(Sergio Marchionne)
Si sprecano i commenti e le celebrazioni sulla figura di Sergio Marchionne, manager italo-canadese nato a Chieti, scomparso a Zurigo all’età di 66 anni da ex amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (Fca). Commenti di solito celebrativi. Rumoroso è il silenzio dell’ex Fiom Maurizio Landini, della segreteria nazionale Cgil.
Poi, però, la segreteria della stessa Cgil ha espresso in una nota “alla famiglia e alla compagna di Sergio Marchionne il suo cordoglio e quello di tutta la Confederazione per la scomparsa del loro congiunto. Sergio Marchionne, cui è sempre andata la stima della Cgil, ha l’indubbio merito di aver salvato un’azienda morente. Uomo di grande intelligenza e capacità manageriale” e via dicendo.
Una versione senza infingimenti viene invece da Giorgio Cremaschi, oggi di Potere al popolo, già presidente del Comitato centrale della Fiom, l’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil, che nel 2015 ha lasciato, polemicamente, dopo oltre quarant’anni di militanza.
Come Landini, per decenni, Cremaschi è stato dall’altra parte della barricata rispetto a Marchionne. Quindi il suo è un ricordo che riassume il punto di vista della controparte metalmeccanica dellla Cgil.
“Sergio Marchionne è stato un funzionario del capitale – dice Cremaschi in un lungo post sul suo profilo Facebook ripreso da Abruzzoweb.it - ed in particolare della famiglia Agnelli, in assoluta continuità con la storia dell’azienda e della sua proprietà. Così vanno giudicati la sua opera e gli effetti di essa, oltre il rispetto che sempre si deve di fronte alla morte dolorosa e prematura di una persona. Marchionne, come tutti i suoi predecessori, non ha difeso gli interessi del lavoro o del paese, ma quelli della proprietà. Una proprietà, quella della famiglia Agnelli, sempre più gaudente ed avara, della quale tutto si può dire tranne che faccia gli interessi di tutti. È questa proprietà che periodicamente i grandi manager Fiat hanno salvato, ultimo il manager nato a Chieti. Era la loro missione e questa hanno realizzato”.
“Nel dopoguerra – continua Cremaschi – il gruppo Fiat e la famiglia Agnelli hanno usufruito di tre manager che hanno fatto la storia dell’azienda e segnato quella del paese. Il primo fu Vittorio Valletta, che assunse il potere assoluto in Fiat nel 1945, dopo che il proprietario dell’azienda e capostipite della famiglia, il senatore del regno Giovanni Agnelli, fu epurato per la sua smaccata identificazione e collaborazione col regime fascista. Valletta fu il primo dei manager che salvarono la Fiat e soprattutto la famiglia proprietaria”.
“La salvò dall’esproprio per collaborazionismo coi nazisti – prosegue – esproprio che invece toccò alla Renault in Francia, e poi la rilanciò facendo dell’azienda uno dei grandi motori dello sviluppo industriale del paese. Per realizzare questo obiettivo Valletta perseguì la sottomissione totale degli operai ai ritmi più feroci dello sfruttamento, usò le risorse del paese e in particolare l’immigrazione di massa al nord, ed infine fece della persecuzione contro la Fiom e i suoi militanti la propria bandiera. Con le discriminazioni, i reparti confino, i licenziamenti ed anche con strumenti eversivi, come le schedature e lo spionaggio delle persone, usando persino apparati dello stato deviati che poi sarebbero stati coinvolti nella strategia della tensione degli anni ‘70. Per questa sua scelta ferocemente antisindacale e autoritaria Valletta divenne un emblema della politica e dei governi degli anni ‘50!”.
Nel 1966 Valletta fu destituito da Gianni Agnelli, il nipote di Giovanni che voleva riprendere le redini dell’azienda dopo una lunga esperienza di playboy internazionale, e solo un anno dopo morì. Le celebrazioni sui grandi giornali di allora furono uguali a quelle attuali per Marchionne.
Alla fine degli anni ‘70 la Fiat era di nuovo in crisi, perché di fronte alla sfida delle grandi lotte operaie e alla conquista da parte del lavoro di diritti e dignità, non era stata in grado né di rispondere con adeguata innovazione ed investimenti, né con un vero cambiamento nella gestione aziendale e nelle relazioni con i dipendenti.
I fratelli Agnelli, Gianni ed Umberto, si fecero da parte nella gestione diretta del gruppo che fu affidata a Cesare Romiti.
In una intervista a La Repubblica nell’estate del 1980 Umberto Agnelli preannunciò licenziamenti di massa per rendere l’azienda competitiva e ricevette il sostegno del ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta.
Romiti condusse l’attacco frontale al sindacato e alla fine di trentacinque giorni di lotta vinse, mettendo decine di migliaia di dipendenti in cassa integrazione.
