò che avessi deposto contro il visconte di Flumini Maggiore, contro il marchese di San Tommaso, e contro un signore più grande di essi… io già capivo, che mi voleva parlare del marchese di Villahermosa, ma temeva di nominarlo, [78v] ed alle mie repliche non rispondeva altro, solo che già sapevo chi era quella persona, e che oltre di lui in quell’affare vi erano dei parrucconi, volendomi significare, che vi erano delle persone regate. che per altro non mi nominò. Appena finito il nostro abboccamento senza che io gli avessi detto esplicitamente di no, venni nuovamente rinchiuso in quell’orrida caverna e protestai a Fedele Picciau, che si ricordasse, e facesse sempre memoria del colloquio tenuto in quella notte col custode, e come era venuto a subornarmi, per deporre contro persone innocenti, che potrebbe darsi il caso, che in qualche giorno fossimo esaminati in quella materia. L‘indimani mattina fui avvisato alla Regia Delegazione, ed appena presentato alla medesima mi fu detto ex abrupto dal signor giudice Valentino Pilo [79r] uno dei condelegati: Dunque lei è già disposto a dire la verità? Io che capivo d’essere cosi interpellato per relazione fatta dal custode risposi che la verità l’avevo detta una volta, che quello, che si era scritto, e da me sottoscritto, non poteva, né doveva essere smentito né variato in parte alcuna, e che pregavo la Regia Delegazione, acciò non permettesse più oltre a quel custode ubbriacone, anzi lo inibisse di venire a molestarmi, e mi lasciasse in riposo… Dopo brevi interrogazioni, e risposte brevi del pari fui con una ordinanza militare restituito alla mia caverna.. dove per altre due volte venni da lui eccitato, e per un’altra volta fatto presentare alla Deiegazione, essendo però riusciti inutili tutti i tentativi fui lasciato in riposo, ebbi cioè quel riposo, che accordano le carceri e la tomba… Fui per tanto rinchiuso nella segreta surriferita, dove fui tratenuto [79v] per trenta giorni continui senza né anche essere portato a messa alla cappella nei giorni festivi, costretto a coricarmi dalle quattro di sera per non essermi stato né anche permesso di tener lume di candela, e restare coricato sino alle ore otto di mattina anche per evitare il freddo per causa d’una sola feritoia, che vi era a certa altezza senza vetri, e senza finestra. Per lo spazio di circa tre settimane rimasi in quell’orrido stato colla sola razione di quattordici oncie di pane, quale pure non mangiai nei primi due giorni per la totale inappetenza cagionatami dal dispiacere di vedermi carcerato con pericolo di perdere l’anno scolastico, e di perdere quella casa, da cui avevo riconosciuto molta finezza, Se avesse continuato questo stato di cose avrei finalmente dovuto soccombere, ma si presentò un angelo tutelare, che fu appunto il caporale di arti [80r] glieria per nome di guerra La Generala per anco vivente. Si trovava questi in carcere nel camerone denominato Turri da susu per conto del Corpo, per delitto leggiero, e perciò godeva tal qual libertà, era più tosto liberale, giovine di buona grazia. e si avea vinto l’animo del vice custode Pietro Taras di Mamojada. impietositosi questi della mia pessima situazione in un mezzo giorno dopo di avere per molte ore accarezzato, e pregato il Taras acciò al suo nipote non niegasse quella grazia (La Generala lo chiamava sempre per burla col nome di zio) lo indusse dopo di avergli dato vino a profusione ad aprire la porta della stanza segreta in cui ero rinchiuso, ed entrato subito in quella stanza unitamente al mastro Potito Marcialis, al signor Antonio Cilocco cd a qualche altro, di cui ora non mi ricordo, mi disse che avea egli indotto il Taras sul pretesto di farmi bevere una tazza di vino, ma che tanto lui che gli altri suoi compagni avevano tentato [80v] di ciò fare per potermi sollevare, mentre vedevano quanto soffrivo, e pativo. e che erano appunto entrati per visitarmi, ed accertarmi, che per loro parte avrebbero fatto di tutto per non lasciarmi perire di fame. Mi diedero