Gramsci e la critica dell’economia politica

19 Settembre 2018
1 Commento


Gianfranco Sabattini

 

L’espressione “filosofia della prassi” non è stata un’”invenzione” di Gramsci, bensì di Antonio Labriola, e si è affermata in Italia come modo particolare d’intendere il marxismo; Gramsci, seguendo proprio Labriola, con riferimento al fondamento del pensiero marxiano, parla di “filosofia della prassi” per indicare che, così come l’uomo, in quanto uomo, è prodotto dalla società, quest’ultima, per converso, è prodotta dall’uomo.
Gramsci intende la filosofia della prassi come costruzione di volontà collettive, rispondenti alla soluzione dei bisogni che emergono dalle forze produttive concrete (o in via di concretizzazione) e dalle contraddizioni tra queste forze e il livello culturale storicamente determinato dalle relazioni che si strutturano all’interno della società civile. In questa idea è implicito l’assunto dell’esistenza di una serie di scienze della natura e dell’uomo, che possono influire sulla politica; cioè sulle dinamiche del processo storico che fanno intravedere possibili nuovi modi di vivere in corrispondenza di superiori livelli culturali e materiali.
Per Gramsci, la filosofia delle prassi è, in primo luogo, il pilastro intorno al quale ruotano tutte le attività pratiche cui si può ricorrere per la soluzione dei problemi che la vita sociale propone; ma è anche la concretizzazione dell’unità dialettica di filosofia e pratica, alla quale unità ogni gruppo sociale che aspiri a divenire egemone attraverso l’attività politica deve ispirare la propria azione.
Perché quest’aspirazione possa essere coronata da successo, è necessario che i linguaggi dell’insieme delle scienze collegate alla prassi siano tra loro “traducibili”, partendo dall’assunto che ogni fase del processo storico abbia un significato culturale fondamentalmente unico, anche se espresso nei diversi linguaggi delle specifiche scienze della natura e dell’uomo. Su questo problema, nel libro “Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma delle ‘traducibilità’”, attraverso la riflessione sul problema appunto della “traducibilità dei linguaggi” delle diverse scienze connesse alla filosofia della parassi, Guzzone passa ad indagare sul pensiero economico di Antonio Gramsci, quale può essere desunto dalle affermazioni sparse del pensatore sardo contenute nei “Quaderni del carcere”.
I due aspetti (quello della “traducibilità dei linguaggi” e quello del pensiero economico) sono, a parere dell’autore, profondamente intrecciati, dato che la loro considerazione congiunta consente di capire la funzione che la “traducibilità” ha, secondo Gramsci, riguardo alla critica dell’economia politica formulata nei “Quaderni”. L’importanza di questo nesso, nell’insieme delle affermazioni gramsciane sull’economia politica, è stata, secondo Guzzone, “riconosciuta in una stagione piuttosto recente degli studi gramsciani. A lungo si è ritenuto che le poche occorrenze testuali [16 in tutto] attestassero il carattere marginale e accessorio” del problema della “traducibilità”; la lettura filologico-critica “ha invece mostrato che quelle occorrenze corrispondono a punti strategici dell’elaborazione della filosofia della prassi e attestano l’esistenza di un nesso vitale, gradualmente consolidato e rafforzato, tra linguistica e marxismo gramsciano”.
L’idea dell’importanza della “traducibilità è sorretta da due considerazioni formulate da Gramsci: la prima, relativa alla possibilità “dell’uomo politico di promuovere ed espandere gli effetti progressivi di una grande esperienza storica prodottasi altrove […], conferendole una forma adeguata ai problemi, alla cultura, al grado di sviluppo del proprio contesto nazionale”; la seconda, concernente il confronto tra culture diverse e i rapporti tra “’lingua del pensiero astratto’ e ‘lingua della politica e del pensiero intuitivo’, tra filosofia speculativa e filosofia della prassi”.
Entrambe le considerazioni, nella prospettiva dell’analisi gramsciana, riflettono la necessità della “traducibilità” del linguaggio teorico dell’economia politica, per renderlo compatibile con le categorie della filosofia della prassi. La critica più recente, a parere di Guzzone, ha evidenziato “sul terreno di uno studio filologico e storico-genetico dei testi, lo stretto intreccio esistente nei Quaderni fra riflessioni sull’economia e riflessioni sulla filosofia”. Sulla base di questo intreccio, la stessa critica dei testi gramsciani ha prospettato la possibilità di poter ricavare dalle “note di economia” dei “Quaderni”, nonostante la loro esiguità, “un contributo unitario, sistematico e, soprattutto, coerente con la filosofia della prassi”; contributo, questo, complessivamente coerente con l’obbiettivo, perseguito da Gramsci, di dimostrare che la sua riflessione economica scaturisce dall’esigenza di “precisare lo statuto dell’economia” proprio nel quadro della filosofia della prassi.
Un esempio di questa esigenza avvertita da Gramsci può essere tratto dalle sue riflessioni riguardanti la categoria formale, propria dell’economia tradizionale, espressa dal concetto di “homo oeconomicus”; questo, secondo Gramsci, non è che una figura astratta, esprimente il soggetto che svolge l’attività economica all’interno di una determinata forma di società. Guzzone ritiene che l’aspetto più rilevante di questa osservazione sia la relazione che Gramsci suppone esista tra l’attore dell’attività economica (l’homo oeconomicus) e la struttura della società (intesa, questa, in senso astratto) all’interno della quale esso opera. Infatti, secondo Guzzone, Gramsci, nel prosieguo della sua argomentazione, colloca lo svolgersi degli effetti di quella relazione all’interno di una realtà costituita dall’intrecciarsi dei comportamenti posti in essere all’interno di tre “sfere” sociali: la società civile, quella economica e quella politica, intesa quest’ultima come Stato.