E così negli anni ‘80 l’impresa assunse nella società italiana quella centralità che prima aveva conquistato il lavoro.
La sconfitta operaia di fronte alla Fiat di Romiti aveva indicato la direzione di marcia a tutto il potere politico, la svolta liberista che avrebbe conquistato tutto il paese cominciava in fabbrica.
Bettino Craxi colpì il salario con il taglio e l’avvio della distruzione della scala mobile e poco dopo Romano Prodi, da presidente Iri, donò l’Alfa Romeo alla Fiat, che così divenne il solo produttore italiano di automobili.
Ma la cura Romiti, se aveva risanato i profitti della famiglia Agnelli, non aveva fatto crescere adeguatamente la forza industriale del gruppo, che già all’inizio degli anni ‘90 era di nuovo in crisi.
Nel 1994 la Fiat colpiva con la cassa integrazione la massa di quegli impiegati e capi che nel 1980 avevano organizzato una decisiva manifestazione contro gli operai in lotta.
La gratitudine non è mai stata una caratteristica aziendale.
La Fiat aveva ancora una volta bisogno di investimenti e ricerca e ancora una volta la proprietà si mostrava assolutamente sorda a questo richiamo.
Anche perché in quegli anni la famiglia Agnelli aveva tentato di creare una seconda corporation , entrando nella Telecom, in Banca Intesa e in tante altre imprese che con la produzione di auto nulla avevano a che fare.
Fu un’operazione fallimentare, la seconda conglomerata Fiat crollò e la famiglia Agnelli dovette abbandonare tutte le aziende che credeva conquistate, mentre nel frattempo la prima Fiat, quella industriale, perdeva posizioni per mancanza di adeguati prodotti.
Nel 1998 Cesare Romiti lasciò l’azienda, e anche per lui, per sua fortuna vivente, ci furono pubblici elogi come salvatore dell’azienda e come manager che aveva saputo indirizzare non solo la Fiat, ma tutto il paese verso la via della competitività, distruggendo i vincoli e lacciuoli dei contratti e dei diritti del lavoro.
La gestione Fiat tornò alla famiglia Agnelli e a vari manager avvicendati e l’azienda precipitò verso il fallimento.
Nel 2004 la Fiat era di proprietà delle banche, che si erano svenate per un piano di salvataggio senza precedenti nel paese, e al suo capezzale venne chiamato il vice presidente dell’Unione Banche Svizzere, Sergio Marchionne.
Marchionne ha salvato la Fiat come azienda industriale italiana? Sicuramente no.
Seguendo la traccia dei suoi predecessori, Valletta e Romiti, Marchionne ha lavorato prima di tutto per gli interessi della famiglia Agnelli, oramai assai numerosa e fermamente interessata in tutte le sue componenti ad una quota certa di profitti.
Se nel passato era stato ancora possibile far parzialmente coincidere gli interessi della proprietà familiare con quelli dello sviluppo industriale dell’azienda, ora questo non si poteva più fare.
La proprietà, che addirittura aveva cercato di sbarazzarsi della produzione di automobili rifilandola a General Motors, non aveva certo intenzione di svenarsi per recuperare l’enorme gap tecnologico e di prodotti accumulato dal gruppo.
Ci sarebbero voluti almeno 20 miliardi di investimenti, quelli che Sergio Marchionne avrebbe promesso successivamente, quando decise di abolire il contratto nazionale.
Di quei 20 miliardi, che avrebbero dovuto rilanciare quella che Marchionne chiamò la Fabbrica Italia, si sono perse tutte le tracce in azienda e anche sui giornali di questi giorni.
La Fiat è stata salvata in un altro modo, con l’intervento dello stato non di quello italiano ma di quello statunitense.
Fu il salvataggio pubblico della Chrysler voluto da Barack Obama a permettere alla Fiat di evitare il fallimento e di questo va dato merito alla intelligenza politico finanziaria di Marchionne, che seppe vedere l’affare là dove la Mercedes era fuggita.
La Fiat salvò la Chrysler e fu salvata, naturalmente al prezzo di essere assorbita nella multinazionale americana, di cui ora è la succursale povera.
Non esiste più una industria automobilistica italiana e non solo perché la sede fiscale del gruppo Fca, nel quale la Fiat è assorbita, sta a Londra e quella legale in Olanda.
Dove si è localizzata anche la finanziaria della famiglia Agnelli, la Exor.
Anche la famiglia Agnelli, ora guidata da John Elkann, non è più una famiglia imprenditorialmente italiana.
Essa è diventata una famiglia del capitalismo globale proprio durante la gestione Marchionne, anche se il progetto probabilmente veniva da lontano. Perché tra i soci fondatori del gruppo Bilderberg, la famigerata lobby finanziaria internazionale, figurava proprio Vittorio Valletta.