a bevere del vino, mi diedero in quel momento alcuni pani, e qualche pezzo di arrosto, e per il restante dei giorni che rimasi in quella segreta mi provvide La Generala di qualche alimento in proporzione alle sue forze e perché mi venissero usati dei riguardi anche dal così detto suo zio Taras, provvedeva anche a questi di qualche cosa, e sopra tutto di alcune tazze di vino. Per questo mezzo all’insaputa del custode il Taras principio a trattarmi umanamente, e non solo permise, che mi fosse portato qualche pane, o qualche pezzo di arrosto, ma permise ancora che mi fosse portato un poco d’olio per farmi chiaro alla [81r] notte purché la candela si accendesse dopo fatta la visita.
Con questo mezzo ebbi la convenienza di poter anche scrivere formando una penna dal cannello della pippa, perché allora fumavo, e facendo una certa quantità d’inchiostro inventato dalla necessità, brucciando cioè alcune foglie della stuoia che tenevo in terra, per collocarvi sopra il materazzo, e stemprandole nell’acqua. Inventato questo nuovo genere d’inchiostro, scrissi subito un biglietto al signor Giovanni Cadeddu facendogli sapere le mie afflizioni, le cose che mi furono domandate nei diversi esami, e le mie risposte, al che egli mi contestò nelle seguenti parole: Dic te nihil audisse nihil vidisse, sed in cubiculo tuo fuisse cum discipulis tuis et cito liber eris. Mi feci coraggio. Gli scrissi altro biglietto più in lungo circa le risposte da me date, e lo [81v] pregai, che mi mandasse un pezzo di formaggio, ed un quarto di scudo in moneta, e non più per evitare l’occasione di prenderne porzione chi mi porterebbe la somma rimessa. Mandai questo viglietto nel sabbato a mezzo giorno, e quando attendevo alla notte la risposta, ebbi con mio sommo dispiacere, «sorpresa a sentire che il Taras era stato mandato via dal posto per certo imbroglio. Sentita questa infausta notizia, principiai a fare delle riflessioni sul tutto occorso e ebbi a credere, che al Taras gli fosse stato sequestrato il mio viglietto, e che perciò potessi essere ritenuto non già per testimonio, ma bensì per reo. E fu tale e tanto il mio dispiacere che in quella notte non potei riconcigliare il sonno. Attendevo sapere alla mattina qualche notizia consolante, quando all’opposto mi vidi spalancare la porta della segreta in [82r] cui ero rinchiuso, e venni chiamato alla messa. Mi trovavo già trenta giomi in carcere senza che mai mi avessero portato a sentir la messa, e vedendomi chiamato per tal’oggetto, ebbi maggiormente a confermarmi nella dispiacevolissima idea, che fossi allora ritenuto per reo, od almeno per complice. Scesi per tanto alla cappella per sentire la messa, ivi ebbi a vedere il mio benefattore signor Giovanni Cadeddu, me lo fermai d’avanti, gli feci alcuni cenni, acciò mi conoscesse, e vedesse lo stato, in cui mi trovavo. Era tale in allora il mio stato, e la fisionomia che quel bravo uomo né anche a stento poté conoscermi se non dopo di avergli fatto tanti cenni, ed avendomi conosciuto, non essendogli permesso di potermi parlare, mi guardò attentamente, colle lagrime agli occhi, e si strinse le spalle … segno di avermi riconosciuto, e quasi [82v] volesse di1mi che non poteva darmi alcun sollievo, e che ambi eravamo disgraziati. Terminata la messa venni restituito alla Trappa ed ivi restai tutta la giornata e tutta la notte con l’idea che mi affliggeva d’essere cioè ritenuto per reo, o per complice. Il lunedì mattina vidi nuovamente comparire il Taras significandomi d’esser in stato dal suo padrone il custode Addis imputato il furto di qualche pezzo di roba, di averlo bastonato, e mandato via dal posto, ma che essendosi ritrovata la cosa, che si era rubata lo avea reintegrato nel posto. Mi p nè per tanto un quarto di scudo in moneta, ed un pezzo di formaggio involto in un pezzo di carta straccia azzurra, e non avendo avuto dal Cadeddu alcun viglietto sospettai maggiormente di qualche trama e credevo, che si fosse ritirato e letto il mio viglietto [83r] e che mi si