La società civile è il luogo in cui matura la cultura corrispondente alle esigenze di funzionamento di un determinato mercato; la società economica è costituita da tutti gli operatori economici che, attraverso il mercato, svolgono l’attività di produzione in conformità della cultura maturata all’interno della società civile; la società politica, infine, intesa come “Stato-apparato”, è l’insieme degli strumenti dei quali i rappresentanti della società civile, all’interno delle istituzioni nelle quali si articola lo Stato, possono disporre, al fine di “irradiare e consolidare” nella società civile la cultura necessaria perché si producano i “conformismi” corrispondenti ai possibili mutamenti desiderati della struttura della società.
Dal punto di vista della dinamica sociale, quale significato è possibile attribuire all’ipotesi gramsciana dell’esistenza di una relazione tra l’attore economico (l’homo oeconomicus) e la struttura della società? Significa che chi ha interesse al mutamento sociale e al cambiamento dei rapporti sociali, deve disporre di adeguati strumenti dello Stato-apparato; che, per essere acquisiti, occorre che avvengano cambiamenti nella cultura dei componenti della società civile, tali da consentire il controllo egemonico dello Stato-apparato da parte di chi è portatore dell’interesse a che avvengano quel mutamento e a quel cambiamento.
Se il concetto chiave di Gramsci nella analisi critica del mutamento sociale, ovvero l’egemonia viene intesa, non come “conquista del Palazzo d’Inverno, ma come una “lunga lotta” volta a trasformare culturalmente, sia i soggetti delle classi egemoni, che quelli delle classi subalterne, al fine di creare le basi per un “travaso ‘molecolare’ dei governati tra i governanti, allora essa (l’egemonia) può consentire alle società capitalistiche di affrontare la soluzione del problema contemporaneo che appare essere quasi la causa di una loro “crisi senza fine”, la disoccupazione strutturale e irreversibile, facendo perno su un più coerente senso di responsabilità collettiva.
Una corrente di pensiero della teoria economica, estranea alla tradizione marxista, ha adottato il concetto di egemonia per “delineare” all’interno dei regimi democratici un possibile modo di porre rimedio allo stato di crisi strutturale dei sistemi capitalistici, dovuto ai fenomeni della crescente disuguaglianza distributiva e della povertà assoluta. Nelle società a decisioni decentrate, quali sono i sistemi capitalistici retti da regimi politici democratici, quella corrente di pensiero ha infatti teorizzato il possibile esercizio dell’egemonia, per risolvere il conflitto sistemico che la tradizione marxista ha sempre associato al problema della distribuzione del prodotto sociale; problema che, nelle attuali condizioni di funzionamento dei sistemi economici capitalistici, si è ancor più radicalizzato, a causa, appunto del fenomeno della disoccupazione strutturale. Tale corrente di pensiero, rifacendosi al pensiero di Gramsci, sostiene che il modo capitalistico di produzione, all’interno di un sistema sociale retto da un regime di democrazia rappresentativa, può essere conservato a condizione che lo “sfruttamento” (tradizionale fonte di accumulazione capitalistica) possa essere reiterato con il consenso degli “sfruttati”.
I teorici dell’economia che assumono questa ipotesi, la giustificano facendo riferimento a quanto Gramsci, riflettendo sulla flessibilità delle società capitalistiche, afferma riguardo alla loro persistenza, rinvenendo l’origine di quest’ultima nel ruolo che la cultura svolge nel consentire la possibile acquisizione di una posizione egemonica ai gruppi dominati. Tuttavia, per Gramsci, l’egemonia può essere conservata dai gruppi dominanti, a patto che sia soddisfatta la condizione del suo esercizio in modo equilibrato; condizione che, per quanto necessaria, non è anche sufficiente, potendolo divenire solo quando gli interessi dei gruppi dominanti siano concretamente coordinati con quelli dei gruppi subalterni.
Secondo gli economisti che assumono il concetto di egemonia per la soluzione del problema distributivo in conformità al pensiero gramsciano, i “conformismi”, attraverso i quali i gruppi antagonisti possono coordinare i loro interessi all’interno di una società capitalista, possono essere resi operativi solo se presidiati dallo Stato-apparato; ciò può accadere se quest’ultimo, attraverso la società politica, riesce e svolgere un’attività di regolazione dei rapporti tra i gruppi, idonea a consentire il perseguimento di configurazioni distributive del prodotto sociale riflettenti il costante coordinamento degli interessi di tutti i gruppi sociali; inclusi, quindi, anche gli interessi di coloro che, loro malgrado, sono costretti a sopportare gli esiti di una crescente indisponibilità di risorse adeguate alle loro esigenze esistenziali.
Per quanto possa risultate convincente, l’ipotesi formulata dagli economisti aperti all’uso del concetto di egemonia nella soluzione dei problemi distributivi, attende però che la “traducibilità” delle categorie della teoria economica in termini di filosofia della prassi avvenga entro tempi brevi, pena il reiterarsi dello stato di crisi del capitalismo contemporaneo.

1 commento

Lascia un commento