Oggi la produzione di auto in Italia è ridotta al lumicino, con l’occupazione dimezzata da quando Marchionne divenne amministratore delegato della Fiat.
Progettazione e ricerca sono state smantellate e non vi sono nuovi modelli in arrivo, tanto è vero che in tutti gli stabilimenti residui dilaga la cassa integrazione.
Certo resta la gallina delle uova d’oro Ferrari, che non a caso è stata scorporata dalla Fiat e val più di essa.
Ma anche essa oramai è stata finanziarizzata all’estero e in ogni caso non potrà mai avere una produzione industriale di massa.
Il lascito industriale di Marchionne è quello della trasformazione della Fiat in una multinazionale americana con l’italia come sede marginale, quello finanziario è l’esternalizzazione delle proprietà della famiglia Agnelli, e quello sociale e politico?
Qui c’è il tratto più comune tra i tre manager che hanno fatto la storia della Fiat dal 1945 ad oggi: il rifiuto del sindacato solidale e di classe e la lotta feroce per eliminarlo dagli stabilimenti Fiat.
Tutti e tre gli amministratori delegati si sono ispirati a modelli esteri in questa loro opera. Valletta alla violenza antisindacale di Henry Ford e alla costruzione di sindacati di comodo in azienda con cui stipulare contratti al ribasso.
In realtà Valletta realizzò tutti i suoi obiettivi, la messa al confino della Fiom, la costituzione di un sindacato aziendale giallo da una scissione della Cisl con il Sida oggi Fismic, la soppressione di ogni libertà dei lavoratori; tutti tranne uno: la realizzazione di un contratto solo per i lavoratori Fiat.
Obiettivo che fu invece raggiunto da Marchionne, quando con il ricatto della chiusura degli stabilimenti, con la complicità di Cisl Uil e di tutta la politica ufficiale, impose ai lavoratori la rinuncia al contratto nazionale, mentre la Fiat abbandonava la Confindustria.
Romiti avrebbe invece voluto che nelle sue fabbriche si applicasse il modello giapponese di collaborazione e valorizzazione di un lavoro capace di essere fedele all’azienda. Dopo la dura repressione antisindacale degli anni ‘80, di cui elemento fondamentale fu l’uso discriminatorio della cassa integrazione, Romiti tentò di introdurre il modello di lavoro giapponese in particolare nello stabilimento di Rivalta a Torino e nella nuova fabbrica insediata a Melfi negli anni ‘90.
Ora però Rivalta è chiusa, ciò che resta di essa non è più Fiat, mentre a Melfi, sotto la gestione Marchionne è stato introdotto il sistema di tempi chiamato Ergo Was, cioè il più brutale e faticoso metodo fordista di lavoro.
In un certo senso dunque Marchionne ha portato a compimento il modello di Valletta, con una differenza fondamentale. Nel secolo scorso quel modello autoritario e discriminatorio si realizzava in un gruppo ed in un paese in grande espansione, tanto è vero che allora i salari Fiat erano più alti rispetto alla media del paese.
Oggi invece il salario di un operaio Fiat è tra i più bassi, ed il gruppo riduce progressivamente occupazione e produzioni in Italia.
Sia con Valletta, che con Romiti che con Marchionne la persecuzione dei lavoratori ribelli o scomodi ha prodotto drammi e tragedie.
I licenziati per discriminazione politica e sindacale degli anni 50 subirono sofferenze enormi. I cassaintegrati degli anni ‘80 pure e decine di essi si suicidarono, così come accadde di nuovo recentemente.
Maria Baratto si uccise pochi anni fa a Pomigliano dopo anni di cassa integrazione discriminatoria. E cinque operai che protestavano contro quel suicidio furono licenziati per offese a Marchionne.
Non è una questione di essere buoni o cattivi, è che non si governa la Fiat innocentemente.
Oggi Sergio Marchionne viene presentato come un innovatore a cui il paese avrebbe dovuto dare maggiore ascolto.
Ma in realtà lo ha fatto: il Jobs Act, come ha affermato lo stesso Matteo Renzi, è stato ispirato dalle posizioni sindacali e contrattuali di Marchionne.
Come nel passato, le vittorie contro i diritti dei lavoratori dei manager Fiat sono diventate l’esempio da seguire per tutta la società.
Un esempio regressivo.
Marchionne, come tutti i suoi predecessori, non ha difeso gli interessi del lavoro o del paese, ma quelli della proprietà.
Una proprietà, quella della famiglia Agnelli, sempre più gaudente ed avara, della quale tutto si può dire tranne che faccia gli interessi di tutti. È questa proprietà che periodicamente i grandi manager Fiat hanno salvato, ultimo Marchionne.
Era la loro missione e questa hanno realizzato.
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