mandasse a nome del Cadeddu quello, che io domandavo, per così adescarmi a scrivere qualcue altro viglietto, e farsi la stessa funzione. Mentre andavo così discorrendo e involto il formaggio, mi accorsi che dî pugno del Cadeddu vi erano scritte le seguenti parole: Quae scripsisti non bene intellexi, explica clarius. sed brevius. Mi sollevai nel momento lo spirito, ma per evitare ogni e qualunque pericolo presi la risoluzione di non più scrivergli, come di fatti ho eseguito nel restante dei giorni, che dovetti restare in carcere. Il cannoniere La Generala prosegui a tenermi nella sua grazia, e mediante la sua intercessione conseguì dal Taras, che per un piccolo spazio d’una mezz’ora, o d’un quarto per lo meno mi fosse permesso di uscire dalla segreta onde [83v] poter passeggiare in un piccolo ripiano, che si trovava nell’ingresso. Così fu eseguito dal. Taras, ed a nome del detto La Generala mi portò circa un soldo di pane, e due salacche. Prima di dar mano a mangiare, tagliai le teste ad ambe le due salacche, e le gittai per terra, mangiai tanto per intiero le dette due salacche, ed era tale e tanta la fame che avevo, che mi ero pentito di aver gettato per terra le predette due teste, e stavo sul punto di nuovamente raccoglierle per mangiarmele. Nel mentre stavo in questa risoluzione, ecco che passò un altro carcerato, il quale appena le vide le raccolse subito, se le portò alla bocca, e nel momento stesso può dirsi che le abbia non già mangiate, ma divorate. Fui nuovamente rinchiuso nella stanza segreta, ed ivi restai per un altro giorno, o due, ed essendosi data la circostanza [84r] d’essere stato portato in carcere un certo Ignazio Ghiani del villaggio d’Elmas per complicità nello stesso delitto, e dovendosi collocare nella stessa stanza, mentre tutte le altre segrete erano occupate, io ebbi la sorte d’essere traslocato ad altra stanza detta Turri de susu in cui era il cannoniere La Generala, mastro Potito Marcialis, ed il signor Antonio Cilocco imputati, o più tosto complicati nel delitto di tentata insurrezione, un certo don Efisio Taras, ed alcuni altri, che non mi ricordavo. Trovandomi in mezzo a quelle persone non mi parea né anche d’essere in carcere, ma durò poco questa mia contentezza, perché dopo tre giorni precisi per espresso ordine del custode fui traslocato ad altra stanza detta la Siziata vecchia. Appena fui ivi introdotto vidi tanti cadaveri ambulanti, in numero di sedici o più, ed [84v] avvicinandosi a me dissero: Signore è venuto a pessimo luogo, da qui o con processo o senza non si sorte più, e chi diceva di trovarvisi anni tredici, e chi anni sedici, ivi rinchiusi quai prigionieri di Stato senza sentenza, che gli avesse condannati, e senza pocesso. Trovai in quell’orrida caverna, priva anche di necessaria luce, i seguenti carcerati, mastro Caddemis, signor Delorenzo, i due rigattieri Ciccu, e Fancello, mastro Giovanni Antonio Malherba, il notaio Mereu, e Tommaso Bertollo di cui come sopra mi avea informato bene Efisio Cossu. Scambiai alcune parole col predetto Bertollo, che mi fece conoscere i loro patimenti, e la loro dura situazione, ma senza che egli mi avesse informato conobbi la qualità del locale, e dei trattamenti che si usavano e si potevano usare, e feci pregare il custode, acciò nuovamente mi avesse restituito alla Trappa, dove mi parea [’85r] di star molto meglio, perché almeno stavo tranquillo, e non ero tormentato dalla vista di tanti cadaveri ambulanti. Restai in questa caverna soli quattro o cinque giorni, e la notte del quinto giorno venni rilasciato dopo di avermi fatto prestare il giuramento sulla mia deposizione. Dopo rilasciato ebbi occasione di guardarmi nello specchio e mi accorsi, che alla parte sinistra della testa avevo una porzione di capelli incanutiti, il che credetti effetto dei dispiaceri sofferti nelle notti. in cui temevo di dover essere ritenuto per reo. Sortito dalle carceri mi fermai per lo spazio di circa due mesi in Cagliari per terminare il corso scolastico, indi