Il salto della quaglia

12 Marzo 2009
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Franco Branca

Innanzitutto credo mi sia dovuta una replica a quanti, spero non conoscendomi, hanno semplicisticamente reagito qualificando il mio intervento come salto della quaglia.
Garantisco di non aver fatto nessun salto, anzi, al contrario, sono convinto di essere rimasto ben saldo nei miei convincimenti e comportamenti, che hanno profonde radici nella cultura democratica socialista e sardista. Cercherò, pertanto, di chiarire ulteriormente il motivo del mio voto a Cappellacci e non, per esempio, a Balia o ad uno dei candidati indipendentisti. L’ho fatto perché c’è stato un momento, durante la campagna elettorale, in cui anch’io sono stato convinto che Soru recuperava (quando Berlusconi aveva trasferito in Sardegna il suo domicilio del fine settimana), e non volevo correre il rischio di dovermi rammaricare per aver contribuito, anche se in modo indiretto, alla rielezione di Soru. Volevo essere sicuro di rimandarlo a casa. Perché, a mio parere, la situazione era diventata molto simile ad un referendum tra monarchia e repubblica. Non si trattava di fare conquiste di tipo socialista. Si trattava, purtroppo, molto più semplicemente e banalmente, di rimuovere una gigantesca anomalia che andava nel senso di un’involuzione del nostro sistema democratico, e di iniziare (ma è solo il primo passo) a ricreare le condizioni per un esercizio corretto dei rapporti democratici tra gli uomini nella nostra regione.
Per me il discorso voto si ferma qui. Non ho inteso abiurare né rinnegare niente nè, tantomeno, abbracciare ideali e prospettive diversi da quelli nei quali ho sempre creduto. Peraltro alle provinciali ho votato la socialista Luisella Fanny, persona di specchiata onestà e di limpida e costante militanza politica, se questo può rassicurare qualcuno.
Chi non comprende questa scelta, che, lo riconosco, è provocatoria e difficilmente condivisibile, forse non conosce bene la situazione che si era creata in tutto il tessuto politico e amministrativo dell’isola. Soltanto per esemplificare, e detto in modo pedestre: se eri un sindaco o un amministratore locale e volevi avere qualche possibilità di finanziamento dovevi essere portatore di progetti condivisi da Soru; se eri funzionario della Regione o di qualsiasi altra struttura amministrativa, potevi avere diritto di parola e di espressione soltanto se assecondavi i desiderata del GOVERNATORE. La Giunta Regionale era diventata la Giunta del GOVERNATORE, con persone che rispondevano esclusivamente a lui e non ai partiti di provenienza. Il Consiglio Regionale era ridotto ad un fastidioso passaggio obbligato in cui prevaleva quasi sempre l’esigenza di sopravvivenza (dei privilegi) rispetto all’affermazione delle proprie convinzioni. Dopo aver occupato tutti gli spazi nell’Amministrazione, Soru stava occupando anche tutto il PD, a livello regionale. Provate ad immaginare cosa ne sarebbe stato, con la sua rielezione, dell’opposizione interna ed esterna, e quali scenari si sarebbero aperti per lo sviluppo della sua megalomania (…già si parlava di futuro segretario del PD).
A parte la considerazione dall’altra parte è peggio, che sarebbe tutta da dimostrare, molti amici e compagni che hanno creduto in lui dall’inizio hanno motivato la loro scelta con la possibilità di un reale cambiamento di una situazione di rapporti cristallizzati all’interno delle organizzazioni della sinistra. Detto semplicemente: meglio lui, che li manda tutti a casa, ed ha la determinazione per fare le cose giuste, piuttosto che restare impantanati nelle solite beghe che non portano da nessuna parte. In altre parole: paghiamo un costo in termini di democrazia, ma il ricavo nelle realizzazioni è di gran lunga superiore.
E qui siamo arrivati al punto vero, al cuore della questione.
Il fine giustifica i mezzi? La mia risposta è no.
Se applichiamo il quesito alla realtà dell’esperienza Soru non possiamo che trovarvi una conferma. Dirò di più. In quell’affermazione risiede una delle maggiori concause culturali di generazione di fenomeni autoritari. L’altra è la rinuncia all’esercizio diretto delle proprie prerogative e diritti democratici e l’affidamento incondizionato ad altri della soluzione dei propri problemi.
Più sopra ho evidenziato in neretto la parola anomalia perché in realtà la radice profonda e la causa prima di questo disastro sta nella legislazione elettorale che concede il premio di maggioranza alla coalizione vincente e, soprattutto, affida al Governatore poteri eccessivi.
Teoricamente il Consiglio Regionale è l’organo LEGISLATIVO, cioè la sede nella quale i rappresentanti eletti dal popolo esprimono il massimo della propria potestà. Di fatto è diventato una sede imbarazzante e quasi superflua, con un ruolo reale di organismo CONSULTIVO, che riesce a ritrovare forza ed obbiettivi soltanto in occasione dell’approvazione della Legge Finanziaria, quando si apre il mercato e ciascuno – maggioranza e minoranza - riesce a portare a casa qualcosa.
Niente di strutturalmente diverso da ciò che accade a livello nazionale, dove i frutti del cosiddetto “maggioritario” sono rappresentati da una maggioranza che può fare e disfare a proprio piacimento e dove le speranze del PD sono legate esclusivamente alla eventualità di intemperanze della Lega.
E nonostante tutto, ancora, in funzione di un preteso modernismo istituzionale efficientista, all’interno della sinistra non si impone il tema di una battaglia forte per il ripristino del “proporzionale”.
Strettamente connesso a questo tema, e parte di un unico sistema di pensiero politico-culturale-istituzionale, è quello dell’esercizio diffuso della democrazia tra gli uomini, in tutte le loro organizzazioni.
I partiti oggi funzionano al rovescio di come dovrebbero. La volontà, che dovrebbe formarsi nelle assemblee di base, nasce dai massimi livelli del partito e viene espressa come tale ormai senza bisogno di alcuna mediazione. Il maggiore interprete di questo modo di intendere i rapporti istituzionali è stato proprio quello che oggi – paradossalmente - ne è la principale vittima: Veltroni.
È sempre così: quando le regole non sono giuste prima o poi a pagarne le conseguenze è anche chi ha imposto quelle regole.
Ma non finisce qui. Perché su questo punto devono fare autocritica i maggiori ex-dirigenti dei partiti della sinistra e del PD. Non dimentichiamo che Soru l’hanno voluto ed imposto i vertici nazionali DS e Margherita e che a livello regionale si era creato un asse di ferro i cui principali artefici erano Antonello Soro e Antonello Cabras. O abbiamo dimenticato il casino fatto da Gianmario Selis che stava sfasciando la Margherita pur di imporre Soru? Con il supporto esterno e costante di Luigi Cogodi, che, in questa partita ha sbagliato tutto e, a parte qualche intemperanza tattica, è stato coerentemente alleato di Soru.
Si poteva evitare questa abdicazione? Forse sì, se molti non avessero avuto “altro da fare”. Ma il problema più impellente oggi è, sopratutto, il “che fare?” Ma di questo, per non farla troppo lunga, dirò un’altra volta.

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