L’ultimo giorno al mare mi sfesso con un lumbard…

2 Settembre 2018
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Amsicora

 

 

 

L’altro giorno in spiaggia ero di buon umore. Pioggia, fulmini e saette sono ormai un ricordo, splende il sole. Perché non godere di questa favorevole situazione, del bel mare blu’? Si riprende la vita di spiaggia, un po’ di lettura sotto l’ombrellone, un po’ di bagno e un po’ di sonno. A conferma della teoria dell’evoluzione della specie di Darwin, anch’io ho cambiato i miei caratteri e mi sono ormai adeguato alla vita da spiaggia, incasinata o confusa. Del resto non sempre c’è qualche vicino che rompe. Anzi! L’altro giorno, ad esempio, un signore si arrabbattava a piazzare l’ombrellone nella sabbia. Era attrezzato di tutto punto. Aveva vitone per perforare, funi per ancorare, paletta per bucare, ma non riusciva a dare stabilità al suo ombreggio. Mi accorgo che mi scruta con attenzione, quando giungo e con alcune manovre appropriate fisso il bastone dell’ombrellone, facendolo semplicemente roteare nella sabbia morbida e poi, dopo aver guardato le bandiere dei natanti per individuare la direzione del vento, fisso a terra due picchetti con la fune per evitare che il vento faccia volare l’ombrellone. Finisco, faccio per sedermi per la lettura dei giornali, e lui, timidamente, sotto il suo ombrellone traballante, rivolto a me: “vedo che lei senza vitoni o altri supporti, in un attimo ha fissato l’ombrellone“. E’ un polentone lombardo, ma non sembra supponente. “Caro lei - gli dico, con l’aria di chi la sa lunga – la mia è pratica antica, vengo in questa spiaggia da anni”. “Volevo ben dire - fa lui – io è il primo anno. Di solito vado in montagna, lì di ombreggio non c’è bisogno…“. Poi guarda il mio ombrellone ed è attratto dai due supporti per le funi laterali antivento. Sono due legni de ollastu siccau, di olivastro secco, con un foro nella parte superiore per infilare la fune. Domanda: “ma dove ha acquistato questi due supporti rustici? Vedo che funzionano bene, meglio dei miei vitoni di plastica…“. “Caro signore - rispondo a petto in fuori – li ho fatti con le mie mani, ma su un modello millenario” – aggiungo, disponendomi al cazzeggio. “Millenario?“, fa lui sorpreso e incuriosito. “Cultura materiale nuragica, non cosette dell’oggi usa e getta“. E poi con aria professorale: “noi sardi certe pratiche ce le tramandiamo da padre in figlio, e così capita che facciamo ancora alcuni oggetti inventati dai nostri antenati all’ombra dei nuraghi”. “Interessante”, fa lui, “anzi intrigane!“. Ormai ce l’ho in pugno e posso dirgli qualunque cavolata su Sardegna e sardità, che lui se la beve, incantato, convinto di entrare nel mondo misterioso dell’isola dei mori. Già si gusta i racconti agli amici, a Segrate durante le fredde sere d’inverno. “E’ stato al museo di Cagliari?”. “No” fa lui, quasi scusandosi. “Male! Se lei ci va gli dico con fare pedagogico – vede un bronzetto raffigurante una capanna, se osserca con attenzione, si accorgerà che ha ai lati quattro funi ancorate ad altrettanti picchetti uguali ai miei“. “Caspita!”, esclama, “credo bene che tengono più dei miei!”. “Legna dura”, caro amico, però solo se è tagliata nel tempo giusto!“.  “Tempo giusto?”, fa lui, sorpreso. “Ottobre e giugno, con luna montante, se no si sbricciola. Anche questa tradizione nuragica, regola a prova di bomba, anzi di millenni…” soggiungo con fare sempre più didattico. “Che bella la sardità!”, esclama il mio interlocutore. Ma io voglio condurlo nel mondo inesistente dell’isola, che però loro, i polentoni, vogliono sentirsi raccontare. “Ha sentito parlare de s’accabbadora, la donna che in ogni paese dava la buona morte ai malati terminali?” “Sì e no”, dice lui, quasi vergognandosi della sua ignoranza. “Bene, s’accabbadora aveva un manico con una protuberanza, tipo martello o mazza, per assestare il colpo di grazia. E sa di cosa era fatto? “De ollastu siccau”, indovina lui. “Esatto! Colpo secco e preciso e via per sempre le sofferenze!“. “Mi dica lei…e dire che oggi si discute della fine vita e non si conclude nulla…lì colpo secco e via!“, osserva il mio vicino di ombrellone. “Attenzione, però, soggiungo, s’accabbadora interveniva per i subottantenni, perchè a ottant’anni i sardi precipitavano i vecchi da una rupe, come gli spartani con gli handicappati!“. “Davvero!“, esclama il lumbard, incredulo.  ” Eh sì, proprio così! caro mio. Ha mai sentito parlare del riso sardonico? Era il riso amaro dei sardi dopo aver sospinto l’anziano nel baratro”.