mi recai ad Iglesias dove mi soffermai per studiare la laurea, ed ivi essendo procurai informarmi, e sapere dell’avvocato Salvatore Cadeddu, e tanto mi occupai di questa facenda per la stima che avevo a quell’ottimo uomo, che alla [85v] fine mi riusci di sapere dove si fosse trovato al fuggirsi da Cagliari, e dove in allora si trovasse. Dacché se ne parti, o per meglio dire se ne fuggi da Cagliari se ne andò ai salti del Sulcis, ed ivi fu raccomandato a Luigi Impera, il quale nel salto Tatinu lo collocò nella grotta denominata de Conca de cerbu distante dal suo caprile non più di venti minuti, ed ivi con frequenza veniva visitato dall’Impera, e spesso provveduto del bisognevole. Dopo qualche tempo essendosi conosciuto, che era necessario di procurargli imbarco non potendo a lungo andare sottrarsi alle ricerche che si facevano della di lui persona, lo stesso lmpera lo fece partire da Tatinu per San Giovanni Suergiu, e nell’atto della partenza nel sortire da quella grotta, in segno di gratitudine e perché avesse sempre una memoria di lui gli offrì in dono tre delle quattro posate di argento, di cui era [86r] provveduto, soggiungendogli che attesa la sua situazione non poteva esibirgli altro che il cuore. Luigi impera ringraziò l’avvocato Cadeddu, non accettò quel dono, e gli disse, che conservasse tutte le quattro posate, che gli potrebbero servire in occasioni più critiche; gli soggiunse inoltre, che in quanto sarebbe da lui dipeso non lo avrebbe mai abbandonato. Partì per tanto dalle montagne di Tatinu insieme all’avvocato Cadeddu, ed ambi arrivarono al salto di San Giovanni Suergiu al tenimento del contadino Francesco Pabis, ed ivi dopo di avere raccomandato all’amico il suo affltto ospite, incaricandolo di potergli procurare imbarco stante la vicinanza di quel tenimento al mare, se ne partì colle lagrime agli occhi. Stava il Cadeddu in quel tenimento alquanto tranquillo, dove veniva con frequen za visitato da alcuno [86v][ dei figli, ma questa apparente tranquillità ebbe a durargli poco. Uno dei ricchi contadini del Sulcis, che poscia morì stracarico di debiti, volendo procurare l’impunità ad un suo servo ricorse alla Segreteria di Stato esibendosi pronto ad arrestare l’avvocato Cadeddu ove gli si fosse accordata la forza armata, e l’impunità al suo servitore. Gli fu accordato quanto avea dimandato, ed in tanto si diede l’ordine a spedirsi un picchetto di dragoni, e che in effetti poscia partirono. Prima però che fossero partiti i dragoni, persona che volea molto bene al Pabis, e che non voleva ne’ anche il male del Cadeddu, spedì subito un espresso, il quale arrivò in tempo, ed il Pabis fece subito sortir da casa il Cadeddu, e stante l’urgenza del caso lo fece nascondere in mezzo ai seminati, che [87r] in quell’anno erano molto fertili, e ciascuno vi si poteva nascondere facilmente senza pericolo di essere veduto. Dopo il breve spazio di due ore, e non più, comparvero i dragoni, assediarono di fuori la casa del Pabis, indi s’introdussero dentro, e gli dimandarono se tenesse in casa l’avvocato Cadeddu o se pure sapesse dove si trovava, al che rispose che l’avvocato Cadeddu in sua casa non vi era, e non sapeva né anche dove fosse. Sentita quella risposta, fecero in tutta la casa rigorosa perquisizione, e non avendo trovato il Cadeddu, avendo trovato dentro alcune stanze un capello, ed un calamajo, dimandarono prima al Pabis di chi fosse il capello ed egli rispose d’essere suo, perché come era notorio egli soleva portar capello, ed avendoselo fatto collocare in testa osservarono, che gli era ben addattato, e quindi [87v] non si poteva dubitare d’essere suo; gli dimandarono poscia di chi fosse il calamaro ed avendo risposto d’essere suo, perché sapeva scrivere, vollero fare lo sperimento, e dopo d’essere loro risultato, che già sapeva scrivere, e fatte altre ricerche se ne andarono in santa pace sebbene in parte fremendo di rabbia, perché andò fallito il colpo, e la spia che andò anche con essi non poté conseguire quello, che