La questione istituzionale alla luce del pensiero di Gramsci

23 Agosto 2018
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19 Aprile 2009
Francesco Cocco

 

A settantadue anni dalla scomparsa di Antonio Gramsci, il suo pensiero si pone come uno strumento essenziale per uscire dalla grave crisi di partecipazione democratica che investe la società italiana e segnatamente quella sarda. Con questo intervento di Francesco Cocco, “Democrazia oggi” vuole avviare una riflessione, partendo da quel pensiero e da quella testimonianza di vita, sugli sviluppi della democrazia italiana.

Antonio Gramsci seppe uscire dalle angustie di una sardità chiusa, senza per questo perdere ciò che di vitale gli veniva da un rapporto vissuto intensamente col suo mondo d’origine. La Sardegna, durante i lunghi anni di detenzione carceraria, finì per saldarsi nella sua mente con gli orizzonti emergenti dai grandi conflitti storici ed ideali dei primi decenni del Novecento.
Dall’inconcludente ribellismo paleo-sardista espresso dalla parola d’ordine “al mare i continentali!” che - come egli stesso ci racconta - lo attrasse nelle prime esperienze politiche sarde, Gramsci passa al faticoso cammino intellettuale per individuare i meccanismi che avevano generato e consentivano il mantenimento della dipendenza della Sardegna da forze esterne.
L’indipendentismo era stato il primo orizzonte istituzionale del giovane Gramsci che fa il pendant col suo provincialismo da villaggio. Al di là della ingenuità che vi si può leggere, vi era già allora qualcosa di vecchio risalente alla formazione degli Stati nell’ Ottocento: una ricerca di sovranità statuale che si addiceva agli angioiani e post-angioiani a cavallo tra Sette e Ottocento più che ai nuovi orizzonti politici che un secolo dopo già cominciavano a guardare a processi di aggregazione soprannazionale. Ed infatti quando, dopo il primo conflitto mondiale, la questione sarda raggiunge un livello di maggior maturità, la soluzione proposta non è quella di “buttare al mare i continentali” ma rivendicare autonomia politica, il riconoscimento della propria soggettività di popolo nell’ambito della più ampia soggettività nazionale italiana.
Occorre dare atto che il concetto d’indipendentismo presenta significati non riconducibili semplicisticamente alla conquista di una sovranità che nasce dall’alto. Per cui si è indipendenti solo se si è titolari di un potere che non riconosce alcun altro potere superiore. E’ la concezione della sovranità intesa in senso verticale. Concezione vecchia di molti secoli, coeva al nascere dello Stato moderno.
Accanto a questa vi è una concezione più democratica, secondo la quale la sovranità nasce dal basso, dalle articolazioni istituzionali di base dello Stato. Un qualche riconoscimento di questa nuova concezione è presente nella nuova stesura del titolo V della Costituzione, all’art. 114 che detta “La Repubblica è costituita dai comuni,dalle province, dalle città metropolitane,dalle regioni e dallo stato. . . . ” Certo “la sovnaità - come detta l’art. 1 - appartiene al popolo” ma poi in concreto il suo esercizio è nelle mani degli enti esponenziali delle comunità e lo stato è posto su un piano di parità con gli altri enti esponenziali.
Bisogna riconoscere che in questa trasformazione concettuale e di linguaggio vi è alquanta confusione, ma in ogni caso vi è un principio nuovo: il superamento della concezione della sovranità di stampo medioevale per approdare ad istituzionalizzare una concezione democratica della stessa sovranità. Tutto ciò è importante perché crea le basi di una soluzione federalista della Repubblica.
Vediamo come tale soluzione federalista possa attagliarsi alle categorie gramsciane. Egli seppe andare oltre il feticismo di un’unità statuale meramente formale, per ricercare i filoni più profondi dei processi di aggregazione sociale e quindi istizionali.
Gramsci guardò con favore al federalismo e nelle tesi dei congressi del PCdI di Lione e di Colonia vi emerge chiaramente questo atteggiamento favorevole .
In tale posizione certamente vi era il fascino, ancora intatto, della Rivoluzione russa del ‘17, (l’URSS come grande repubblica federale di nazionalità), ma soprattutto vi era la consapevolezza che occorreva andare oltre l’intelaiatura sabauda data agli stati preunitari nel processo di unificazione risorgimentale. E la ricerca che Gramsci portò avanti per un decennio in carcere è finalizzata a questo: analizzare lo società italiana in tutte le sue varie componenti per riaggregarla su più solide basi.
In questo è la profonda differenza tra il federalismo gramsciano e certe problematiche federaliste che vengono agitate In Italia da circa un ventennio. Al grande disegno federalista gramsciano, che poi si riallaccia al disegno federalista risorgimentale e pos-risorgimentale, vedo oggi contrapporsi il disegno nominalmente federalista, in realtà scissionista, del leghismo. Se è lecito paragonare i grandi ai nani, il primo (Gramsci) mirava a federare su più solide basi unitarie, il secondo (leghismo) persegue sostanzialmente l’obiettivo della scissione del Nord, anche se oggi attenuata dalla partecipazione al governo del Paese..
Anche la sinistra, nel tentativo di bloccare lo scissionismo che contagia larghe frange del Nord, si è dato una strategia nominalmente federalista che ha portato ad alcune pasticciate modifiche sedicenti federaliste.
La verità che oggi siamo persino ancora lontani da quell’autonomismo avanzato previsto dalla Costituzione e dallo Statuto speciale. Si fa passare per “federalismo interno” qualche decentramento di competenze ai Comuni ed alle Province. In realtà siamo ben lontani dall’integrale attuazione dell’art. 44 St. Spec. “la regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici.”
Per attuare il federalismo occorre una vera e profonda riforma istituzionale. E’ necessaria una reale rottura della formula binaria che continua di fatto a caratterizzare l’organizzazione della nostra Repubblica. Bisogna che cessi la coesistenza tra il filone del potere della amministrazione centrale dello Stato accanto al filone delle autonomie locali.
La riforma del 2001 ha attenuato ma non spezzato questo sistema. Per rompere questa formula di organizzazione del potere pubblico occorre una grande operazione culturale sul solco della lezione gramsciano. Occorre cioè rompere i nostri feticci culturali in un ritrovato senso dello Stato e del prevalere dell’ interesse generale sugli interessi particolari. Ma questa è la grande rivoluzione culturale morale di cui parlava Gramsci.

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