“Quante belle storie!”,
commenta, avvinto dalle mie parole, recitate a dovere. “Una curiosità, tornando ai su supporti. Ma come facevano i nuragici a fare il foro, non avevano il trapano“. “Chissà! - rispondo io con l’aria di chi si pone un quesito storico complesso - se lei al museo osserva i giganti di Monte Prama, si accorgerà che che uno tiene un giavellotto, che è simile al mio supporto di ollastu siccau, ovviamente più grande, diciamo di circa due metri ed ha, a mo’ di maniglia, una fune di pelle dentro un foro nella parte superiore“. “Ma guarda un po’!“, dice lui. “Si discute – soggiungo – fra gli studiosi per stabilire se erano giavellotti per fare gare o se venivano usati come armi contro i punici“. “E lei cosa pensa?“, mi chiede, impaziente. “Ma per l’uno e per l’altro, si facevano gare, ma poi le armi si usavano anche contro i nemici, mi pare ovvio. Anche oggi del resto nei poligoni di tiro sardi si fanno giochi sperimentali con armi, che poi si usano nelle guerre vere”. “Eh sì, la storia si ripete…, ma come mai i giganti proprio lì?”, chiede. “I fenici, come lei sa, erano commercianti, creavano approdi e non facevano guerre. Il commercio richiede la pace…” ” E allora perché i giavellotti, gli scudi dei giganti?”, fa lui. “Beh, i fenici trafficavano, usavano le nostre strutture, ma non lasciavano nulla, e allora i nuragici pensarono di imporre un dazio e fare una cinta daziaria, con un presidio di guardie. Ci fu qualche resistenza iniziale, ma c’erano sempre i contrabbandieri e allora se non andava bene la carota, si usava il bastone di olivastro secco, de ollastu siccau diciamo in sardo”. “Ecco - azzarda il lumbard - perché i sardi non amano il mare!…” “…E non mangiano pesci…”, aggiungo meccanicamente, assecondando la vulgata continentale. “Perché fin dai fenici chi veniva dal mare voleva imbrogliare…, ma noi il dazio, grazie ai giganti con mazze e bastoni, glielo abbiamo fatto pagare!”, dico con voce perentoria e sentenziosa. E lui: “Mica fessi i nuragici, un po’ come certi sardi di oggi che a noi turisti fanno prezzi impossibili”. “Bah, non so…“, dico, evitando di entrare in argomenti serio e spinoso. Preferisco concedermi un’ultima amenità col polentone. “Lei vedrà al museo che c’è un gigante con gli occhialini…” …”con gli occhialini?“, m’interrompe, incredulo. “Sissignore con gli occhialini tondi, alla Gobetti, alla John Lennon“, soggiungo, con un’aria di mistero. “Ma com’è possibile, a quei tempi?!“, dice lui. “Ci sono tre tesi fra gli studiosi, la prima radicale, che quel gigante o addirittura tutti i giganti siano dei falsi, oppure che quelli non fossero occhiali, ma semplicemente gli occhi stilizzati in un cerchietto…” “Oppure?…” “..Oppure che si trattasse addirittura di occhiali…”Occhiali?!“, esclama lui e chiede la mia opinione. “Opto per gli occhiali”, rispondo con aria saccente, “sul Monte Arci, li’ vicino, del resto si lavorava l’ossidiana in modo finissimo, penso addirittura da certi reperti che i nuragici avessero già scoperto le bifocali…“. Mi accorgo di averla sparata grossa, mi aspetto un vaffa, ma la buona sorte arride ai temerari; per mia fortuna, la moglie lo chiama dal mare: “Ambrogio! Vieni a fare il bagno!”. Lui, di mala voglia, si scusa e va. Questioni di forza maggiore. Ordine di moglie, indiscutibile, non violabile. “Continuiamo domani“, mi dice, mentre si avvia. “Peccato! Certo, a domani“, ho tante altre cose da narrarle!”, ma penso subito di cambiar spiaggia. Mi rimane un dubbio atroce: “Sono io che ho preso per culo lui o lui che ha preso me, fingendo di credermi”. Ricordando la barzelletta del sardo, del romano e del milanese, mi illudo di essere stato io a prenderlo per i fondelli. Comunque, tra il vedere e il non vedere, smonto l’ombrellone, metto in spalla lo zaino e scappo.

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