desiderava… Il Pabis nel mentre proseguì ad assistere e tenere in salvo il Cadeddu per alcuni giorni fino a tanto, che poté cambiare d’alloggio, che gli fu fatale, e non fu più oltre molestato dai dragoni, ne’ da alcun’altra forza armata. Venne in appresso cambiato per suggerimento di persona amica al tenimento di Antioco Giuseppe Loci, che era anche più a portata per poter procurare imbarco, ma dopo che ivi si trovava da [88r] poco tempo, comparve sul posto un picchetto di cannonieri di quelli che erano nella stazione di Sant’Antioco, e lo arrestarono senza che quel povero uomo abbia fatto, né fosse al caso di fare resistenza alcuna, sì per la sua indole, si per la sua età molto avvanzata, si ancora perché estenuato dai patimenti, e dai dispiaceri; e pure vi fu alcuno tra i cannonieri che osò percuoterlo, e dargli perfino delle sehiaffeggiate sul viso, ed in modo tale che per qualche tempo gli restarono le lividure.
Si conobbe che il Loci era stato il traditore, e per siffatto tradimento di cui si sparse la certezza in tutto il distretto d’Iglesias fu da tutti aborrito, ed in modo tale, che nessuno gli si avvicinava più, né vi fecero più degli affari, cosi che morì quasi alla limosina, e da disperato. Dopo che si rese pubblico un tal tradimento, fu tale, e tanto l’odio concepito contro quella famiglia, che essendo caduto il di lui figlio Antonio per sopranome [88v] Bertucciu in disgrazia della giustizia, non poté trovare dieci testimoni, che deponessero delle sue buone qualità personali, e fu condannato alla pena della galera. Fu per tanto arrestato e maltrattato dai cannonieri l’avvocato Salvatore Cadeddu, e non solo fu maltrattato nell’atto dell’arresto, ma nell’atto ancora della traduzione alle carceri, del che venni informato da persone degne di fede. Mi recai nel maggio di quell’anno 1813 alla festa della Vergine di Monserrato, che si celebrava e si celebra annualmente nel salto di Tratalias, ed all’arrivo che feci mi fu riferito, che se fossi arrivato un’ora prima avrei visto l’avvocato Salvatore Cadeddu, di cui mi si fece il seguente quadro. Si trovava sdraiato nel carro senza alcuna coperta, esposto ai cocenti raggi del sole, col rosario alla mano, col volto tutto insanguinato, ed attorniato da soldati. A quel pover’uomo si volle dare anche quel dispiacere di [89r] passarlo in quello stato così affliggente in mezzo al concorso del popolo nei giorni appunto in cui si celebrava la festa, che era una delle più rinomate del Sulcis. Al sentire il quadro che il mio signor zio Bonifazio Bernardino mi fece dello stato di quel pover’uomo tanto da me stimato, e venerato, mi scoppiarono le lagrime, e per i due giorni che durò la festa, non potei far sventare dalla testa quella triste impressione, che mi avea eccitato lo stato compassionevole di quel pover’uomo. Dopo tre giorni mi sono restituito ad Iglesias per riprendere lo studio per l’esame di laurea, e rimasi tranquillo in casa d’un mio zio senza che mai più avessi saputo cosa alcuna relativa agli affari dell’avvocato Cadeddu, e degli altri di sua famiglia, a cui mi parea di aver già posto fine, ma per me vi fu ancora qualche cosa da passare, che [89v] avesse potuto affliggermi. La mattina del 21 giugno di detto anno per mezzo d’un mio zio venni avvisato, che mi voleva parlare il comandante Porcile, ed essendomi da lui presentato mi fu fatto sentire, che per non spaventarmi non mi avea avvisato per mezzo dell’ordinanza, ma ne avea incaricato lo stesso mio zio, in di cui casa vivevo. Premesse queste parole, mi fece sentire, che per ordine del signor cavaliere di Villamarina in allora governatore della città di Cagliari, mi fossi presentato senza ritardo nanti di lui quanto più prima, non già in Segreteria, né in altro ufficio ma bensì in sua propria casa, senza che avessi detto cosa alcuna con altri. A quest’annunzio vedendo il signor comandante che mi ero alquanto turbato, mi disse a non turbarmi, e mi fece lettura della lettera di Villamarina, in cui era scritto, che mi dasse l’avviso [90r] senza che però m’incutesse a terrore alcuno. Mi tranquillizzai alquanto, ma non totalmente, perché vedevo, che l’ordine era pressante, e non potevo penetrare quale ne fosse la causa, e quale fosse l’oggetto della chiamata. La mattina del 22 mi posi in viaggio, così alle ore sei e mezzo arrivai all’osteria di Sant’Anna, e dopo breve riposo mi avviai al Castello alla casa del Villamarina dove trovai un certo Michele Senis sua ordinanza, il quale dopo aver tenuto meco breve colloquio, entrò dentro per annunziarmi, intesi che parlò con qualche persona, ma non conobbi, se fosse il Villamarina od altri, e molto meno potei sentire ciò che gli fu detto. Sortì per tanto nuovamente il Senis, né altro mi disse solo che di andare con lui. [90v] Siamo dunque sortiti insieme dalla casa Villamarina in buona conversazione, e credevo che il Senis mi portasse alla casa del giudice Valentino, dove in qualità di testimonio venni l’altra volta escusso. Si passò la casa Valentino, e quindi credevo, che mi portasse alla Segreteria per ricevere ivi gli ordini, come si fece l’altra volta, passata però la porta della Segreteria, ed avvanzati oltre la porta del regio palazzo, pensai che venissi portato alle carceri di San Pancrazio. Mi fermai per tanto in faccia al Senis e gli. dissi: E bene, mi porta dunque in San Pancrazio? A questa mia invettiva, qualunque sia il senso, in cui abbia preso le mie parole, oppure le abbia egli intese, mi rispose nel seguente modo: E che male c’è? A queste parole io soggiunsi, c’è altro che male, mentre in quest’anno in San Pancrazio vi sono stato altra volta, e so quanti sono [9lr] stati i miei patimenti, e le mie afflizioni. Nel mentre da noi si stava così ragionando il Senis non proseguì il corso di quella strada, ma attraversando la strada verso sinistra m’introdusse in una casa, che in allora non sapevo di chi fosse, ed arrivati ambi al piano nobile entrò il Senis solo, senza che mi sia stato permesso l’ingresso, e nel mentre stavo lì alla porta, di fuori, nel ripiano della scala, mi vedo sortire il cavaliere di Villamarina, che tirando seco la porta, e tenendola socchiusa, si restò solo con me, e dopo fattigli i miei rispettosi complimenti mi dimandò a che ora ero venuto, se avessi comunicato con alcuni, ed avendogli risposto d’essere arrivato così alle ore sei, e che senza aver comunicato con alcuno mi portai direttamente alla sua casa, mi disse di aver fatto bene, e m’ingiunse di comparire l’indimani mattino, in sua casa alle ore sette. Gli dimandai la grazia se mi permetteva di andare a dormire [9lv] in casa d’un amico: mi dimandò chi era quest’amico, e dove viveva, ed avendogli detto che l’amico era lo studente Giovanni Peddis di Domus Novas che viveva in Villanova in casa del cavalier Lostia, mi disse che andassi pure, ma che nulla avessi detto della mia chiamata. Mi congedò e stavo già scendendomene in Stampace di cattivo umore perché non sapevo quale fosse l’oggetto della mia chiamata. Nel mentre stavo passando in vicinanza della casa della Planargia per introdurmi nel porticato del marchese di Laconi mi sento chiamare Pabis, Pabis! e nel voltarmi vedo e riconosco il marchese don Gavino Pagliaccio che io non sapevo si fosse già restituito dalla solita sua villeggiatura al feudo. Stava nel mentre ragionando col professor Cappai, e congedatosi dal medesimo venne subito da me, mi dimandò come, e perché mi trovassi in Cagliari senza né anche avergli scritto da Iglesias, gli dissi che non sapevo d’essersi restituito dal feudo, e che anche [92r] quando lo avessi saputo non avrei avuto tempo, perchè la mia partenza fu repentina ed improvvisa. Gli narrai tutto l’occorso, gli significai i miei timori di venire nuovamente carcerato, ed egli mi dimandò in che modo mi avesse trattato il Villamarina, ed avendogli significato che mi avea trattato molto bene mi rispose nel modo seguente: Dunque non tema, perché se egli avesse avuto qualche cosa in contrario, non si sarebbe contenuto. Dopo di aver proseguito il nostro ragionamento, e vedendo il signor marchese che per anco sussistevano i miei timori, nel congedanni mi regalò una mezza savojarda, e mi soggiunse, che se mai venissi camerate, avessi avuto cura di prevenirlo, perché mi avrebbe egli mandato il pranzo. Mi congedai dal prefato signor marchese, e mi recai all’osteria di Sant’Anna, dove tenevo il cavallo. Nel mentre stavo per arrivare, m’incontrò mastro Giovanni Orrù con un servitore [92v] salvo errore della famiglia Villahermosa, o di quella della casa di Villarios, che teneva acceso un fanale per condurmi in Castello. L’Orrù mi disse, che quel domestico mi stava aspettando dalla sera, e che desiderava parlarmi il marchese di Villahermosa. Mi incamminai subito verso il Castello guidato da quel domestico, ed andai ad incontrare il predetto signor marchese, che in allora viveva dirimpetto al palazzo arcivescovile, ma non avendolo trovato in casa, si andò alla casa della marchesa Villarios, e dopo qualche breve spazio venne frettoloso il predetto signor marchese, mi ricevette a solo in un salone e dopo fattimi i dovuti complimenti, mi domandò se io ero il pro dottore Pabis, se in quell’anno ero stato in carcere, e se avessi cambiato nelle mie deposizioni. Gli risposi che appunto io ero il pro dottor Pabis, che nel gennajo, e febbrajo ero stato nelle regie carceri di San Pancrazio per lo spazio [93r] di giorni quaranta, trentatré in un’orrida stanza segreta denominata Sa Trappa, quattro nella stanza denominata Turri de susu ed il restante nella Siziata vecchia; che ero stato esplorato per quattro volte, e che sempre avevo perseverato nella mia prima esplorazione. Sentita questa risposta, mi dimandò nuovamente, se essendo in carcere, qualcheduno avesse tentato di subornarmi ed indurmi a deporre contro qualcheduno, e segnatamente contro la sua persona. A questo gli risposi, che trovandomi in carcere, in varie notti venne il custode Vincenzo Addis a subomarmi, consigliandomi, che avessi deposto contro il signor visconte di Flumini Maggiore, contro il marchese di San Tommaso, e contro un’altra persona di più alto grado. Gli soggiunsi, che il suo nome non me lo avea indicato espressamente [93v] ma che dal modo, in cui si spiegava, e cercava di circonvenirmi, capivo che mi parlava del signor marchese di Villahemrosa, e m’incoraggiava anche a deporre soggiungendomi che in quell’affare vi erano anche dei parrucconi, e che non temessi, ne’ avessi difficoltà di deporre. Mi fece alcune altre interrogazioni, e sopratutto se mai lo avessi visto andare in casa del signor Giovanni Cadeddu, od in Palabanda, gli risposi di no, e che così ancora avevo deposto in causa, e così avevo sempre sostenuto senza avere punto variato. Dopo avuto questo colloquio, mi disse che lo avessi scusato, per l’incomodo, che mi avea recato, e mi disse, che mi avea fatto venire lui, e che fin dalla sera avea mandato il suo domestico all’osteria di Sant’Anna, per avvisarmi, e tenermi compagnia al Castello, e per fine mi soggiunse, che io verrei interrogato di sua instanza, e quindi se di lui mi constava [94r] qualche cosa, che avessi deposto, ma se nulla mi constava, che avessi fatto onore a me stesso… ed a lui un atto di giustizia. Mi fece nuovi complimenti, mille ringraziamenti, e mi congedò. Avendo in questo modo saputo l’oggetto della mia chiamata, che io credevo d’essere tutt’altro, mi posi di buon umore, me ne scesi allegro dal Castello accompagnato dal domestico della casa di Villahermosa, quale subito congedai, perché non volevo essere conosciuto, massime perché dal signor cavaliere di Villamarina mi fu espressamente incaricato di non parlare con alcuno, né di svelare il motivo, per cui ero stato chiamato. Me ne andai allegro a dormire in casa dello studente baccelliere in leggi Giovanni Peddis, ed alla mattina di buon ora andai alla casa del Villamarina e dopo arrivato fui tratenuto in un salone, senza che sapessi per allora quale potesse essere il motivo. [94v] Nei mentre stavo così sospeso, vidi entrare il signor conte di Roburent e finalmente il signor presidente Tiragallo. Dopo breve spazio fui fatto entrare anche io, quindi osservai che tutti tre erano seduti in debito ordine, cioè il cavaliere di Villamarina siedeva in mezzo nella qualità di presidente, alla destra il conte di Roburent, ed alla sinistra il presidente Tiragallo, che oltre d’essere condelegato, faceva ancora da segretario. Venni da essi interrogato se in quell’anno fossi stato in carcere, se fossi stato ben trattato, e se avessi cambiato, od in parte variato la mia deposizione. Al primo risposi affermativamente ed esposi tutte le circostanze che accompagnarono la mia carcerazione. Al secondo risposi, che dai tre giudici della Sala di supplicazione Valentino Pilo, Musio e Gaffodio ero stato ottimamente trattato: nell’atto dell’interrogatorio mi trattarono con tutto rigore, come [95r] meritava una causa di tal natura; mi fecero mille ammonizioni, ed essendo stato constante nelle mie negative, ordinarono la mia carcerazione, ma nell’eseguirsi questa non ostante fossi un semplice e misero studente, mi usarono molti riguardi, e mi dissero, se volevo e promettevo di andar solo, oppure volevo andare accompagnato: dissi che già andavo solo, e così mi lasciarono andare senza essersi fatto scandalo alcuno, e senza essere stato accompagnato né anche da una sola ordinanza, cosi che nissuno si accorse, che io fossi arrestato… Ma dopo che arrivai in carcere fui trattato pessimamente, ed appena mi si dava la solita razione, non mi fu permesso né anche di tener luce di notte tempo, ed esposi tutti i disagi, a cui ero stato assoggettato. Al terzo risposi, che ero stato esaminato quattro volte, ed in tutte le esplorazioni senza giuramento, e nell’ultimo interrogatorio fatto con giuramento confermai sempre [95v] il mio primo interrogatorio, ed in nulla avevo variato. Venni in seguito interrogato, se essendo in carcere, alcuno mi avesse consigliato a deporre, e contro chi. Risposi, che per tre volte di notte tempo venne il custode Addis a consigliarmi, ed indurmi a deporre espressamente, e nominatamente contro il signor visconte Asquer, e contro il marchese di San Tommaso, ed in parole equivalenti ad una espressa indicazione contro il marchese di Villahermosa, contro dei quali nulla deposi, né potevo deporre, perché nulla mi constava, né mai vidi in casa del signor Giovanni Cadeddu gli predetti signori, e sapevo di certo, che non vi erano mai venuti per nissun affare. Mi si fecero diversi altri interrogatori, a cui io risposi diffusamente, per il che il mio esame durò per lo spazio di tre ore, e dopo terminato l’esame il signor presidente Tiragallo mi diede a leggere lo scritto, anzi mi obbligò a leggere tutto da me, senza che egli abbia voluto farmene lettura. [96r] D0po fatta da me stesso la lettura dello scritto, mi fu dimandato se lo confermavo, e se sarei al caso di giurarlo. A questo risposi, che lo confermavo in tutte le sue parti, che quanto si era scritto conteneva la pura e semplice verità, e che io deposi, come se avessi dovuto giurarlo, e non sapevo, che il mio esame fosse seguito per semplice esplorazione. Eseguita la predetta lettura, e sentita la mia risposta, venne chiuso l’atto colle debite segnature avendo prima soscritto il cavaliere di Villamarina, indi il conte di Roburent, poi il signor presidente Tiragallo, ed io alla fine. Dimandai ai signori condelegati se io potessi partire, e mi lasciassero in facoltà, mentre ero disposto di partir subito, e mi risposero, che facevo ottimamente, se partivo [96v] subito, ma che nulla dicessi di quanto mi si era dimandato. Gli ringraziai, presi congedo, e subito mi disposi alla partenza per Iglesias, dove arrivai la sera del 23 giugno alle ore nove circa, e nulla più seppi degli affari della famiglia Cadeddu sino al settembre in cui l’avvocato Cadeddu fu condannato a morte ed eseguita la condanna, ed il fratello Giovanni Battista al carcere perpetuo.
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